domenica 21 agosto 2016

L'INCOMPRENSIONE DELL'€UROPA: ALLA CORTE COSTITUZIONALE SFUGGE LO SVIAMENTO DI POTERE LEGISLATIVO- 2


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1. Torniamo, ancora una volta, sulla ricostruzione della vicenda relativa alla prevalenza "selettiva" del diritto "comunitario" sulle fonti di livello costituzionale nazionali, quale affermata dalla Corte di giustizia europea già nel 1964 e seguita dall'adeguamento empirico, e apparentemente pragmatico, della nostra Corte costituzionale (in più fasi e fino ai nostri giorni). 
Il punto più importante, e oggi straordinariamente attuale, è che il successivo ampliamento delle "attribuzioni" della Comunità europea, fino a Maastricht, e alla di poco successiva trasformazione in Unione europea, avrebbero posto l'esigenza di rivedere, nelle sue stesse premesse, il passaggio fondamentale con cui la Corte nazionale cedette il terreno, in modo praticamente irreversibile, alla prevalenza, (contraddittoriamente selettiva), del diritto europeo sulla Costituzione.
Il principio unificante di tale vicenda che ha guidato la Corte costituzionale italiana è che un trattato economico incida per definizione "solo" sui "rapporti economici" e non su quelli sociali e politici.  
Ciò aveva una certa sostenibilità, - peraltro sempre contrassegnata da forti limiti di comprensione del paradigma economico sottostante ai trattati-, all'inizio degli anni '70; lo stesso, tuttavia, non si può dire per i contenuti del "vincolo esterno" che parte dallo SME, passa per l'Atto Unico e arriva al "Maastricht" dell'unione monetaria

2. Questo criterio "nominalistico-formale" della Corte, basato sul sillogismo che se un trattato è di natura economica e dice, nella sua intitolazione epigrafica, di essere volto alla pace e alla cooperazione, ciò va preso come presupposto incontroverso, sottratto ad ogni sindacato critico in termini di compatibilià coi principi fondamentali della Costituzione, denota la perdita, già negli anni '70, della consapevolezza circa l'inscindibilità, - affermata dai vari Ruini, Ghidini, Basso, Mortati, Calamandrei, in sede costituente- tra principi fondamentali della persona, al cui vertice assoluto è normativamente posto quello lavoristico, e Costituzione "economica".
I lavori dell'Assemblea Costituente rivelano come la Costituzione economica avesse, - e in realtà  abbia ancor oggi-, il senso della previsione di strumenti la cui applicazione è indispensabile per l'attuazione della democrazia del lavoro che è il perno della Carta del 1948: l'applicazione di tali strumenti di politica fiscale, economica e industriale non è un connotato eventuale e potenziale dell'indirizzo politico della Repubblica, ma è, come viene detto espressamente, oggetto di un obbligo il cui mancato assolvimento vanifica proprio i diritti fondamentali della persona nel quadro della "eguaglianza sostanziale", quali intesi dai Costituenti.

3. Le origini della vicenda storico-giurisprudenziale in questione si fondano su una serie di significativi elementi:
a) il caso "Costa contro Enel" (sentenza della Corte di giustizia europea del 15 luglio 1964, che si contrappose alla sentenza della Corte costituzionale 24 febbraio 1964, n.14, sensatamente "sovranista" e correttamente applicativa dell'art.11 Cost. secondo l'originaria volontà dei Costituenti), scaturì dal ricorso proposto da due giuristi italiani, il professore di diritto costituzionale Giangaleazzo Stendardi e l'avvocato Flaminio Costa. 
Ci pare storicamente molto interessante tradurre quanto riferito, dalla fonte citata, sulla visione teorico-scientifca del primo: Stendardi aveva teorizzato il ruolo dell'attivismo legale davanti alle Corti come un quasi-sostituto della "responsabilità politica", in particolare al livello europeo. In vari scritti, prima e dopo il caso "Costa", sosteneva che "non è necessario avere un parlamento direttamente eletto dal popolo per realizzare la protezione dei cittadini; si richiedeva soltanto l'esistenza di una procedura idonea a proteggere gli individui direttamente di fronte alla organizzazione [europea]...Questo forte "credo" nella "Legge" come sommo strumento di protezione dei cittadini (persino più importante dell'esercizio del voto), fu naturalmente attivato in tale contesto contro la legge italiana di nazionalizzazione [del settore elettrico]. Stendardi, che era stato professore aggiunto alla scuola milanese "Bocconi" negli anni '50, e al tempo era un membro attivo del partito liberale italiano a Milano, era fortemente critico sul progressivo processo delle nazionalizzazioni in Italia".

b) Negli anni successivi alla sentenza "Costa contro Enel", (dopo un resistenza iniziale sul cui superamento aleggia tutt'ora il mistero, dato che la nostra Costituzione e il senso attribuitogli dal valore vincolante dei lavori della Costituente non erano mutati),  la nostra Corte costituzionale arrivò a enunciare i presupposti della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale e sulla stessa fonte costituzionale...a certe condizioni. Sul punto commenta Arturo


E fu così che i liberali, che in Assemblea Costituente erano "quattro noci in un sacco", come ebbe a dire efficacemente il vecchio Togliatti, riuscirono a piantare un virus di portata europea in Costituzione, rispetto ai cui effetti devastanti la Corte Costituzionale ha dimostrato negli anni una cecità che si commenta da sola (basti ricordare la sent. 183 del 1973, in cui si ritiene estremamente improbabile ”l’ipotesi di un regolamento comunitario che possa incidere in materia di rapporti civili, etico-sociali, politici, con di­sposizioni contrastanti con la Costituzione italiana”, in quanto la ”competenza normativa degli organi della CEE è prevista dall’art. 189 del trattato di Roma” è limitata “a materie concernenti i rapporti economici”. Ah, beh, se si tratta "solo" di rapporti economici allora siamo tranquilli... 
4. Dal complesso delle fonti che abbiamo finora messo insieme, possiamo trarre alcune conclusioni, che servano possibilmente da chiarimento per individuare un filo conduttore in un insieme di dati storici e di concetti che, altrimenti, rischiano di sfuggire nella loro coerenza unitaria.
Questa, infatti, emerge se proiettata nel corso dei decenni, nei quali si collocano gli antecedenti ora riassunti ed in coordinamento con altri elementi sopravvenuti, ma fin dall'origine rispondenti ad un disegno iniziale, a realizzazione "progressiva" (temi già analizzati in questa sede)
a) l'idea, fatta propria dalla Corte costituzionale, che un trattato (parliamo di quello di Roma del 1957), che predicasse la creazione di un "mercato comune", promuovendo espressamente la libera circolazione "delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali", cioè un trattato di sostanziale liberoscambio, non avesse influenza sui "rapporti civili, etico-sociali e politici", è non solo manifestamente illogica dal punto di vista della attendibilità economica, ma contraria agli stessi espressi enunciati del trattato stesso (intediamo quello c.d. di Roma). 
a1) Traiamo dalla fonte ufficiale (UE) appena linkata
"Dopo il fallimento della CED (comunità europea della difesa), il settore economico, meno soggetto alle resistenze nazionali rispetto ad altri settori, diventa il campo consensuale della cooperazione sovranazionale. Con l'istituzione della CEE e la creazione del mercato comune si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo consiste nella trasformazione delle condizioni economiche degli scambi e della produzione nella Comunità. Il secondo, più politico, vede nella CEE un contributo alla costruzione funzionale dell'Europa politica e un passo verso un'unificazione più ampia dell'Europa".

b) dunque, le stesse istituzioni UE hanno sempre e costantemente inteso il trattato (già quello del 1957) come avente uno scopo politico a cui l'approccio economico era essenzialmente strumentale: ma tale strumento si connotava, fin da allora, in senso liberoscambista e, co-essenzialmente, improntato all'idea neo-liberista della libertà di concorrenza come ipotesi macroeconomica fondata sulla prevalenza del sistema dei prezzi, affidati alle dinamiche dell'economia privata non ostacolata dall'intervento dello Stato nel raggiungere l'efficienza allocativa. 
Quest'ultima non è univocamente volta a "crescita e sviluppo", ma subordina dichiaratamente entrambi alle condizioni della stabilità dei prezzi nonché della preferenza per la flessibilità verso il basso dei prezzi relativi ai costi d'impresa (in primis i salari), che consentono l'ipotizzata efficienza allocativa della singola impresa, automaticamente estensibile a equilibrio generale: cioè, in modo trasparente, i trattati europei, fin dagli anni '50, propugnavano l'idea del liberismo neo-classico, superata, anzi respinta, esplicitamente dalla nostra Costituzione. 
Postulato, ossessivamente esplicitato, è che l'attività economica si esplichi in condizione di "libera concorrenza" e che ciò sia ostacolato dall'intervento dello Stato sulle dinamiche del mercato

5. Citiamo ancora, per sottolineare la dichiarata chiarezza di questa concezione secondo la stessa fonte istituzionale europea:
"Il mercato comune si basa sulle famose "quattro libertà": libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.
Esso crea uno spazio economico unificato che permette la libera concorrenza tra le imprese, e pone le basi per ravvicinare le condizioni di scambio dei prodotti e dei servizi che non sono già coperti dagli altri trattati (CECA e Euratom).
L'articolo 8 del trattato CEE prevede che la realizzazione del mercato comune si compia nel corso di un periodo transitorio di dodici anni, diviso in tre tappe di quattro anni ciascuna. Per ogni tappa è previsto un complesso di azioni che devono essere intraprese e condotte insieme. Fatte salve le eccezioni o deroghe previste dal trattato, la fine del periodo transitorio costituisce il termine per l'entrata in vigore di tutte le norme relative all'instaurazione del mercato comune.
Poiché il mercato è fondato sul principio della libera concorrenza, il trattato vieta le intese tra imprese e gli aiuti di Stato (salvo deroghe previste dal trattato) che possono influire sugli scambi tra Stati membri e che hanno per oggetto o effetto di impedire, limitare o falsare la concorrenza. 
...La Corte già disponeva di questo quadro di interpretazione autentica e vincolante dei trattati. L'influenza delle politiche tese ad instaurare la "libera concorrenza tra le imprese" su: 
a) livello dell'occupazione; 
b) livello dei salari; 
c) livello delle inevitabilmente connesse prestazioni previdenziali (e, più in generale, di ogni altra forma pubblica erogatrice di salario indiretto o differito, tra cui spiccano le prestazioni dell'istruzione e della sanità pubbliche), era obiettivamente conoscibile e prevedibile: non come questione scientifico-economica ma come effetto inevitabilmente predicato sul piano normativo dai trattati
...E ciò era infatti ben possibile da cogliere, anche per una Corte composta da giuristi, fin dagli anni '70, assumendo come riferimento interpretativo, certamente accessibile sul piano del dovuto chiarimento delle norme, le teorie economiche che predicano l'equilibrio del sistema sulla base dell'ipotesi (propria dei trattati) di vigenza e promozione della libera concorrenza: questa operazione di "ribaltamento" dell'impostazione socio-economica accolta in Costituzione,  era di immediata percezione se ci si fosse basati sui lavori dell'Assemblea Costituente, dove la connessione tra "Repubblica democratica fondata sul lavoro" e sua realizzazione attraverso l'intervento economico dello Stato volto alla piena occupazione, era stata costituzionalizzata per respingere proprio tali teorie, (come viene ampiamente evidenziato ne "La Costituzione nella palude")
Era solo questione di tempo perché gli effetti sociali, cioè sul mondo del lavoro, sul livello di occupazione e sul benessere diffuso, di questa impostazione economica, che è in sé una forte scelta politica di riorganizzazione sociale e dei rapporti di produzione, - che abbiamo visto espressamente enunciata dalla fonti ufficiali europee_ , si facessero sentire e iniziassero a modificare, nell'evidenza dei fatti, gli stessi rapporti politici
E la gradualità e estensione pervasiva delle relative politiche era espressamente prevista dal trattato del 1957, come, altrettanto, abbiamo appena visto. 
e) Ma non solo: lo svolgimento di politiche coinvolgenti un numero crescente di settori economici a forte impatto sociale (al "minimo" agricoltura e trasporti) era altrettanto previsto ab origine, fino al punto di includervi tout-court, ed espressamente, la "politica industriale" che, come ci descrive Caffè, è il perno della sovranità effettiva di uno Stato, cioè la ragion d'essere delle "funzioni e gli scopi dello Stato": essa attiene infatti al problema di decisione politica, preliminare ad ogni altra, di "cosa e quanto produrre e cosa scambiare con gli altri paesi", determinando il livello del reddito nazionale e dell'occupazione e, quindi, in definitiva, l'assetto del benessere diffuso della Nazione. 
Per contro, è, o dovrebbe essere, fatto notorio che un trattato liberoscambista, basato sull'inevitabile ipotesi delle funzioni economiche dello Stato come ostacolo principale all'allocazione efficiente delle risorse, assume come prioritaria, (su quella dello Stato), l'azione del mercato spontaneamente regolantesi secondo il principio allocativo dei "vantaggi comparati": tale meccanismo insito nel liberoscambio crea inevitabilmente, nelle sue stesse dichiarate premesse teoriche, una competizione commerciale e industriale tesa a instaurare una gerarchia tra gli Stati aderenti, con pochi vincitori e molti perdenti nella stessa competizione

5.1. Per completezza di ricostruzione occorre svolgere qui un inciso che mostra come esista un processo senza soluzione di continuità tra le origini "ideologiche" del trattato del 1957, la sua aspirazione a realizzare tutti i previsti elementi fondamentali del mercato comune "in tre tappe", lungo l'arco di dodici anni, e l'adozione della moneta unica come coessenziale esito di tale processo concepito fin dall'inizione.
La moneta unica, con tutto il suo carico di riassetto sociale e politico, immaginato come rivincita deflazionista e antilavoristica (imperniata sulla idea della perfetta flessibilità del prezzo del lavoro, sulla sua precarizzazione come corollario dell'idea che non esista disoccupazione involontaria, e sul mito della banca centrale indipendente che sterilizza, col costo del debito "giudicato" dai mercati, l'intervento pubblico di sostegno all'occupazione) si pone dunque come obiettivo concepito fin dall'inizio e a cui la fase iniziale dei dodici anni era funzionale.
Ce lo dimostrano i tempi e i contenuti del Rapporto Werner del 1971, di cui abbiamo parlato qui, mostrando le perplessità di Carli e di Maiocchi (riprese nella "Costituzione nella palude"). L'arrembante continuità tra moneta unica e suo (non)governo istituzionale tramite la sola banca centrale e la esclusione di ogni dimensione solidale interna all'area valutaria, sono frutto dell'attività negoziale costruttivista europea immediatamente posta in essere alla scadenza dei 12 anni di applicazione del Trattato di Roma:

RAPPORTO WERNER

Il Consiglio europeo del 6.3.1970 incaricava un comitato di esperti presieduto dal lussemburghese Pierre Werner di formulare proposte per la realizzazione dell’Unione economica e monetaria. L’incarico seguiva la decisione del vertice dei capi di Stato dell’Aja del dicembre precedente di adottare come obiettivo ufficiale della Comunità la realizzazione dell’UEM (v. piano Barre). 
Nell’ottobre 1970 il gruppo Werner presentò la sua relazione definitiva, nella quale era prevista l’attuazione entro dieci anni, secondo un piano a tre fasi, dell’unione economica e monetaria integrale
L’obiettivo finale era giungere alla liberalizzazione integrale dei movimenti di capitali e alla determinazione irrevocabile dei rapporti di parità o addirittura alla sostituzione delle monete nazionali con una moneta unica
Nella relazione si raccomandava inoltre di rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e di determinare gli orientamenti nel settore delle politiche statali di bilancio
Il rapporto ha rappresentato il primo programma per la realizzazione dell’Unione Economica e Monetaria. Adottato dal Consiglio europeo del 22.3.1971, il Rapporto prevedeva che si arrivasse all’Unione monetaria gradualmente, con la liberazione dei movimenti dei capitali, l’integrazione dei mercati bancari e finanziari, l’eliminazione dei margini di fluttuazione e la fissazione delle parità di scambio. La prima fase di realizzazione dell’UEM, corrispondente alla riduzione dei margini di fluttuazione monetaria, doveva attuarsi su base sperimentale, senza implicare nessun impegno per la continuazione del processo. Questo sforzo non si è concretizzato a causa della crisi del dollaro del1971 e della distanza fra le diverse organizzazioni economiche dei sei Paesi allora membri della Comunità europea.

5.3. Questo, a sua volta, era stato il (presupposto) "Piano Barre"; notare anche qui i tempi che confermano la non soluzione di continuità e l'inesistenza di uno "spirito" originario e solidale che abbiamo mai caratterizzato la progressione del federalismo europeo verso i suoi originari e invariabili obiettivi:

PIANO BARRE

Noto anche come Rapporto (o relazione) Barre, è il Commission Memorandum to the Council on the Co-ordination of Economic Policies and Monetary Co-operation within the Community  predisposto da Raymond Barre, vice presidente della Commissione europea e presentato il 12.2.1969
Esso era stato annunciato dalla Commissione in un memo al Consiglio dei ministri del 5.12.1968
Il Memorandum conteneva tre raccomandazioni: coordinamento stretto delle politiche economiche a breve termine, convergenza degli obiettivi delle politiche economiche nazionali a medio termine e costituzione di un meccanismo della Comunità per la cooperazione monetaria attraverso interventi di breve termine di sostegno monetario e possibilità di assistenza finanziaria a medio termine. 
La convergenza delle politiche economiche riguardava l’evoluzione delle variabili economiche di produzione, occupazione, prezzi, saldo della bilancia dei pagamenti corrente degli Stati membri e doveva realizzarsi attraverso un confronto e un accordo tra i ministri responsabili della politica economica e monetaria. 
I meccanismi di cooperazione monetaria vennero realizzati con l’istituzione del Fecom (3.4.1973; cessato nel 1993). 
Il progetto, denominato Plan Barre, veniva accolto dal Consiglio dei ministri del luglio 1969
Sulla sua base il vertice dell’Aia del dicembre 1969 adottava come obiettivo ufficiale della Comunità la realizzazione dell’UEM e il Consiglio dei ministri incaricava il 6.3.1970 un gruppo ad alto livello presieduto da Pierre Werner, capo del governo lussemburghese, di redigere un rapporto sui mezzi da attivare per conseguire tale obiettivo entro il 1980. Il rapporto veniva presentato nell’ottobre 1970 e prevedeva la realizzazione dell’UEM in tre tappe (v. rapporto Werner). Il Piano Barre non va confuso con il Plan Barre, predisposto nel 1976 dal Governo francese per il risanamento economico della Francia.
6. L'implicito estendersi in progressione del meccanismo dei "vantaggi comparati" è anch'esso enunciato nel trattato del 1957, e preannuncia, senza equivoci, che le "politiche" che si assumeva l'istituzione CEE consistevano in "condizionalità" a carico degli Stati - limitative dei loro scopi e funzioni costituzionalmente sanciti...in precedenza- per consentire la riallocazione propria degli stessi vantaggi comparati. Ecco la conferma dalla stessa fonte, per quanto inframmezzata dal continuo reiterare fumosi obiettivi di miglioramento occupazionale e del "tenore di vita" (mai riscontrati come conseguenza delle politiche europee, in tutto l'arco del loro dispiegarsi, e neppure coerenti con la cornice scientifico-economica della "forte" reciproca competizione insita nel liberoscambismo):
"Alcune politiche sono previste formalmente dal trattato, come la politica agricola comune (articoli 38-47), la politica commerciale comune (articoli 110-116) e la politica comune dei trasporti (articoli 74-84). 
Altre possono essere intraprese a seconda delle necessità, come previsto all'articolo 235, secondo cui "quando un'azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri d'azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e dopo aver consultato l'Assemblea, prende le disposizioni del caso". 
Sin dal vertice di Parigi dell'ottobre 1972, il ricorso a tale articolo ha permesso alla Comunità di sviluppare azioni nei settori della politica ambientale, regionale, sociale e industriale.
Oltre allo sviluppo di tali politiche viene creato il Fondo sociale europeo, diretto a migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori e il loro tenore di vita, e istituita una Banca europea per gli investimenti, destinata ad agevolare l'espansione economica della Comunità attraverso la creazione di nuove risorse".
7. Oggi noi sappiamo che la Corte si trova a fronteggiare direttamente un problema, posto dalla disciplina europea, che, solo in apparenza, appare (più) esplicitamente incidente, rispetto al passato, sui rapporti politici, sociali e civili: quello del pareggio di bilancio.
In realtà, com'è facile arguire da quanto precede, questa incidenza era già presente nella genetica impostazione della costruzione economico-politica europea e la Corte, ormai consolidatasi in una linea ignara di tali eclatanti premesse politico-economiche, si trova (quasi con sorpresa), a fronteggiare solo l'inasprimento quantitativo -inevitabile nel quadro normativo della moneta unica- di una tendenza che non è stata in grado di cogliere nei decenni precedenti.
Di questo aspetto ci siamo già occupati sia in "Euro e(o?) democrazia costituzionale" che ne "La Costituzione nella palude".
Richiamiamo qui dei post che ne sono parte fondamentale:


1) COSTITUZIONALITA' DELLE MANOVRE FINANZIARIE. UN DUBBIO INTERNO ALLA STESSA COSTITUZIONE 

2) LA DOTTRINA DELLE BANCHE CENTRALI INDIPENDENTI E LA SUA ATTUALE EVOLUZIONE 

3) IL REDDE RATIONEM: LA CORTE IN MEZZO AL GUADO (l'emergenza democratica più grave dal 1948)


8. Nel terzo di tali post avevamo commentato un articolo di Federico Fubini che esprimeva il seguente concetto:"...il conflitto fra interpretazione della Costituzione italiana, regole europee e risorse è più acuto che mai. Lo è al tal punto che, in ambienti del governo, sta emergendo una tentazione: chiedere un rinvio del caso alla Corte di giustizia europea, per chiarire se la sentenza della Consulta italiana sia coerente con gli impegni di bilancio firmati a Bruxelles. 
Il nuovo Patto di stabilità (il “Six Pack” e il “Two Pack”) sono inclusi nel Trattato, dunque hanno rango costituzionale e il diritto europeo fa premio su quello nazionale. Il governo italiano potrebbe chiedere alla Corte di Lussemburgo se la sentenza dei giudici di Roma sia compatibile con essi."

A questo perentorio assunto del "fa premio su quello nazionale" (di diritto costituzionale) avevamo opposto la sentenza della Corte costituzionale n.238/2014, dove era ribadita la vigenza dei controlimiti, cioè della invalicabilità dei diritti fondamentali previsti nella Costituzione, nei confronti di qualunque fonte europea. 
Questa consolidata affermazione basterebbe perché l'asserzione gerarchico-militare di Fubini fosse già confutata. La sentenza della Corte costituzionale in materia di "adeguamento pensionistico"  ne è una traccia, ma, come abbiamo evidenziato, indiretta.

9. Questo perché, la Corte, in quella occasione, come in tutte le ulteriori in cui ha svolto in modo puramente notarile il suo sindacato, ha richiamato, come clausola di  "chiusura" (se non "di stile"), - non necessitante di verifica e motivazione circa la sua armonizzazione coi principi fondamentali della Carta del 1948-, la necessità di rispettare gli obblighi assunti in sede europea".
La Corte, in realtà, ha talvolta (nella migliore delle ipotesi), aggirato l'ostacolo ponendosi in "mezzo al guado" di un compromesso tra due soluzioni inconciliabili, che l'hanno, allo stato, tatticamente arrestata sulle soglie di un problema diverso da quello del sindacato sulla compatibilità costituzionale dei trattati (ci riferiamo al problema degli effetti restitutori e ripristinatori delle sentenze della Corte, che dovrebbero contrassegnare l'effettività della tutela da essa accordata).
Con ciò, da un lato, rifiutando di metterne in discussione la effettiva connessione coi pretesi scopi di "risanamento economico", di "superamento della crisi" e di promozione della crescita enunciati verbalmente come  "titolo" giustificativo nominalistico dalla disciplina imposta dal diritto europeo, scopi che esso in concreto non ottiene e non persegue (e nessuno lo afferma nemmeno più, neppure tra i massimi responsabili della politica economica), dall'altro, evitando di affrontare il cuore del problema: cioè cercare di spiegare quali siano le cause effettive della crisi economica italiana, sviluppatasi, dopo il 2011, in dipendenza delle politiche fiscali imposte dal mero scopo di mantenere in vita l'euro a detrimento del livello di occupazione e salariale.

10. Ebbene, l'ignorare le dichiarate premesse politico economiche del fiscal compact (come della moneta unica e della banca centrale indipendente) determina, per la Corte costituzionale, l'impossibilità di risolvere questo genere di problemi in modo logico e conforme al dettato costituzionale.
Questo, nella sua essenza indeclinabile, non dovrebbe mai consentire una norma, di qualsiasi fonte, che in concreto, e per "fatto notorio", abbia una finalità limitativa dell'occupazione - strumentale alla deflazione salariale necessaria nel quadro normativo dell'eurozona al mero mantenimento della moneta unica.  
Ma questo atteggiamento di "nominalismo acritico" discende dalla scelta contraddittoria operata con le prime sentenze del 1973 e seguenti: deriva cioè dall'illusione di poter considerare in qualche modo "neutrale" la sovrapposizione del sistema neo-liberista rafforzato dal trattato di Maastricht rispetto alla questione fondamentale di quali siano "i fini e le funzioni dello Stato", per usare le parole di Caffè, previsti dalla Costituzione in rapporto alle politiche economiche e fiscali
Queste ultime politiche, cioè l'effettività del programma costituzionale di realizzazione dell'eguaglianza sostanziale e della Repubblica fondata sul lavoro, non possono continuare a essere considerate un "qualcos'altro" rispetto alla tutela dei diritti fondamentali della persona.
L'alternativa al recepire in pieno questa interconnessione di supremo valore normativo, voluta dai Costituenti in un'armonia complessa (come disse Basso in un celebre intervento in Costituente), sarebbe quella di separare dai restanti diritti fondamentali il diritto al lavoro, depotenziandoli in un colpo tutti insieme: ma arrivando così a ratificarne quel carattere di "mero enunciato enfatico" (oggi tanto di moda), che non solo fu respinto come formula dagli stessi Costituenti, ma la cui accettazione ridisegna definitivamente, in senso profondamente modificativo, l'insieme dei diritti fondamentali concepiti nella Costituzione del 1948.

11. La Corte, come abbiamo già visto, assume come aprioristicamente attendibile ciò che è invece fortemente e ragionevolmente dubitabile: e cioè che gli obblighi assunti verso l'UE e che hanno portato alle politiche dettate dal fiscal compact, (inclusi i patti di stabilità interna che tanto incidono sul livello minimo essenziale delle prestazioni ad ogni livello di governo territoriale), siano stati contratti per superare la crisi economica italiana e "tornare alla crescita".
Ma nel far ciò si limita ad accettare come incontestabile questo enunciato puramente nominale, cioè a ritenere che siccome una fonte europea - e la legislazione conseguente che l'Italia è costretta ad adottare- enuncia un fine, questo sia indubitabilmente rispondente al vero.
E sarebbe non solo, per (acritica) presunzione normativa, "vero", ma per di più insindacabile: la Corte non si pone il problema di verificare gli effetti completamente contraddittori delle politiche di conservazione della moneta unica,  alla luce della irrisolvibile recessione e stagnazione che da esse derivano, con il vertiginoso aumento del rapporto debito/PIL che, pure, in tutta l'eurozona, testimonia questa stessa contraddittorietà e inattendibilità delle politiche di "risanamento finanziario"...per la crescita e la "stabilità finanziaria"!

12. Eppure, una verifica di tali pseudo-finalità sarebbe con immediatezza possibile ad ogni "normale" osservatore della congiuntura economica dell'eurozona e, in particolare dell'Italia (la più zelante nell'osservare i dettami del "fiscal compact"), portando alla rilevazione di un colossale caso di eccesso di potere legislativo, non ignorabile nel prendere atto dei dati macroeconomici dello Stato italiano, accessibili a livello ufficiale (su fonti governative e Eurostat) .
L'eccesso di potere nella forma dello "sviamento di potere", la forma più grave ed insidiosa, in termini di democrazia e di aspettative ingannevoli suscitate presso i cittadini,  si ha quando un atto della pubblica autorità dichiara una sua finalità giustificativa (di presunto pubblico interesse, legalmente prestabilito) ma, in base a oggettivi ed univoci dati intrinseci (premesse rinvenibili nei fatti politici) e estrinseci (rilevazione degli effetti divergenti concretamente perseguiti), si rivela oggettivamente volto ad una diversa e non dichiarata finalità.

13. Ma, oltre ai dati macroeconomici, anche gli stessi presupposti "scientifici", giustificativi del fiscal compact, assunti dichiaratamente dalle istituzioni europee che l'hanno imposto, sono tutt'ora ignorati dalla Corte, nonostante il passare degli anni e l'accumularsi delle conferme di un'analisi "ufficiale" divergente da quella che la Corte continua a condividere
Con questo, in pratica, chiudendosi in un mondo di enunciati inerziali e fuori dal dibattito politico-economico che agita l'intera UEM, che ha reso ormai di pubblico dominio gli scopi effettivi del fiscal compact: la correzione degli squilibri commerciali e finanziari scaturenti dal meccanismo della moneta unica al fine esclusivo di mantenere in vita quest'ultima.

Questa presunzione assoluta di veridicità delle "intitolazioni" strategiche delle fonti europee, scisse dai loro scopi effettivi, facilmente accertabili in base a imponenti analisi e giustificazioni provenienti da dichiarazioni formali delle più importanti istituzioni europee, pare un vecchio punto debole della nostra Corte.
Un punto debole che si riverbera sulla operatività dei più autentici principi fondamentali della Costituzione del 1948 e che denuncia ormai un difettoso approccio culturale e interpretativo che ha superato i quaranta anni. 
Al punto che, via via che si accumula una giurisprudenza costituzionale intessuta di diritti ex-fondamentali che cedono di fronte all'art.81 della Costituzione (fonte di "revisione" subordinata a quella costituzionale primigenia del Potere Costituente), con l'acuirsi della crisi del paradigma ordoliberista dei trattati, divenuto insostenibile per centinaia di milioni di cittadini, la Corte si troverà in una condizione non dissimile da quella dei soldati giapponesi, dispersi su remote isole, e che continuavano a combattere a oltranza una guerra già finita...

23 commenti:

  1. Carissimi,
    anche oggi ho trovato Libero sotto l'ombrellone. Lo compera mio suocero (dipendente pubblico, prossimo alla pensione), ed anche questo è interessante, perché prima portava il Corriere, ma evidentemente dal 15 si è 'convertito' a Libero, a seguito delle 11 pagine anti-euro.
    Anche oggi -e dunque, immagino, per l'intera settimana- Libero titola contro l'euro: Aziende in fuga per non morire, colpa di euro e ue. Si tratta di un articolo di Feltri, con tutti i limiti e le contraddizioni facilmente intuibili.
    Però, sempre in prima pagina, c'è di nuovo Becchi, con un bell'articolo di critica alla sentenza della Corte Costituzionale di luglio, che ha ritenuto infondate le questioni sollevate in riferimento al c. d. contributo di solidarietà pensionistico.
    Ho letto la sentenza -cosa che prima non avevo fatto-, e in effetti è impressionante constatare come la Corte dia per assodate delle verità, circa il sistema pensionistico italiano e la sua grave crisi, che mutua dall'esterno e non si premura in alcun modo di verificare.
    C'è di buono che, come era intuibile, quella di Libero vuole essere una vera e propria campagna che, con tutti i limiti della sede, può essere comunque un inizio, tanto più valido grazie ai contributi di Becchi.
    Speriamo possa crearsi un contagio in altri giornali, specie a seguito dell'interesse del loro lettore medio (come, appunto, mio suocero).
    Tom

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  2. Il momento è maturo da qui al referendum credo indispensabile che Luciano e Alberto assieme si presentino in almeno 5 (cinque) occasioni di proposta concreta ed attuabile di un ripensamento della proposta più o meno velata di +€ che arriva da tutti i canali informativi.
    I temi devono essere programmatici ad una forza politica che pone l basi x una visione chiara e programmatica in vista del 2018, impegnando il M5S a una linea definitiva e condivisibile.

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    1. Rispondo senza sarcasmo: il M5S?

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    2. Peccato che il 35% sia presupposto estrinseco di mero fatto, in una situazione in cui il movimento stesso ha una linea abbastanza definitiva, direi ostentata, e sicuramente opposta e incompatibile.

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    3. Cecconi, per carità di Patria non pubblico più i suoi commenti: o lei non si rende conto del lavoro svolto in questi anni e vuole imporre, con piglio autoritario (e non richiesto da alcuno), il suo personalissimo wishful thinking, oppure non ha studiato, com'è invece indispensabile, e crede di poter dare giudizi su quello che non sa e che non riuscirà mai a vedere.

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  3. Il problema più tragico è che la virulenza del liberalismo è nella carne e nelle ossa di tutti.

    Putroppo con il tragico epicentro nelle capitali dell'impero.

    Al liberalismo si opponeva la grande cultura italiana - su tutti Gramsci - e in particolare tedesca - si pensi a List o Gustav Von Schmoller... sterminate da bocconiani e friburghesi.

    Il liberalismo classico è una malattia.

    E il liberalismo sociale inglese la sua antitesi: il dramma di fondare qualsiasi costruzione ideale sulla libertà dovrebbe essere autoevidente.

    Come si fa a fondare un sistema di pensiero su un'Idea - la Libertà - che nasce limitata per definizione?

    La cecità delle persone più istruite è stata alimentata dall'equazione tutta angloamericana "liberalismo" = "opposto del totalitarismo".

    Si badi bene che non si denuncia semplicemente il liberismo economico.

    Il liberalismo ideologico ne è una diretta conseguenza sovrastrutturale.

    Data la precedente equazione, alla persona viene sottratta la categoria di pensiero più importante per comprendere l'essenza del totalitarismo liberale: un totalitarismo assoluto che vede tutta la realtà umana non più passare dal partito del mercato - ovvero il partito fascista o quello nazista - ma dal mercato stesso.

    La Chiesa del mercato.

    Mi perdonino i fedeli: ma se il fascismo ha avuto un precedente - a livello di "ingegneria sociale" - questo è stata l'esperienza giudaico-cristiana, con tutta la sua carica psicotica di dissonanza cognitiva tra Etica e reali rapporti di produzione: espressione materiale, reale, carnale, della morale in cui è conservata la struttura delle relazioni sociali su cui è edificato il corpo sociali: la Chiesa nella sua concreta storicità.

    Il peccato è negli occhi di chi lo cerca.

    E la Chiesa sta cercando altri templi; anzi, li ha già trovati, insieme al suo nuovo clero e alla nuova casta di sconosciuti intoccabili.

    La distopia liberale che nasce nei suoi contenuti morali in pancia all'esperienza cristiana, parassita completamente le menti di gran parte dell'umanità: in modo totalitario. Nel senso più proprio del termine.

    Cosa c'è di più assolutamente autoritario, universalizzante e totalitario di chiamare naturale ciò che è artificiale?

    Non è cretinismo: è psicopatia.

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    1. Assolutamente: totalitario sta nel predicare come "naturale", e cialtronescamente "scientfico", ciò che si proietta, sull'intera storia dell'umanità, dalla convenienza del presente, e su questa premessa, affermare una universalità normativa di rapporti di forza che stabilizzino oligarchie sociopatiche.

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    2. Ed è proprio *qui* che sta la differenza, e la grandezza, di Dossetti (Non abbiate paura dello Stato!, Vita e Pensiero, Milano, 2014, pp. 55-56):

      "Accettare questo corpo sociale in alcune realtà incomprimibili, che sono quelle prima dette, ma poi reformare quelle e le altre: e questo richiede, è indubbio, un’analisi sociologica che si ponga, in una determinata situazione storica, con una spietata sincerità, con uno smascheramento di tutte le ipocrisie, con uno smascheramento di tutti i luoghi comuni usati anche in buona fede per la tranquillizzazione della nostra coscienza. L’analisi sociologica che deve essere assunta a base di questa scelta deve essere veramente uno di quei momenti supremi di verità in cui veramente si adempie il nostro dovere cristiano. Solo a questo patto si può, allora, assicurare la genuinità del potere politico, altrimenti si potrebbe dire che questo regna, ma non governa, e solo a questo patto, per esempio, si può dare al suffragio universale un contenuto che vada oltre il puro momento della investitura.”

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  4. la cedevolezza delle corti costituzionali di fronte alla fermezza della cgue, e' oltremodo significativa se si trae a memoria l'antico insegnamento di Esposito secondo il quale nella norma costituzionale il mometo del fatto e quello del diritto coincidono . cio rende il diritto costituzionale unico rispetto alle altre branche della scienza giuridica: in queste oggetto di valutazione e' il giudizio di conformita di un fatto ad una norma, in quello il fatto e' gia norma: ne deriva che indipendentemente dalla caratteristica scritta o orale, la costituzione come la consuetudine sempre si inquasra fra le fonti fatto dell ordinamento (caratteristica comune solo con il diritto internazionale classico, e necessitata dal fatto che la dualita minima soggettiva nell ambito extra nazionale riposa giocoforza sul principio di sovranita, che e il "fatto politico" presupposto della fonte fatto costituzione). ma proprio questa unicita accomuna le norme costituzionali con quelle internazionali su un puano ulteriore: quello della loro fragilita. spiegava crisafulli che proprio perche apicali e fattuali, se proprio i (pochi) organi superiori dello stato cessano di applicarla non vi sono ulteriori norme sovraordinate ne autorita suppletive a cui ricorrere. la forza e salubrita della costituzione sta tutta nella forza e salubrita degli organi costituzionali (la corte, ma non solo) nel farla valere. ora la cgue prende molto sul serio la propria "carta costituzionale" formata da tue e tfue nonche diritto derivato e non esita a proporre interpretazioni evolutive, espansive o additive delle proprie norme. l affermazione del principio di primazia, letteralmente inventato dalla corte europea di giustizia in costa contro enel, con qualche preavviso nella di poco anteriore van gend and loos e la cedevolezza dei tribunali costituzionali ad accettarlo ha realmente trasformato i trattati europei da atto fonte in fatto fonte, e in relazione al preteso carattere originario dell ordinamento ue, ha subordinato per via di fatto la costituzione ad essi, riducendola a fonte atto di cui e possibile vagliare la legittimita rispetto a una norma superiore (idem per la giurisprudenza) come di una legge con una costituzione rigida o di un regolamento alla legge. questo passaggio che giuridicamente puo scomporsi in una primazia della legge di ratifica dei trattati ue sulla costituzione, politicamente si manifesta nella superiorita dell esecutivo sul legislativo (anche qui per via di mero fatto dato che sempre il parlamento avrebbe il potere di sfiduciare il governo). si tratta ne piu ne meno di un ritorno al precostituzionalismo ottocentesco di ancien regime dove al sovrano (o la classe dominante in grnere) tutto venuva concesso senza limiti che la legge morale di dio o la pieta degli uomini. un retrocesso che non sfugge ad haberle quando parla del paradosso della debolezza: delegando poteri e competenze ad una istanza sovranazionale i governi possono fare cio che in patria non verrebbe permesso loro, vuoi dalla opposizione politica vuoi, sul piano legale, dalla gerarchia delle fonti. e quindi sacrosanto rilevare come la mancanza di democrazia nelle scelte europee riflette un deficit di democrazia e rappresentativita a livello nazionale. tuttavia cone spesso succede l'elemento di maggiore forza rappresenya anche la maggiore debolezza, nel diritto come nella vita :) proprio perche il proncipio di costituzionalita (che la cgue vuole fermamente fare proprio) e un principio fattuale e sottoposto a attacchi e tensioni e in tanto vale in quanto e concretamente in grado di imporsi alle pressioni centrifughe che lo tentano. abbiamo visto gli esiti di questo scontro delle forze nel caso della brexitt e abbiamo visto chi ha vinto. nel giorno della riunione di ventotene (dell europa cooperativa a 28 in cui in tre si riuniscono per decidere) e pero doveroso ricordare anche un altro esito, quello della guerra di secessione in america

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  5. vedremo quale sara il midello europeo. nel frattempo parafrasando dumas la felicita sta tutta in queste parole: aspettare e sperare

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    1. Ne desumo che non conosce il blog: gli argomenti copiosamente accumulati nel commento sono stati esaminati in dettaglio, analitico e sistematico, seguendo però un approccio "economico-istituzionalista".

      Senza di esso, la struttura fenomenologica della costruzione europea, - cioè la restaurazione del capitalismo sfrenato ante crisi del 1929, in odio alle Costituzioni keynesiane del welfare, e la riaffermazione del potere formale delle oligarchie (che è poi il costituzionalismo ottocentesco)-, rimane una questione un po' misteriosa e lasciata alla opinabilità delle personali visioni (dei giuristi, incapaci di cogliere il paradigma modificativo della struttura sociale in senso contrario alla democrazia sostanziale, cioè economica nel senso inteso da Basso, ancora predicata dalla nostra Costituzione SCRITTA: e non a caso tale).

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    2. verissimo presidente! ognuno porta sua croce. i politici che per interesse o ignavoa hanno venduto la costituzione economica e i diritti sociali. gli economisti che per gli stessi motivi hanno negato cio che sta scritto sui manuali di macro economia. e pure i giuristi che se avessero preso sul serio la loro Carta, invece di avallare i trattati, tutta cosmesi valorial solidaristica e imposizione della scuola di chicago piu pura e dura, la garanzia fornita dalla forma scritta della nostra costituzione sarebbe ben piu effettiva. cio che cercavo di dire, male, me ne rendo conto, e che la legge non e scritta sulla pietra: se e in uno scontro diretto la corte costituzionale non difende la sua carta, prevarra, come adesso prevale, quell altro sistema che deriva dai trattati e ci ritroveremo senza saperlo in un mutato ordinamento costituzionale, con un opposto posizionamento sui diritti economici e sociali rispetto al modello di eguaglianza sostanziale che ci e proprio

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    3. No il punto era chiaro (rammento l'invito a mettere punto a capo e a separare i periodi).
      Ma è che non è che ci "ritroveremo", quanto che GIA' ci ritroviamo "in un mutato ordine costituzionale con un opposto posizionamento sui diritti sociali".
      Argomento, appunto, di questo blog e dei due libri che ne sono scaturiti.

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  6. Leggendo quest’ennesimo post straordinario non riesco a capacitarmi di come sia possibile un tale livello di incomprensione del sistema €urista, soprattutto a livello di giurisprudenza costituzionale. E’ possibile che si tratti “solo” di ignoranza (economica certamente)? O per converso, può essere tutta mala fede? In entrambi i casi, dal punto di vista della puntuale analisi giuridico-economica riportata, il fenomeno presenta tratti di palese abnormità sconfinante nella patologia (tecnicamente, la psicopatia segnalata da Bazaar). Sono infatti gli stessi interrogativi che, mutatis mutandis, si poneva Lelio Basso allorchè, dopo l’entrata in vogore della Costituzione, denunciava l’incorporazione automatica di tutte le leggi fasciste nel nuovo Stato che avrebbe dovuto essere “democratico”. Basso, nel riportare il pensiero di Marx sul passaggio dal capitalismo al socialismo, articolando questo emozionante discorso sull’argomento “Giustizia e potere” (di cui riporto i passi salienti), forniva una tesi plausibile riassumibile altresì in una citazione di Pietro Barcellona contenuta in “La Costituzione nella palude” (pag. 74): “…quando il potere è saldamente in mano alle potenti lobby degli affari e della finanza, dei circoli mediatici e della manipolazione delle informazioni, i giuristi si abbandonano al cosmopolitismo umanitario e si arruolano nel “grande partito” delle buone intenzioni e delle buone maniere; magari fornendo una INCONSAPEVOLE LEGITTIMAZIONE al mantenimento dello stato di cose esistenti”. Pertanto, pensando ai giudici (costituzionali e non) che assecondano questo paradigma illecito, voglio abbandonarmi (solo per un momento) al passo evangelico “perdona loro, perché non sanno quello che fanno”, senza che ciò possa umanamente scusarli per l’ingiustizia perpetrata:

    “… La funzione ideologica del diritto - Le vie sulle quali la nuova società procede dalla vecchia sono molteplici anche nell’ordinamento giuridico. C’è da tenere in considerazione in primo luogo quella che è la FUNZIONE IDEOLOGICA DEL DIRITTO. In che senso uso questa parola? A mio giudizio la classe dominante attribuisce all’ordinamento giuridico, oltre che la funzione normativa per regolare i rapporti sociali, anche una funzione ideologica, velando, mistificando la vera natura dei rapporti stessi. Voi ricordate che Marx ci ha insegnato, lo leggete nel Capitale, che i fenomeni sociali si presentano a due livelli diversi: c’è la Erscheinungsform, la forma fenomenica, e c’è il verborgene hintergrund, IL SUBSTRATO NASCOSTO. Orbene LA SOCIETÀ ATTUALE NON PUÒ CONFESSARE IL SUO SUBSTRATO NASCOSTO, qualche volta neppure tanto nascosto, DI ESSERE CIOÈ UNA SOCIETÀ DI RAPINA, DI SFRUTTAMENTO, DI OPPRESSIONE O DI DISUGUAGLIANZA. PER FARLO ACCETTARE DEVE VELARE QUANTO PIÙ LE È POSSIBILE QUESTA REALTÀ E PRESENTARSI COME UNA SOCIETÀ DI GIUSTI, DI LIBERI, DI EGUALI. L’altro giorno un magistrato ricordava una frase che leggiamo sopra il capo dei giudici nelle aule giudiziarie “La legge è uguale per tutti”. Ebbene, questo è un principio mistificatore, è espressione della funzione ideologica che ha l’ordinamento giuridico, cioè quella di FAR CREDERE AI CITTADINI CHE ESSI SONO TUTTI UGUALI DI FRONTE ALLA LEGGE, MENTRE NELLA REALTÀ, NEL SUBSTRATO CHE SI CERCA DI NASCONDERE, I CITTADINI SONO PROFONDAMENTE DISUGUALI. (segue)

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  7. Quando si dice che in Italia c’è il suffragio universale e che il voto è uguale per tutti, noi sappiamo che è uguale solo nel senso che numericamente ogni scheda conta per un voto, ma sappiamo anche che dietro ogni scheda c’è una tale disuguaglianza di condizioni sociali che i cittadini non sono certamente in condizioni uguali nell’esprimere e tanto meno nel far pesare la propria volontà. QUESTA NECESSITÀ CHE HA LA CLASSE CAPITALISTICA DI NASCONDERE, DI VELARE SEMPRE LA REALTÀ DEI RAPPORTI SOCIALI, DI NON FAR TROPPO APPARIRE I RAPPORTI DI DISUGUAGLIANZA, DI SFRUTTAMENTO, DI OPPRESSIONE, E DI PRESENTARSI SEMPRE COME UNA SOCIETÀ DI LIBERI E DI UGUALI, È UNA CONDIZIONE INDISPENSABILE PERCHÉ IL CAPITALISMO SOPRAVVIVA. In altre parole il capitalismo può sopravvivere se riesce ad assicurarsi una base di consenso anche fra i lavoratori sfruttati e questo può accadere in virtù di quello che chiamiamo IL PROCESSO D’INTEGRAZIONE, DI CUI LA MISTIFICAZIONE IDEOLOGICA È UN MOMENTO NECESSARIO. Questa mistificazione ideologica si manifestò fin dall’origine: già al sorgere del capitalismo si cercò di persuadere gli operai che nel contratto di lavoro, con cui l’operaio vendeva la sua forza di lavoro al capitalista che la comprava, c’era uno scambio di equivalenti, cioè tanto l’operaio dava e tanto riceveva. E questa teoria degli equivalenti viene invocata ancora oggi per sostenere che non c’è sfruttamento, che tanto si dà e tanto si riceve.
    Allo stesso modo l’ordinamento borghese insiste talmente sui principi della libertà e della uguaglianza, che molti alla fine non vedono più le disuguaglianze reali, o perlomeno non le attribuiscono al sistema, alla divisione in classi, e si accontentano degli aspetti giuridico-formali per dare il proprio consenso a questa società. DI CIÒ IL CAPITALISMO HA ASSOLUTAMENTE BISOGNO: non può rinunciare da un lato alla funzione normativa per mantenere intatti i rapporti di sfruttamento, MA NON PUÒ NEPPURE RINUNCIARE ALLA FUNZIONE IDEOLOGICA DEL DIRITTO, CIOÈ A VELARE LA REALTÀ DEI RAPPORTI SOTTO UNA SERIE DI AFFERMAZIONI DI LIBERTÀ E DI UGUAGLIANZA…. (segue)

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  8. I nuovi valori culturali -… un’altra via attraverso la quale la società di domani può entrare nell’ordinamento di oggi è quella che potremmo chiamare la via silenziosa, cioè il mutamento di significato delle parole, delle espressioni. Non c’è bisogno di mutare il testo letterale della norma per cambiarne il significato, quando la norma contiene espressioni il cui significato è strettamente legato al contesto socio-culturale. Espressioni come “ordine pubblico”, “pubblica decenza”, “buon costume”, “particolare valore morale e sociale”, “senso di umanità” (art. 27 della Costituzione), “utilità sociale” o “dignità umana” (art. 41 sull’iniziativa privata), “funzione sociale” (art. 42 sulla proprietà privata), ecc., che cosa precisamente significano? Significano quello che di volta in volta l’ambiente culturale gli fa significare, e possono perciò essere interpretate in modo diverso pur senza modificare la norma. Il valore morale e sociale di un atto sarà valutato in modo diverso in un regime fascista e in un regime democratico. Del pari quando si dice che la proprietà privata è subordinata alla funzione sociale, dipende dal significato che diamo alla funzione sociale (e questo significato cambia nel corso del tempo e cambia anche in funzione delle nostre lotte) vedere quale è la posizione della proprietà nei confronti della collettività. Abbiamo tutta una serie di espressioni il cui significato è strettamente legato allo sviluppo socio-culturale, e modificando il contesto socio-culturale si modifica automaticamente anche il significato della norma. Quindi nella misura in cui noi riusciamo, non solo a conquistare nuove leggi e nuove norme, ma anche a introdurre nuovi valori culturali nella società, noi modifichiamo l’ordinamento, cioè diamo al magistrato, all’operatore del diritto, strumenti operativi pratici per interpretare in modo diverso la legge e le disposizioni. Purtroppo è questo un aspetto che il movimento operaio ha curato poco, perché troppo spesso ha accettato in modo subalterno i valori culturali borghesi… (segue)

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  9. Il ruolo del magistrato-
    Qui si è discusso…sul rapporto fra il magistrato in quanto tale, nella sua attività specifica, e il mondo esterno. Io credo che bisogna tenere conto di entrambi gli aspetti. Da un lato è evidente che SENZA IL LEGAME CON IL MONDO ESTERNO, CON LE LOTTE OPERAIE, CON I PROCESSI CULTURALI che si svolgono nella società, la fatica dell’interprete diventa puramente tecnica, senza grande utilità. Ma d’altra parte non possiamo pensare che il magistrato debba trascurare o anche soltanto sottovalutare la sua funzione, il suo ruolo specifico per disperdersi nella lotta generale, perché alla lotta generale egli partecipa anche quando esercita, in modo responsabile, la sua funzione. Questo mi sembra oggi il ruolo fondamentale che spetta ai magistrati. Ci siamo battuti in passato per l’indipendenza dei magistrati, un’indipendenza assai relativa …Ci sono state indagini sociologiche sull’ambiente sociale dal quale i magistrati derivano, ma non credo che sia questo l’elemento principale; io credo che sia molto più importante il fatto che essi sono inseriti in un apparato, L’APPARATO GIUDIZIARIO, CHE È A SUA VOLTA UN CONGEGNO DI UN APPARATO GENERALE, L’APPARATO DI POTERE DI UNA SOCIETÀ CAPITALISTICA, funzionale alla logica capitalistica, un apparato giudiziario organizzato per ubbidire a quella logica. CHI VIVE DENTRO A QUESTO APPARATO E NE DIPENDE NELLA SUA VITA QUOTIDIANA, FINISCE ANCHE CON L’ESSERE, MAGARI INCONSCIAMENTE, UN PORTAVOCE ED ESECUTORE DELLE ESIGENZE DELL’APPARATO. …Un famoso giudice della Corte Costituzionale americana, il giudice Holmes, scrisse una volta che nelle sentenze del magistrato c’è sempre quella che egli chiamò “UNA PREMESSA MAGGIORE NON ARTICOLATA” che non viene quasi mai espressa nero su bianco ma che è sempre sottintesa, e cioè CHE L’ORDINAMENTO SOCIALE CAPITALISTICO DEVE ESSERE DIFESO E SALVAGUARDATO. Credo che sotto questo rapporto si siano già fatti in Italia dei passi notevoli rispetto al passato, per merito principalmente di Magistratura democratica. Certo anche una volta ci potevano essere magistrati più o meno democratici, ma io, che esercito la professione dal 1925, NON CONOSCEVO ALLORA NESSUN MAGISTRATO CHE SI RITENESSE, ANCHE SE APPARTENEVA AL PARTITO SOCIALISTA O COMUNISTA (E CE N’ERANO VERAMENTE ASSAI POCHI, SE PURE C’ERANO), CHE COMUNQUE SI SENTISSE PROPRIO IN QUANTO MAGISTRATO IMPEGNATO DIRETTAMENTE NELLA LOTTA DI CLASSE. Pensavano di essere, in quanto magistrati, al di sopra delle classi, e se militavano in un partito prescindevano dal loro ruolo di magistrati. La tendenza, che qui è apparsa evidente, a una magistratura che si riconosca espressamente impegnata nel movimento della lotta di classe, è una conquista recente, ed è una conquista molto importante che sarebbe erroneo sottovalutare. Certo, questi giudici sono una minoranza. Le loro decisioni possono essere riformate o cassate. Tuttavia ciò, a mio giudizio, non diminuisce il significato del fenomeno. Se sarà riformata o cassata, quella sentenza non passerà in giudicato. Essa però esiste, e rimane, perlomeno, come un fatto culturale, che ha la sua influenza. Vorrei ripetere qui quello che ho già detto al congresso di Trieste: IO DO UNA GRANDE IMPORTANZA ALLA CONQUISTA CULTURALE CHE SI FA ATTRAVERSO UN CERTO TIPO DI SENTENZE, ATTRAVERSO UN CERTO INDIRIZZO GIURISPRUDENZIALE. QUESTE SENTENZE, ANCHE SE POI SARANNO RIFORMATE, CASSATE, AVRANNO AVUTO UNA CERTA RISONANZA NELLA PUBBLICA OPINIONE, AIUTERANNO COMUNQUE A DISTRUGGERE DEI TABÙ, A DISSACRARE LE COSE SACRE DEL CAPITALISMO… (segue)

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  10. E con queste sentenze, a mio giudizio, anche se poi verranno riformate, anche se vi sarà una corte di cassazione o una corte d’appello che diranno tutto il contrario, quello che io chiamo fatto culturale rimane; il pubblico si sarà abituato a leggere queste cose e a ripeterle e specialmente quanto più la sentenza sarà fortemente innovatrice, nella sua interpretazione, tanto più troverà eco nella stampa, troverà risonanza nella pubblica opinione, troverà altri avvocati che la utilizzeranno e la ripeteranno in altri processi, troverà forse ascolto nella coscienza di altri magistrati che non la respingeranno. È UN LAVORO LENTO, PAZIENTE, SOTTILE QUELLO CHE SI DEVE FARE PER TRASFORMARE E MODIFICARE I VALORI CULTURALI. PERÒ IO SONO INTIMAMENTE CONVINTO, E VOGLIO INSISTERE SU CIÒ, CHE SOTTO QUESTO ASPETTO LE SENTENZE POSSONO AVERE UN GRANDE VALORE, E CIÒ TANTO PIÙ SE NON SONO RIPETIZIONE DI VECCHI SCHEMI, MA AL CONTRARIO, QUANTO PIÙ GRANDE È LA LORO ORIGINALITÀ, NATURALMENTE PURCHÉ SIANO SERIAMENTE ARGOMENTATE ANCHE SUL PIANO LOGICO-GIURIDICO. Si tratta appunto di trovare in queste brecce che sono già aperte nell’ordinamento, in queste contraddizioni, lo strumento per una interpretazione alternativa; nella misura in cui trovate nell’ordinamento una interpretazione tecnicamente valida che vi apre nuovi orizzonti, voi rendete un immenso servizio non solo alla giustizia, ma anche al progresso e alla cultura, quel progresso sociale e culturale che, come abbiamo visto, a poco a poco modifica anche le norme giuridiche. (segue)

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  11. I valori antagonistici nella lotta di classe-
    … E’ certo che le riforme si debbono fare nella misura in cui si possono fare, ma l’aiuto principale, lo sforzo principale deve essere quello di fare ciascuno ogni giorno il proprio dovere, al proprio posto di lotta nella società: il movimento operaio la lotta di classe, i sindacalisti le loro battaglie sindacali, gli uomini di cultura le battaglie culturali. anzi a questo proposito vorrei aggiungere che uno dei maggiori rimproveri che si possono fare alla sinistra, al movimento operaio italiano, è di non avere curato sufficientemente questo aspetto della lotta, che io invece considero estremamente importante, cioè L’ELABORAZIONE DI NUOVI VALORI CULTURALI ANTAGONISTICI A QUELLI DELLA SOCIETÀ IN CUI VIVIAMO, L’ELABORAZIONE DI TUTTO UN NUOVO SISTEMA DI VALORI. La cultura del movimento operaio è quasi sempre una cultura subalterna che accetta i valori della classe dominante, e ho l’impressione che ancora oggi molti di noi, MAGARI INCONSCIAMENTE, continuino ad accettare, per fare un esempio, la società consumistica. Confesso che vorrei contarli i militanti che sanno resistere alla passione della società consumistica, a questa tipica manifestazione della cultura borghese, e temo che su questo terreno noi subiamo troppo spesso, senza troppo resistere, la pressione avversaria. Il nemico di classe lavora dentro di noi, SOTTO FORMA DI UNA CULTURA BORGHESE, CHE CI È INSTILLATA DALLA NASCITA GOCCIA A GOCCIA, CHE CI RINTRONA, CI RIECHEGGIA DA TUTTE LE PARTI, E ALLA QUALE NON OPPONIAMO UNA DIFESA SUFFICIENTE, ANCHE PERCHÉ, DICIAMO LA VERITÀ, UNA AUTENTICA CULTURA SOCIALISTA NON ESISTE ANCORA. Ed è all’elaborazione di questa cultura che siamo chiamati a dare un contributo concreto, non da soli evidentemente, perché non c’è una battaglia degli uomini di cultura, una battaglia dei magistrati, una battaglia degli operai, c’è una lotta di classe che si combatte tutti assieme, ma in cui ciascuno, oltre alla battaglia generale, ha anche un suo compito specifico....

    Siamo in una epoca di grandi trasformazioni, siamo in una fase in cui la storia diventa fucina di elaborazione di valori nuovi, e noi, noi classe operaia, ne potremmo trarre delle armi di lotta formidabili, purché non ci capiti, come altre volte è accaduto, di passare accanto a questi fenomeni senza accorgerci della loro portata reale. Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di dare battaglia su tutte le posizioni, SAPENDO CHE L’AVANZATA DELLA REPRESSIONE È IL SEGNO CHE IL MOVIMENTO OPERAIO STA SCUOTENDO IL SUO GIOGO. QUANDO LA NOTTE È PIÙ FONDA È SEGNO CHE L’ALBA È VICINA, E FORSE DOPO L’ALBA VERRÀ L’AURORA CHE TINGERÀ DI ROSSO IL NOSTRO CIELO. (segue)

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  12. In questo lavoro comune, uomini di cultura, magistrati, movimento operaio, in questo lavoro che ci impegna tutti, che ci impegna, lo ripeto, non ciascuno solo nel suo settore parziale, nel chiuso della sua specialità, che ci impegna nel processo generale naturalmente con le nostre specifiche capacità, in questo processo cosi complesso, ricco e articolato, è difficile dire chi più dà, chi più riceve. In un documento, che mi è parso pregevolissimo, di Magistratura democratica milanese c’è l’affermazione che nel rapporto con l’esterno quello che i magistrati hanno da ricevere è ben più importante di quello che hanno da offrire. È una osservazione che può essere utile contro il rischio, che può essere talvolta presente, di isolare il ruolo del giudice e di attribuirgli una funzione preminente anziché considerarlo come un momento del processo complessivo di lotta e di avanzata del movimento. Ma sarebbe una affermazione pericolosa se fosse espressione di una tendenza a sottovalutare, o addirittura a negare, l’importanza dell’attività del giudice, considerato come un fatto sovrastrutturale, che, secondo una concezione meccanicistica e adialettica, non sarebbe che un mero prodotto della struttura. Dobbiamo invece abituarci a vedere sempre i nessi fra i diversi momenti della nostra comune lotta…
    tutto “si tiene” in questo processo che si chiama storia, movimento reale, avanzata verso il socialismo, e noi non dobbiamo mai cadere nell’errore né di crederci il demiurgo che risolve tutti i problemi né di considerare inutile la nostra semplice e talvolta anonima fatica quotidiana. Soprattutto vorrei dire ai magistrati che vivono in un ambiente difficile e possono talvolta sentirsi sfiduciati, che sarebbe un errore pensare che il loro lavoro possa non avere risonanza, e non influire sul processo della lotta di classe, sullo sviluppo della coscienza dei cittadini, sulla maturazione degli elementi di una nuova società, che deve maturare nelle coscienze per avere fondamenta solide. Mi sembra, per concludere, che il significato ultimo che possiamo trarre da questo dibattito, e chiedo scusa se non avrò interpretato bene il vostro discorso, sia questo: la lotta di classe è una lotta unitaria, che combattiamo tutti assieme … operai, uomini di cultura, operatori del diritto. Tutti siamo impegnati nello stesso sforzo, e non possiamo stare a misurare chi dà di più e chi dà di meno; cerchiamo, ciascuno di noi, di portare in questa battaglia il meglio di noi stessi, ciascuno il nostro tenace, quotidiano, paziente, oscuro, umile ed alto lavoro, perché è solo su questo lavoro anonimo della collettività che può fondarsi una società più giusta, a misura dell’uomo…” [L. BASSO, Giustizia e potere, in Qualegiustizia, settembre-dicembre 1971, n. 11/12, 644-659].

    A Lei, Presidente, ed al Suo alto lavoro culturale

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    1. La "retroazione" delle sovrastrutture giuridico-politiche sui brutali rapporti di forza tra chi è proprietario nel ciclo produttivo o - come nell'attuale capitalismo finanziario - chi questo ciclo lo "controlla", e - dall'altro capo - lavoratori dipendenti, liberi professionisti e PMI. Gli oppressi.

      (Notare che il capitale, come ha fatto con il lavoro ha poi fatto con i mezzi di produzione: è passato dalla proprietà al controllo *deresponsabilizzato*)

      Questa "retroazione" a fini "progressivi" deve nascere da una dialettica all'interno delle sovastrutture; e questa nasce in cima alla costruzione sociale come coscienza antagonista alla diffusa falsa coscienza: l'ideologia che opprime in modo totale le classi subalterne.

      Nella "modernità" il liberalismo.

      (Parlare di "capitalismo" tout-court può essere fuorviante, perché ha un connotato idealistico-filosofico che è fuori dal concreto tempo della Storia: l'antogonismo al capitale consiste nel limitarne la libertà, ossia nel ricondurlo keynesianamente a fini sociali: lo stesso Lenin con la NEP parlava espressamente di capitalismo di stato, con ben più margini di "libero mercato" di quello che venne realizzato successivamente alla sua prematura morte. La modifica reale delle strutture sociali sono ad un meta-livello fuori dall'arbitrio politico. Da questa constatazione la necessità della filosofia della storia hegelo-marxiana che fungeva da "contenitore ideologico", e in cui, però, si poteva attingere ad un bagaglio di strumenti cognitivi volti alla prassi politica... il "materialismo storico" è un urlo a ricordarsi dell'empirismo! La datità dei rapporti sociali, da intuire per quello che sono in sé).

      Lenin disse che "eravamo troppo incivili per realizzare il socialismo".

      Civiltà è cultura diffusa.

      Il "socialismo" da realizzare era una organizzazione esattamente opposta alla "democrazia liberale", ovvero alla "democrazia filosofica"... ossia assomigliava tanto tanto alla democrazia proprio come ogni oppresso in cuor suo si è sempre immaginato: un po' come quella del secondo comma del terzo articolo di Basso....

      Che infatti ci ricorda il ruolo della cultura, della "lotta" intesa come prassi funzionale alla coscienza.

      Perché senza coscienza non esiste dialettica: « questa teoria degli equivalenti viene invocata ancora oggi per sostenere che non c’è sfruttamento, che tanto si dà e tanto si riceve. »

      Ovvero si fa passare che ciò che è artificio umano, arbitrio politico sia naturale, e questo consiste nello strumento per eradicare la coscienza e promuovere in modo totalitario falsa coscienza, ovverosia incoscienza.

      Senza coscienza non ci può essere dialettica nelle sovrastrutture, e non ci può essere "retroazione progressiva" sulla struttura.

      Coscienza è letteralmente vita.

      Infatti abbiamo avuto "Mani Pulite"... giustappunto propedeutica a Maastricht e allo smantellamento delle prime fragili fondamenta delle democrazie sociali.

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  13. Grazie di cuore, Bazaar, e' sempre un'avventura intellettuale leggerti :-)

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