mercoledì 31 luglio 2013

LA "GRANDE SOCIETA'" E LE "TANTE" SOCIETA': PRIMA MODIFICANO LA COSTITUZIONE E POI COLPEVOLIZZANO...LA CORTE COSTITUZIONALE

Commentiamo oggi un articolo di Massimo Bordignon, apparso sul Sole24 ore:

Le organizzazioni che funzionano sono quelle in cui c'è qualcuno che decide e poi è punito o premiato. Se questo meccanismo non funziona, l'organizzazione non funziona. È vero sia per le imprese private che per le amministrazioni pubbliche. Ma in quest'ultimo caso le cose sono più complesse: non c'è un sistema di mercato che almeno in qualche misura disciplina gli amministratori inefficienti. E i decisori nell'ambito pubblico sono i politici, i cui obiettivi sono spesso di breve termine, mentre l'impatto delle decisioni è di lungo periodo. Per esempio, i politici italiani degli anni 80 sono stati bravi nel prendere decisioni che hanno massimizzato il consenso nell'immediato, scaricando, con l'enorme debito pubblico, gli oneri sulle generazioni future. Per gli enti locali il problema è ancora più complesso.

La premessa è condivisibile, trattandosi dei principi generali del diritto: che si tratti di regole organizzative o di regole "sostanziali", di norme pubbliche (diritto c.d. "positivo") o di regole dettate da organismi privati, la norma che pone un precetto (comando positivo o divieto) è "perfecta" solo in quanto dotata di sanzione. Altrimenti, è detta "minus quam perfecta" e può, in teoria generale, dubitarsi della sua stessa giuridicità (si tratterebbe di diritto informale, alla stregua di enunciazioni enfatiche o mere raccomandazioni).
Solo che si parte con una manifesta alterazione del dato reale: chi frequenta questo blog, ma non solo questo, sa perfettamente che il debito pubblico ha aumentato il suo peso a seguito dell'onere degli interessi conseguente al divorzio tesoro-bankitalia e al concorrente fenomeno di tassi di sconto reali positivi, connessi alla necessità di mantenere il livello di cambio "rigido" imposto dallo SME.

Certo i deficit degli anni '80 non erano quelli post-Maastricht: ma l'alternativa, per gli ambigui politici della parte finale della c.d. 1a Repubblica, sarebbe stata quella di mandarci in stagnazione e magari anche in recessione, prolungate come ora stanno facendo, in nome dell'Europa, i governanti attuali.
Le ragioni di ciò stanno nella necessità di mantenere un alto saldo primario, facendo venire meno repentinamente il sostegno della domanda pubblica al sistema, minando il livello occupazionale, e provocando la caduta generale di redditi, consumi e investimenti.
Dunque, la vera "colpa" del famoso "onere sulle generazioni future", in una corretta ricostruzione storico-economica, ricade sui politici che deliberarono in accordo con Ciampi il "divorzio" e, prima ancora, l'adesione allo SME. Cioè sui teorici del "vincolo esterno".

Prosegue Bordignon:
Se gli elettori degli anni 80 avessero capito le conseguenze delle scelte dei politici, forse sarebbero stati meno propensi a votarli. Nel caso delle amministrazioni locali, però, anche scelte irresponsabili possono essere sostenute dagli elettori, se il sindaco o il presidente di regione riesce a scaricarne l'onere sulla collettività nazionale.
Ci sono due modi per affrontare questo problema. Il primo è quello di lasciare che gli enti locali subiscano interamente le conseguenze delle proprie azioni. È in buona misura la scelta americana. Detroit fallisce, i creditori della città ci rimettono i soldi, i dipendenti pubblici vengono licenziati e le loro pensioni decurtate, i servizi non vengono più offerti, i cittadini che possono farlo scappano e si trasferiscono altrove
.

Anche qui, l'esaltazione del sistema USA (e getta), appare inficiata, nella sua validità comparativa da una premessa erronea: prima di tutto, le autonomie locali negli USA, ricevono trasferimenti dallo Stato, esattamente come in Italia, per cui le "scelte irresponsabili" comunque sono un "waste" di pubbliche risorse statali. In secondo luogo, la insolvency delle città in USA è determinata da condizioni inesorabili di della struttura economica locale, legate alle trasformazioni geo-economiche tipiche di quella realtà fortemente caratterizzata dalla dinamicità del mercato interno (il caso di Detroit è eloquente, con una popolazione passata da oltre due milioni di abitanti a circa 800.000.
Quindi la valutazione di colpa" (irresponsabilità) con facilità addossata agli amministratori locali è già di per sè frutto di una ennesima "precomprensione", di un pregiudizio negativo presunto, senza attenzione alla realtà, verso tutto il mondo della pubblica amministrazione. Cioè una visione ideologica e non aderente a quanto evidenziano gli studiosi specialisti della materia.

Ma lo stesso vale anche per gli amministratori italiani: il grado di corruzzzzzione e di sprechi, nei meccanismi causativi delle insolvenze degli enti locali è del tutto sopravvalutato. La cause vanno individuate nella finanza post maastricht e nei tagli complessivi che, in clima euro, si sono sempre più imposti ai trasferimenti e al livello dei servizi (e il territorio italiano, disastrato come non mai, ne sa qualcosa...). Diverso se invece di cercare colpe gestionali, certamente compresenti, ma non caratterizzanti il fenomeno, si guardasse alle CAUSE STRUTTURALI DELLA COSTOSITA' DEGLI ENTI LOCALI, cioè a come il sistema risulterebbe politicamente ed insopportabilmente costoso anche se si seguissero i più rigidi criteri di diligenza gestionale. Cioè è la politicizzazione dell'organizzazione a livello istituzionale la principale causa del problema; ma a livello ordinamentale non di responsabilità individuali, come abbiamo analizzato e quantificato in questo post. Se responsabilità individuali vanno ritrovate, riguardano i politici che al governo e in Parlamento hanno congegnato il sistema, spesso con la giustificazione "lo vuole l'Europa", alla fine degli anni '90 e fino alla riforma del Titolo V della Costituzione.

Tralascio i passaggi intermedi dell'articolo, che potete leggervi agevolmente, per andare a verificarne alcune conclusioni, che chiamano in causa, stigmatizzandola, la Corte costituzionale:
...Con i decreti attuativi sul federalismo fiscale era stato introdotto l'istituto del «fallimento politico» per i politici locali rei di aver violato l'equilibrio di bilancio; la Consulta l'ha dichiarato incostituzionale, come ha dichiarato incostituzionali una serie di controlli sugli enti intermedi e le società delle regioni che il governo Monti aveva cercato di introdurre. Come conseguenza, si tornerà probabilmente alla situazione paradossale in cui in presenza del commissariamento di una Regione, sarà lo stesso presidente a essere nominato commissario di se stesso.
Ma c'è di più. Nel gennaio 2013 è stata approvata la disciplina del «pre-dissesto» (riequilibrio finanziario pluriannuale), voluta da tutti i partiti, il cui scopo principale sembra essere quello di consentire a un certo numero di Comuni, in specie meridionali, di poter accedere a fondi addizionali, senza doversi sottoporre alla perdita di sovranità e alle sanzioni previste dalla disciplina del dissesto. Infine, l'accelerazione dei pagamenti dei debiti della PA decisa dal governo, cosa buona e giusta, avrà anche l'effetto di garantire il pagamento di numerosi impegni presi da amministratori locali, in spregio a vincoli contabili e obblighi legislativi. È vero che in entrambi i casi si dovrebbe trattare di prestiti dello stato all'ente locale, che dunque il Comune o la regione dovrebbero restituire, ma il rischio che questo non succeda è elevato. Si tratta di segnali preoccupanti, anche perché non s'inseriscono in un progetto organico di riforma della finanza regionale e municipale
Paradossalmente, mentre a livello nazionale sembra che si parli solo di risanamento finanziario, a livello locale si rischia di aprire la strada al più clamoroso esempio di bailing out della nostra storia recente
.

Innanzitutto, e va ribadito, il "rei" va riferito non a presunte politiche dissennate nell'erogazione dei servizi essenziali, in special modo di quelli "sociali", ridotti ormai da anni ai minimi termini, quanto piuttosto alla forma societaria sempre più assunta per ogni possibile segmento dell'attività pubblica: su questo punto vi invito a rileggere l'attenta ricostruzione di questo post di Sofia.
Inutilmente la Corte dei conti si sgola a enfatizzare le assurdità di tale sistema, che consente non solo vari, più agevoli, aggiramenti del sistema legale di evidenza pubblica nell'assegnazione degli appalti (facendo salire i costi dell'acquisto di beni e servizi), ma che ha dato luogo a una vasta "casta" di a.d., consiglieri di amministrazione, e super-manager (...!), che ha "efficientemente" e con grande "snellezza" provveduto a oltre 700.000 assunzioni senza alcuna selezione concorsuale. Con la grande felicità di tutta intera la classe politica, €uropeista e privatizzatrice.

In ogni modo: la Corte costituzionale non poteva che pronunciarsi così. Le autonomie locali costituzionalizzate (artt.104-133 Cost), non consentono quel grado di interferenza, e il "coordinamento della finanza pubblica", materia espressamente riconosciuta come "concorrente" dall'art.117 Cost., si deve arrestare alla previsione del "meccanismo", non potendosi reintrodurre forme di controllo-tutela, cioè di intervento sostitutivo della sostanza autonoma dell'amministrazione di tali entità.
La Corte, dunque, ha solo applicato le regole che doveva applicare; non le ha scritte certo lei, quanto piuttosto gli stessi teorici attuali della "moralizzazione" e del federalismo salvifico.
Ma quelli stanno sempre lì, pontificano su sprechi e corruzione, sulle colpe degli italiani indolenti e mai abbastanza €uropei, e, semmai, pensano a come "tagliare ancora il perimetro del pubblico". E anche il "fronte fisico" dei rapporti di questo con le imprese: solo così, senza più alcuna altra attività che non sia "costruire strade e provvedere alla relativa segnaletica" si risolve il problema degli sprechi e dei pagamenti arretrati...
Mica pensando alla revisione delle norme costituzionali e del testo unico degli enti locali che ci hanno messo in questo ginepraio, realizzando la ideona della "privatizzazione efficientatrice" delle forme.
Insomma, la "grande società" è stata presa in una, ancor oggi incontestata", accezione di "tante società": ma proprio tante....

martedì 30 luglio 2013

UN'ESTATE FA...NON C'ERA CHE LUI

Parleremmo dunque del caso giudiziario più importante della Storia italiana?
Naaah...
Parliamo del tempo.
Ma non di quello meteorologico, quanto della sua dimensione cronologica.
Pensate, un anno fa, esattamente il 30 luglio 2012, quest'oggi, Monti e Merkel si incontravano per dirci che l'euro era bello e perfetto, e che si sarebbe fatto "tutto il possibile" per salvarlo. Riecheggiando la fresca dichiarazione di Draghi, che avrebbe persino causato una "euforia sui mercati" giudicata "eccessiva".

A distanza di un anno, il "mitico" Bernd Lucke ci dice che "i paesi periferici riducano i salari del 30% o escano dall'euro".
E aggiunge: “Questi paesi dovrebbero andarsene perché hanno dimostrato di non poter essere abbastanza competitivi – ha dichiarato Lucke in un intervento sull’emittente televisiva Cnbc, aggiungendo che se invece restassero nell’unione monetaria, dovrebbero subire una riduzione dei salari di circa il 30%, una condizione inaccettabile per gli operai. Dunque andarsene sarebbe il male minore."

Interessante il commento dell'autore italiano dell'articolo linkato:
"Poniamo di voler seguire il consiglio dell’amico Teutonico; ho 2 possibilita’: Soluzione A) Svaluto i salari, tutti quanti del 30%. Tenete conto che il monte salari di una nazione pesa circa il 50% del PIL. Trascuriamo qualche fattore secondario, quale la proletarizzazione di diversi milioni di persone che passerebbero da essere classe media ad essere morti di fame. Immaginiamo anche che i lavoratori non oppongano resistenza (qualche dubbio ce l’ha anche Bernd Lunke). Che accade? Semplice: il PIL ben che vada fa -15% (anche considerando l’effetto positivo per l’export) e la nazione va in deflazione. Quindi? Per una nazione come l’Italia il Debito va nell’iperspazio e passa dal 130% al 160%. Sintetizzando ulteriormente: muoriamo schiacciati dai debiti, e come noi piu’ o meno tutta l’eurozona.

Soluzione B) Svaluto i salari, tutti quanti del 30%, riducendo la componente fiscale e contributiva. Sapendo che il monte salari di una nazione pesa circa il 50% del PIL, parliamo di finanziare il tutto con una manovra da 240 miliardi (in realta’ sarebbero meno, ma comunque sempre una cifra mostruosa). Che accade? Semplice: per quanto si taglino sprechi e privilegi, il Deficit Pubblico necessariamente andrebbe alle stelle, e con esso il Debito. La cosa mi ricorda il Portogallo, dove s’e’ applicato qualcosa del genere, ed il Debito Pubblico sale al ritromo del 15% all’anno. Quindi? ancora una volta muoriamo schiacciati dai debiti, e come noi piu’ o meno tutta l’eurozona. Dicesi matematica elementare. I benpensanti potrebbero dire: ma e’ esattamente quello che ha fatto la Germania con le riforme Hartz ed i Minijob. Vero. Ma e’ anche vero che la Germania c’ha messo svariati anni ad applicare tale politica, sforando per alcuni anni il famoso 3%, ed alle spalle aveva un Debito che non stava gia’ nell’iperspazio ed un sistema economico per definizione e struttura (grandi imprese) non inflattivo. Inoltre, se tutti facessero in simultanea tale politica, gli effetti non sarebbero cosi’ semplici: alla fine si avrebbe una rincorsa continentale, se non mondiale, a proletarizzare i lavoratori. In sintesi non funziona, ed il buon Bernd Lucke lo sa perfettamente.

Ovviamente la soluzione C), una politica espansiva tedesca, con rivalutazione dei salari ed avvio di meccanismi di trasferimento compensativi verso le nazioni deboli, manco e’ contemplata tanto da Bernd Lucke, tanto da Angela Merkel, che anzi la vedono con orrore: di ammettere l’errore di aver colorato di Blu la porzione loro spettante di condominio bianco, manco se ne parla. E comunque per i Tedeschi la “Morale” e’ un concetto che non prevede che il “Colpevole” sia Teutonico."

E sull'euro-break aggiunge:
"Considerando una bella svalutazione del 15-25% delle varie monete verso l’Euro-Marco, diciamo che la Germania vedrebbe in un sol colpo: Conseguenza 1) Perdere un buon 7% del suo PIL (azzerando l’attivo della bilancia dei pagamenti, ora a +200 miliardi) Conseguenza 2) Perdere qualche centinaio di miliardi in investimenti all’estero, che verrebbero deprezzati (per esempio i titoli italiani ridenominati in lire perderebbero un 15-25% del loro valore in Euro-Marchi) impattando il sistema bancario teutonico, che alla fine verrebbero ripianati dai contribuenti tedeschi.

In sintesi, la Germania perderebbe il vantaggio competitivo acquistato dalle riforme sul lavoro, una bella fetta di PIL e vedrebbe il Debito Pubblico schizzare al 110-120%.

Badate bene che non considero affatto Bernd Lucke un fessacchiotto. Queste cose e le relative conseguenze, le conosce perfettamente. Ma e’ preferibile per Bernd Lucke uscire da un Europa non armonica (ai suoi occhi non sufficientemente Tedesca) e ripartire in una sana competizione, dove la Germania e’ padrona del proprio destino, e non destinata ad una Leadership solidale che semplicemente non vuole. L’alternativa e’ la proletarizzazione del resto d’Europa, che diventerebbe nel tempo cio’ che il Sud Italia e’ per il Nord Italia (una terra cui vendere merci e simultaneamente da sussidiare, in un meccanismo di conflitto crescente e di depressione e crisi economica dilagante).

Dal mio punto di vista il ragionamento e’ ineccepebile e straordinariamente lucido, a valevole ovviamente in senso contrario."



Come cambiano i tempi!
Certo non abbiamo la velocità di autoconservazione necessaria, ma intanto Letta si azzarda persino a dire che sulla crisi della Grecia sono stati commessi grandi errori dall'UE (e sfido, lo ha già detto in lungo e largo persino il FMI!)...e assicura che la Grecia avrà l'Italia al suo fianco. Il che, detto a Samaras, per quello che riserva ai suoi connazionali, e in consonanza "euroconservatrice", non pare molto rassicurante per i greci!
Ma in fondo, la conservazione del potere è una forte "cultura comune"...

Tanto, si sa, bisogna finire di adottare le "necessarie riforme" per la crescita "duratura". Lo dice pure Jack Lew.
Ma a giorni alterni: ogni tanto dice pure di allentare l'austerity UE.
Non si capisce bene però se questo includa o meno il taglio dei salari del 30% (con tutti gli effettucci visti sopra): o ci dice chiaramente che non è una cosa corretta o stiamo ancora aspettando che ci chiarisca esattamente che cosa intendesse per "riforme strutturali".
Mica è indifferente, dear Jack.
E a Obama che si ingegna con la nuova idea di "corporate tax", "to boost US economy", magari un'effettiva ripresa della domanda in UE non potrebbe dispiacere, dato che altrimenti i nuovi posti di lavoro rischiano di evaporare in qualche nuova crisi finanziaria..dietro l'angolo


lunedì 29 luglio 2013

BANCHE, CONCORRENZA E...ULLALA', "AIUTI DI STATO"

I monopoli non piacciono all'UE? La questione è di quelle che lascia perplessi, ma in sostanza si riduce a osteggiare quelli "pubblici", cioè quelli che, nella sostanza che li aveva giustificati, rispondevano all'interesse pubblico di consentire controllo tariffario (in funzione di politiche sociali, mica per abusare della rendita, art.43 Cost.) e condizioni di universalità e parità di accesso al servizio. E abbiamo visto, nonostante le obiezioni dei "teorici", quali siano le origini ideologiche di questa concezione UE del "monopolio". (Cfr; punto 6).

Gli oligopoli, invece, sono quelli che corrispondono, in varie graduazioni, a posizione "dominanti": questi sono malvisti dal diritto concorrenziale UE in quanto diano luogo ad "abuso" (art.102 TFUE).
Anche qui, non sono proibiti in sè (pur ammettendosi l''esistenza di una rendita), ma in quanto alterino la concorrenza, cioè in quanto l'interesse violato sia quello degli altri concorrenti del settore considerato, che vedrebbero "troppo" ristretto l'accesso al mercato ovvero compresse le loro potenziali quote nello stesso.
Il "troppo" è un concetto assai lato: dipende, in effetti, dalla forza finanziaria del competitore che si lamenta.
Il concetto è quello di "workable competition": in tutto il mondo (a cominciare dagli USA, dove questo concetto è nato nella giurisprudenza della Corte Suprema) coloro che, come volevano i neo-classici, fanno "regolazione sul mercato", ritengono che l'interesse da privilegiare sia quello dell'offerta, dato che si ritiene che la grande dimensione dell'impresa consenta risparmi di scala nei costi e innovazione tecnologica, presumendosi che l'innovazione di prodotto e di processo siano proprie essenzialmente degli "incumbents" in ciascun settore. Gli altri operatori, in specie le PMI, non sarebbero "all'altezza", per presunzione assoluta. Da qui la leggera difficoltà in cui incorrono le PMI, schiacciate sempre più dalla "regolazione" UE, volta a privlegiare la "qualificazione" dell'operatore di dimensioni, organizzative e finanziarie, più consistenti.

Ma sopra ad ogni cosa, la concorrenza viene tutelata contro il grande "mostro" dell'era UE, post Maastricht: lo Stato.
Gli "aiuti di Stato" sono indubbiamente l'aspetto concorrenziale di cui maggiormente si tiene conto a livello di Commissione: quest'ultima è l'organo antitrust e di tutela della concorrenza "europeo", niente affatto caratterizzato dalla mitica "indipendenza" (dall'Esecutivo, secondo lo schema USA), ma la distinzione, rispetto a un organo con ruolo governativo parapolitico, ma politicamente irresponsabile e legittimato da un preteso tecnicismo, è chiaramente di "lana caprina".

Abbiamo visto come il concetto di "aiuto di Stato, non sia affatto mutato, nella mentalità della Commissione e della pedissequa Corte di giustizia (....) europea, dopo l'introduzione della moneta unica: pur essendo, tale miope mancanza adeguamento, portatrice di distorsioni che danno il via libera a ogni atteggiamento della Germania in violazione della "causa" cooperativa dei trattati.
L'inghippo sta nel requisito, per considerare indebito l'aiuto di Stato, della c.d. "settorialità". Riproponiamo la nostra analisi del punto (che riguarda le politiche generali della Germania):
"La settorialità, infatti, e quindi la violazione del divieto di aiuto di Stato, può considerarsi decisiva solo se si prosegua a considerare i meccanismi monetari precedenti alla moneta unica, fingendone la attuale operatività.
E quindi, per converso, risulta essere proprio la "generalità" dell'"aiuto" ad essere superata come ragione di sua giustificabilità, nel meccanismo di interdipendenza commerciale di una moneta unica.
Questo stesso carattere "generale" giustificatore, tenuto in piedi come un simulacro del tutto anacronistico, viene in effetti ancora oggi legittimato non scorgendo un disegno di alterazione della concorrenza che può emergere, cosa che la Corte vuole ignorare, solo esaminando l'andamento generale dei mercati, non settore per settore.

In una area valutaria, l'esame va necessariamente compiuto in base al "complesso" degli squilibri commerciali effettivamente imputabili a quella misura fiscale.
E ciò specialmente quando, in modo significativo, come nel caso della Germania, una misura si debba ritenere, per il suo obiettivo effetto sui tassi di cambio reale, intenzionalmente non coordinata con gli altri Stati aderenti all'UEM e dannosa per essi, in quanto non giustificata da alcuna situazione congiunturale considerata proprio dal par.2 dell'art.107, (cioè, anzitutto dal grave turbamento dell'economia).

E infatti, in concreto, un governo è perfettamente in grado di preventivare e orientare verso l'export, anche attraverso politiche apparentemente generali di fiscalità, proprio i settori complessivi che ne fanno esplicita richiesta, componendo un quadro di contatti politici che non può non essergli noto in anticipo e che tengono conto, appunto, in anticipo, del funzionamento dei tassi di cambio reale in un'area a moneta unica.

Analoghe considerazioni valgono per i fenomeno del credito alla esportazione, quando esso raggiunga livelli di valore quali quelli tedeschi, e, ancora una volta, si collochi nelle dinamiche della moneta unica, che non potevano e non dovevano essere ignorate nè nel comportamento di "buona fede" nell'esecuzione dei trattati che doveva seguire la Germania, nè dall'esame concretamente devoluto alla (inutile) Corte di Giustizia, che non pare obiettivamente avere le competenze per gestire con la dovuta oculatezza le difficoltà già insite nella voluta imperfezione della disciplina UEM".
Le alterazioni "Hartz" e del credito all'esportazione sono state assunte sotto la plastica categoria (che non piace ai teorici, ma descrive una inevitabile "realtà") di "von Hayek per fessi". Dove i "fessi", a scanso di equivoci, sono gli italioti convinti assertori del "vincolo esterno".


Il settore bancario, poi, è quello che, essendo affidata la vigilanza di settore alle banche centrali nazionali, e non essendo completato il passaggio alla BCE della vigilanza "strategica" su tutto il sistema bancario UEM, soffre della maggior disattenzione possibile da parte della Commissione quanto al colpire posizioni di mercato abusive, "intese" restrittive della concorrenza (sanzionate in termini ridicoli), e oligopoli che si allargano in funzione della, talvolta misteriosa, capacità di espansione di certi istituti.
Ma gli "aiuti di Stato", quelli no: quelli la Commissione, anche rispetto al sistema bancario, non li può tollerare.
La dimostrazione?
Almunia, il commisssario UE alla concorrenza, subito se la prende con l'aiuto italiano, dato dal governo Monti, al Monte dei Paschi di Siena.
"Per Bruxelles il piano di ristrutturazione di Mps e' troppo morbido sul fronte dei compensi dei manager, il taglio dei costi e il trattamento dei creditori'' e senza modifiche ''urgenti'' il commissario alla concorrenza, Joaquin Almunia, aprira' una procedura di infrazione della durata di sei mesi che potrebbe portare a sanzioni o al rimborso forzato dei 3,9 miliardi di Monti bond. Lo scrive il Financial Times dando notizia di una lettera di Almunia al ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni datata 16 luglio."

Tutto regolare, allora?
Mica tanto. L'Italia si ritrova, ancora una volta, nella posizione di Fantozzi: "subisce ancora". Sempre e comunque.

Tralasciamo, per carità di Patria (è proprio il caso di dirlo), il caso dei salvataggi tedeschi alla propria industria bancaria: ne abbiamo parlato molte volte.
E' interessante il secondo "lato" del "von Hayek per fessi", quello francese.
L'Italia è sotto procedura di infrazione per 3,9 miliardi di "Monti bond", cioè per il soccorso finanziario (che incrementa il debito pubblico, sia chiaro) dato a MPS.
E' "divertente", vedere il diverso atteggiamento della Commissione sui salvataggi bancari francesi, per dimensioni incomparabilmente superiori al caso MPS; e non certo meno recenti, cioè non considerabili sotto l'occhio post-Cipro ora usato dalla Commissione.
Facciamo un piccolo elenco dei "via libera" della Commissione rispetto alle operazioni di Hollande e, soprattutto, Banque de France (quella che "certifica", nel sistema STEP, il francesissimo mercato Euroclear, senza che la BCe si disturbi a "vigilare" troppo):
- per Credit Immobilier de France, nel febbraio 2013, la Commissione ha avallato un salvataggio sotto forma di garanzie pubbliche (equivalenti in teoria a debito pubblico, come gli stessi Monti bonds), per 16 miliardi;
- per Banque PSA, banca aziendale del realtivo gruppo automobilistico, sono state fornite analoghe garanzie per 7 miliardi. La Commissione, sempre a febbraio, ha fornito il suo consenso anche a questa operazione (che finanzia in sostanza la ristrutturazione anche del gruppo automobilistico e ha ridato "accesso ai mercati" all'istituto bancario);
- il gruppo franco-belga Dexia ha utilizzato garanzie pubbliche per 72 miliardi, che nell'anno in corso dovrebbero scendere (non si sa come) a 33 miliardi, mentre lo Stato francese ha finora fornito garanzie per, pensa tu, 39 miliardi (il che porta il tutto, pur sempre, a 10 volte il volume di intervento italiano su MPS). Che fa la Commissione? All'inizio del 2013 ha autorizzato la terza tranche di salvataggio, che dà allo Stato francese la qualità di azionista (obbligato a sostenere il previsto aumento di capitale di 5,5 miliardi), al 50,02%.

L'Eliseo cosa fa? "Minimizza e smentisce", ma i tre salvataggi (limitandosi a questi), fino ad ora, gli sono costati circa 65 miliardi (miliardo più miliardo meno; tanto c'è Euroclear a tenere in piedi la baracca con liquidità nuova, in euro, della BCE).

Insomma, Commissione "inflessibile" con l'Italia: tanto in effetti, l'euro pare che ce l'abbiamo solo noi, mica più la Francia. E siamo pure euro-entusiasti.

ADDENDUM: la questione si fa quasi esilarante.
Secondo questa fonte, Almunia ritiene censurabili 6 punti del piano di ristrutturazione. Non la decisione di predisporlo in sè. Tra questi 6 punti sono menzionati: la mancata rideterminazione dei compensi del management, che avrebbero dovuto essere contenuti nel limite di 15 volte "il salario medio nazionale", e la misura dai tagli al personale, ritenendosi "gonfiata" l'indicazione di 5000 unità a fronte di una perdita "di introiti" di 320 milioni.
Aspettiamo a vedere gli altri 4 punti: ma il problema è che questa improvvisa sensibilità per il livello occupazionale, pur di addivenire alla minaccia di sottoposizione a procedura di infrazione, fa sconfinare il tutto in un paradosso ancora più "strano"...

sabato 27 luglio 2013

LA SALVEZZA "IN-EQUITY" DELLE PMI?...PIU' COLONIZZAZIONE PER TUTTI

Questa attenta ricostruzione di Sofia, risulta di scottante attualità: Confindustria "attende" la immancabile "ripresina" di fine anno, ma segnala come resti il problema del credito.
Ora sulla "ripresina" prossima ventura, fossi in loro, aspetterei la "manovrina" in ondivaga preparazione estiva, prima di lanciarmi in previsioni (regolarmente smentite dai fatti, con gli immancabili "report" di aggiustamento del DEF, che in Parlamento, utilizzano ormai prodigiose "parafrasi" per continuare a nascondere che la recessione è tutta dovuta alle politiche fiscali...di risanamento dei conti...che neppure tornano).
Ma il credit crunch, invece, quello no: è una sicurezza e la via d''uscita non si intravede. O meglio, la stanno "acchittando" come un rimedio peggiore del male (ma molto "europeo")...
In una recente intervista il prof. Giulio Sapelli espone uno scenario che si può riassumere in questi termini.

Vi sarebbe un “piccolo establishment” (parte di Confindustria che fa riferimento a Montezemolo, De Benedetti – a cui i renziani sono organici ecc) che, non avendo più fiducia in uno sviluppo autonomo manifatturiero del nostro Paese, pensa ad una integrazione subalterna franco-tedesca di ciò che rimane dell’industria italiana (“in sostanza, crede che l’Italia non ce la possa fare e quindi cerca di venderla al prezzo migliore”). Questa linea subalterna e rinunciataria si scontrerebbe con quella di Bazoli e Guzzetti (entrambi appartenenti al mondo bancario) che vedrebbero messo in discussione il ruolo delle banche grazie anche a un appoggio di una parte di Bankitalia.
Il Ministro Saccomanni, che viene da Bankitalia, martedì nel convegno sulle soluzioni al credit crunch ha aperto le porte ai credit found, cioè allo shadow banking. Di fatto si tratta di un attacco frontale a Bazoli e a Intesa, che cerca ancora di difendere un po’ di rapporto con l’industria italiana (che è stato rappresentato anche dalla linea Passera). Non a caso anche le banche popolari, che hanno rapporti con le imprese sul territorio, sono state prese a bastonate da Bankitalia”. Ed inoltre, poiché Letta e Alfano hanno avuto un atteggiamento fermo nei confronti dell’Europa, questo “piccolo establishment” (renziani compresi) vorrebbe far cadere il Governo e vedere perseguiti i fini tedeschi.

Alla luce di questa interessante intervista, quindi, potrebbe essere utile soffermarsi sull’incontro tenuto il 16 luglio da Saccomanni con operatori e banche e sulla soluzione da questi proposta al credit crunch (stretta creditizia) nei confronti delle imprese.
Nel discorso da questi tenuto, si legge che le esigenze di credito debbano essere soddisfatte da altri attori istituzionali e da nuove forme di intermediazione finanziaria di cui i credit funds sono un esempio (gli intermediari concedono direttamente prestiti alle imprese, attraverso la sottoscrizione delle loro obbligazioni o intervenendo direttamente nel capitale). Si tratta di intermediari la cui operatività rientra nello 'shadow banking' (il sistema grazie al quale la Cina, sempre secondo l’opinione di Sapelli nell’intervista su riportata, è oggi in crisi).

Saccomanni, nel prendere atto della richiesta delle banche di poter ottenere maggiori sgravi fiscali man mano che fanno emergere le loro perdite sui crediti a imprese divenute ormai insolventi (!), rilancia l’idea delle cartolarizzazioni, e sostiene che le banche dovrebbero accompagnare ''gradualmente le Pmi verso forme di finanziamento non bancario (come ad esempio il private equity e il venture capital), - misure di cui si sente parlare già da tempo - in grado di favorire la nascita di nuove imprese di maggiori dimensioni attraverso fusioni e incorporazioni, la crescita e l'innovazione di quelli esistenti, il ricambio generazionale del management''.

Saccomanni, quindi chiarisce che scopo dell’incontro è proprio quello di valutare i vincoli presenti in Italia per lo sviluppo di canali non bancari di finanziamento delle imprese. “E’ un tema strutturale, connesso alla configurazione del nostro sistema finanziario e produttivo, che vede le ridotte dimensioni medie delle imprese italiane un ostacolo di per se all’espansione degli intermediari e degli strumenti finanziari non bancari”.

Quindi, di fronte al dato di fatto:

a) del credit crunch (operato dalle banche) e

b) di un tessuto industriale italiano fatto di PMI (che più di tutte risentono della contrazione del credito, come conferma anche a BCE: sono più opache e le loro capacità di fare impresa sono più difficili da valutare, perché i loro bilanci offrono meno informazioni e le loro storie di credito sono generalmente più brevi. A queste caratteristiche si aggiungono i maggiori costi fissi di valutazione esterna e monitoraggio. Tutto questo si traduce per le PMI in costi di transazione più elevati, in particolare per quelli derivanti da asimmetrie informative”),

le soluzioni, secondo Saccomanni, non possono che essere due: (in parole semplici) trovare altri finanziatori che non siano le solite banche e far crescere le imprese.

Ora, da notare, la sequenza delle soluzioni per come viene posta dal Ministro.

La crescita delle imprese dovrebbe essere di per sé, già da sola, un fenomeno risolutivo del credit crunch, perché se le dimensioni delle imprese aumentassero, allora queste avrebbero automaticamente maggiore accesso al credito tradizionale operato dalle banche e non vi sarebbe bisogno di ricorrere al sistema finanziario non bancario. Però, da un lato, nella situazione di crisi economico-finanziaria attuale, le imprese non hanno da sole la forza di provvedere a fusioni, incorporazioni, aumenti di capitale e gli imprenditori non hanno sufficienti capitali per mettere su aziende di grosse dimensioni; dall’altro non esistono norme che tendono a facilitare l’aumento dimensionale delle imprese allo scopo di facilitare l’accesso al credito.
Inoltre (per ragioni che diremo più avanti) la crescita comporta maggiori costi dovuti alla maggiore complessità degli investimenti che spesso le PMI non sono in condizione di affrontare, per cui queste preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva piuttosto che quelle legate alla crescita).

Eco perché pare rilevante la sequenza nella proposizione delle due soluzioni avanzata da Saccomanni. Conscio che l’aumento dimensionale delle imprese non è, di fatto, attuabile, propone:

- la possibilità/necessità di spostare maggiormente il sistema creditizio da quello bancario a quello finanziario non bancario (Shadow banking system – venture capital), cercando di copiare una esperienza soprattutto americana, dove il 70 per cento del credito alle imprese arriva dal mercato tramite bond o fondi d’investimento e solo il 30 per cento dagli istituti. Nell’area euro le proporzioni sono inverse, il 70 per cento dei prestiti si raccoglie in banca e il 30 per cento sul mercato; in Italia invece più del 90 per cento del finanziamento dipende ancora dagli sportelli del distretto o del quartiere;

- e solo poi - l’utilizzo di questi finanziamenti per consentire la nascita di imprese di maggiori dimensioni o la crescita di quelle esistenti.

Ora, per comprendere la fattibilità o meno della (prima) soluzione, nonchè gli effetti, occorre comprendere meglio come funziona il sistema di finanziamento delle imprese e, in particolare, delle PMI che costituiscono il grosso del nostro tessuto imprenditoriale.

Il Prof. Cesare Pozzi, esperto di economi industriale, proprio in occasione dell’incontro tenutosi a giugno a Viareggio mi aveva spiegato, in parte, il processo attraverso il quale le imprese si spostano sempre di più dal settore bancario a quello finanziario (ossia quello propugnato da Saccomanni). Egli (ma la sua tesi è esposta anche in Liberalizzazione e politica industriale, di Fabio Gobbo e Cesare Pozzi - Rivista “Economia e politica industriale”, n. 2, 2005), aveva chiarito che lo spostamento verso il sistema finanziario avviene solitamente in due casi:
1) Quando l’impresa cresce, perché diventa più complessa l’attività di investimento: bisogna gestire attività di acquisizione e/o di internazionalizzazione e in questa prospettiva non può essere la piccola banca locale a seguire lo sviluppo d’impresa né i soci dispongono dei mezzi necessari per investire in azienda. Così ci si rivolge alle grosse banche o a forme di finanziamento che le piccole banche non sono in grado di offrire.

2) Quando vi sono situazioni congiunturali che determinano contrazione del credito che, generalmente, avviene prioritariamente nelle piccole banche così che gli imprenditori sono costretti a rivolgersi alle banche più grosse e strutturate - fenomeno tra l’altro accentuato anche dalle numerose concentrazioni bancarie- o a investitori esterni.

Ovviamente lo spostamento verso il sistema finanziario non è senza effetti.

Il primo degli effetti è la trasformazione dell’investimento, che da strumento di sviluppo dell’impresa, si trasforma, sempre di più, in sistema di investimento puro, monetario e svincolato dal reale valore dell’impresa in termini di produttività e know-how (cioè si considera il rendimento di "portfolio" riferito al bench mark dell'investimento finanziario).

La piccola banca generalmente conosce l’imprenditore, conosce il contesto locale in cui opera lo stesso, è in grado di fare delle valutazioni economiche dell’impresa, di capire quanto vale; la concessione del credito, insomma, diventa uno strumento di sviluppo dell’impresa anche perché, tra l’altro, le PMI solitamente hanno bisogno di finanziamenti a breve termine e questi sono facilmente concessi (in situazioni economico-finanziare ordinarie) da piccoli istituti bancari a fronte di un rischio di concessione del credito limitato.

Quando per varie ragioni l’impresa è costretta a rivolgersi alle grosse banche, nessuna di queste ha gli strumenti, le competenze e la voglia per un’attenta politica di screening e monitoring: molto più facilmente il rischio viene gestito con principi di tipo assicurativo. Inoltre le banche hanno pochi strumenti per essere propositive, in quanto manca la conoscenza diretta dell’imprenditore.

Un ulteriore effetto derivante dallo spostamento verso le grosse banche o dall’aprirsi agli investitori esterni è un più accentuato spostamento verso il settore della finanza che può voler dire andare direttamente in borsa o ricorrere al Venture capital e al private equity (esattamente gli strumenti citati da Saccomanni).

Il prof. Pozzi, al riguardo, ha evidenziato un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato: ossia che, molto spesso, un fenomeno legato alla crescita delle imprese, è la necessità per queste, di dover diversificare le fonti finanziarie, a prezzo di una complessità organizzativa sempre maggiore. Ragion per cui a volte queste preferiscono concentrare le energie sulla risoluzione delle complessità legate alla sfera produttiva, piuttosto che su quella finanziaria, ma che può risolversi in uno squilibrio, che rende fragili anche le strategie produttive ( la mancata disponibilità ad affrontare la complessità finanziaria induce a rinunciare alla crescita).

Questo, da un lato, evidenzia come la complessità finanziaria favorisce solo le grandi imprese e costituisce una barriera per le PMI, non solo in una situazione normale del ciclo economico, ma a maggior ragione in situazioni di crisi laddove l’incidenza del credit crunch diventa più rilevante (dato anche questo confermato dalla BCE: “E’ quindi in qualche misura inevitabile che, durante le recessioni economiche, le fonti di credito per le piccole imprese tendano a prosciugarsi più rapidamente che per le grandi imprese”).

Dall’altro, spiegherebbe l’incoraggiamento del Ministro Saccomanni verso fonti finanziarie alternative. Insomma, come dire, rendere maggiormente dipendente dall’influenza finanziaria un fetta di mercato (quella delle PMI) che, per ragioni strutturali, sinora ne era più o meno rimasta fuori.

Il tutto favorito da una situazione in base alla quale:

- il credit crunch è molto forte (-34%, con inasprimento dei tassi, 62%, e delle garanzie richieste, +44%);

- una piccolissima percentuale (pare non raggiunga il 20%) dei prestiti (rispetto al totale di quelli concessi) va alle PMI (un esercito di 3,8 milioni di microimprese, il numero più alto d’Europa, pari al 94,6% di tutte le aziende Italiane);

- l’erogazione della maggior parte dei prestiti avviene in favore delle grandi imprese, nonostante le sofferenze a carico di questi clienti così “privilegiati” è pari al 78,3% del totale. Insomma, pur non essendo dei buoni pagatori, le banche continuano a premiare proprio le grandi imprese.
- proprio le PMI sono quelle che maggiormente risentono della crisi finanziaria come confermato dallo studio della BCE su richiamato, così come di una moneta unica più cara che danneggia le esportazioni (i cui riflessi sulle PMI sono evidenti se si pensa alla vocazione all'export delle imprese italiane) e costringe le stesse, per essere maggiormente competitive sui mercati internazionali, ad usare i derivati sui cambi per coprirsi dal fattore valuta (o altri analoghi strumenti finanziari).

Una tale situazione richiederebbe, in via prioritaria, interventi pubblici a sostegno delle imprese, ma questi sinora, in Italia, sono stati piuttosto esigui rispetto alle medie europee (solo lo 0,6% del PIL, mentre la media UE è del 3,6% ).

Ed invece la soluzione proposta da Saccomanni è nella direzione assolutamente opposta: il ricorso allo Shadow banking system, al venture capital e al private equity, ossia tutti strumenti che consentono di spostare maggiormente il sistema creditizio da quello bancario a quello finanziario non bancario.

Tanto per chiarire: lo Shadow banking system (SBS) o Sistema bancario collaterale o Sistema bancario ombra è l'insieme di intermediari finanziari non bancari che facilitano la creazione di credito all'interno del sistema finanziario globale (fondi speculativi, derivati non quotati e altri strumenti finanziari non quotati, credit default swap…) ma che riescono a sfuggire ad una serie di controlli da parte delle banche centrali e altre istituzioni governative e, non essendo obbligati ad avere capitali accantonati al pari delle banche, riescono ad impiegare liquidità, credito e transazioni a rischio più alto del normale.
A livello globale, stima il FSB, lo shadow-banking, fra il 2009 e il 2011, ha pesato almeno il 25% dell’intermediazione creditizia (ed amministra 67 mila miliardi di dollari, una somma pari al 111% del Pil mondiale) http://www.giornalettismo.com/archives/612567/i-pericoli-del-sistema-finanziario-ombra/.

Il venture capital è l'apporto di capitale di rischio da parte di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di un'attività in settori ad elevato potenziale di sviluppo. Nella maggioranza dei casi, fondi necessari sono erogati da limited partnership o holding in aziende che per natura della attività e stadio di sviluppo non risultano finanziabili dai tradizionali intermediari finanziari (come appunto le banche).
Il venture capital è una categoria del settore del private equity, che raggruppa tutte le categorie di investimenti in società non quotate su un mercato regolamentato.
In genere, volendo distinguere, si parla di venture capital quando l’intervento dell’investitore esterno avviene nella fase iniziale della vita dell’impresa, mentre si fa riferimento al private equity nelle fasi successive.
Queste ultime forme di partnership in Italia possono operare sia con strumenti quali le Società Gestione Risparmio –SGR- sia tramite fondi "esteri" (basati in paesi con trattamenti fiscali particolari quali Lussemburgo, Belgio, Olanda, o le Channel Islands inglesi e molte altre).
E’ invalsa, però, negli ultimi anni, l’abitudine a parlare indistintamente di private equity per indicare l’intervento degli investitori nel capitale aziendale. Gli investitori acquisiscono quote più o meno ampie di una azienda diventandone a tutti gli effetti soci, stabiliscono precisi obblighi di riacquisto delle loro quote per l’imprenditore, e possono prevedere tutta una serie di strumenti di controllo per diminuire il rischio dell’investimento (partecipazione nel consiglio di amministrazione, diritto di veto su trasferimento di quote, approvazione diretta delle spese, diritto di veto su emissione di titoli e su cessione di beni sociali, frazionamento del credito in tappe successive, ecc.).
L’obiettivo dell’investitore, generalmente, è quello di subentrare in una fase iniziale (o di difficoltà) dell’azienda, attendere che acquisisca valore sul mercato per poi cedere le proprie quote - con modalità quali: offerta pubblica di vendita su un mercato regolamentato, cessione della partecipazione attraverso una trattativa privata con nuovi soci, acquisto della società partecipata da parte di un altro investitore finanziario, riacquisto delle azioni da parte della società stessa entro i limiti prefissati- e ottenere così un ricavo che costituisce, di fatto, la remunerazione dell’investimento (capital gain).

Ciò chiarito, si affaccia l'esigenza di verificare la "logica" di una tendenza all'ampliamento del "private equity".
In considerazione della grave situazione di crisi in cui versano le PMI, tra calo della domanda interna e difficoltà di cambio (che quindi rendono eccessivamente complesso valutare le prospettive di sviluppo, di crescita, di ripresa dell’azienda, e quindi difficile prevedere se vi sarà e in che misura una remunerazione dell’investimento) gli operatori finanziari dello shadow banking, al pari delle banche ordinarie, non dovrebbero avere alcun interesse a finanziare le imprese ed accollarsi questo rischio.

Nei fatti, invece, la convenienza sta proprio nelle caratteristiche intrinseche (su descritte) di questi strumenti finanziari. Si tratta di formule che consentono finanziamenti e apporto di capitali, le cui condizioni possono essere anche molto gravose per l’imprenditore e non solo in termini economici (e quindi di interessi, come per le banche), ma in termini di controllo societario, di ingerenza nella struttura produttiva e della sua organizzazione, di riacquisizione delle quote/azione e quindi della maggioranza nei processi decisionali… ed è ovvio che più l’impresa si trova in situazione di difficoltà, più onerose saranno le condizioni del finanziamento/investimento (garanzie, mediante warrant e rigide opzioni tese ad acquisire il controllo delle imprese).

Le PMI, quindi, più di tutte, in questa situazione di crisi, si trovano strette in una morsa.

Se rimangono piccole:

a) difficilmente riescono ad ottenere finanziamenti a causa del credit crunch;

b) Nella situazione di difficoltà si apre lo scenario della colonizzazione (o della “integrazione subalterna franco-tedesca”, come l’ha definita il prof. Sapelli nell’intervista riportata all’inizio - insomma, una vendita al miglior offerente);

c) sono maggiormente soggette al fallimento (secondo i dati qui riportati continua a crescere il numero di imprese costrette a chiudere i battenti: +65% negli ultimi 4 anni per quasi 50mila fallimenti dall’inizio della crisi, di cui 3.637 solo nei primi 3 mesi del 2013. Ogni giorno si registra la chiusura di 40 imprese in media).

Oppure, se anche grazie ai sistemi di finanziamento non bancari che si sono visti, riescono ad ingrandirsi, lo fanno al prezzo di perdere la propria capacità decisionale, finendo per trovarsi nella situazione di essere svendute ai padroni esteri e ai controllori finanziari, con distribuzione dei profitti non certo agli azionisti, ma agli AD della comunità finanziaria stessa.

Insomma, Saccomanni, in ultima analisti, "caldeggia" l'acquisizione finanziaria, per lo più estera, del sistema delle PMI (auspicandone l’aumento dimensionale proprio al fine di consentirne la svendita) sulla scia di quanto già avvenuto per Lamborghini, Ducati, Valentino, Bulgari, Fendi, Ferrè, Emilio Pucci, Gucci, Bottega Veneta, Parmalat, Loropiana (i dati elaborati dalla società di consulenza Kpmg parlano per il 2011 di 108 acquisizioni tra aziende italiane grandi e piccole, per un controvalore totale di 18 miliardi). Nella maggior parte dei casi si tratta di imprese che finiscono nelle mani di fondi di private equity stranieri .

E la stessa Coldiretti lancia l’allarme, denunciando come questi passaggi di proprietà significhino svuotamento finanziario delle società acquisite, delocalizzazione della produzione, chiusura di stabilimenti e perdita di occupazione.





venerdì 26 luglio 2013

VON HAYEK E LA COSTRUZIONE EUROPEA. CON ADDENDUM








ANTEFATTO
...E ADDENDUM "PRELIMINARE"
Dopo la scrittura del post, ci siamo imbattuti in questa decisiva "fonte", offerta con una acuta analisi.

La fonte è interessante perchè dimostra la corrispondenza tra le teorie di von Hayek e il programmatico esautoramento della sovranità costituzionale degli Stati democratici, attraverso la costruzione economica volta, in virtù di ben precisi strumenti, a instaurare la "grande società" del libero mercato.
Si tratta di un saggio di von Hayek, del 1939: esso ci attesta la sua chiara precognizione degli effetti del "federalismo interstatale"; a cui egli, ovviamente, e proprio perchè capace di realizzare i fini ideali con cui ritiene di modellare la società, era altamente favorevole.
La apparente disputa che ha dato luogo a questo post, conferma la netta differenza tra un confronto teorico di modelli astrattamente assunti in senso statico (come sintesi scientifiche) e ricostruzione storica delle forze e delle idee programmatiche che muovono i grandi rivolgimenti politici, strutturando bensì la realtà in difformità dagli schemi teorici, ma preservando strategicamente i fini essenziali.
E' altresì interessante constatare come in ambiti culturali autorevoli, ma, purtroppo, estranei all'Italia, il "retaggio" di v.H., rispetto alla costruzione europea, non è oggetto di particolari dubbi. Troppe tracce concettuali, e di concreta "formazione" di una certa classe dirigente europea, emergono prepotentemente perchè ciò possa sfuggire a chi voglia sviluppare una seria ricostruzione storico-politica.

La "intenzionalità" di von Hayek e la sua manifesta idoneità a costituire la fonte ispiratrice della "costruzione UE", si rinvengono con coerenza nella notorietà e nella autorevolezza tributatagli da quegli stessi uomini che, simultaneamente (negli anni 70-80), si accingevano a trovare una "strada" di realizzazione politica.
Riportiamo il brano tratto dal post sopra linkato:
" Il libro che stiamo discutendo contiene una autentica “chicca”, che non potevo non segnalare. Alle pagg.118-124 viene infatti discusso un saggio di Hayek del 1939, “The Economic Conditions of Interstate Federalism”. In questo saggio Hayek discute le condizioni di un ordine internazionale rivolto alla pace.
Hayek pensa ad una federazione di Stati, e la cosa davvero interessante è la sua discussione, come dice appunto il titolo, delle conseguenze economiche di una tale federazione. Con logica stringente, Hayek dimostra che una federazione fra Stati realmente diversi porta necessariamente all'impossibilità di un intervento statale nell'economia, e quindi alla vittoria di politiche economiche liberiste (il che ovviamente dal suo punto di vista è un bene). Infatti una federazione per essere stabile ha bisogno di un sistema economico comune e condiviso, e quindi della libera circolazione di merci e capitali, e questo porterà ovviamente a una perdita di controllo dei singoli Stati sulle loro economie. Si potrebbe allora pensare che il controllo statale si sposti al livello federale. Il nuovo super-stato federale si riprenderebbe quei poteri di controllo sull'economia che i singoli Stati avranno perso. Hayek risponde di no. Perché l'intervento statale sull'economia presuppone la capacità di mediare fra interessi contrapposti, di accettare compromessi ragionevoli, che non ci sono, o sono più difficili, fra popoli di Stati diversi. Come scrive Streeck riassumendo Hayek,

"in una federazione di stati nazionali la diversità di interessi è maggiore di quella presente all'interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un'identità in nome della quale superare i conflitti stessi (…). Un'omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee (pagg.121-122)"

Si tratta ovviamente della stessa tesi che abbiamo sostenuto più volte nel nostro libro e in questo blog: non esiste un popolo europeo che possa essere la base sociale di uno “Stato sociale europeo”. E' impressionante la lucidità di Hayek, che aveva capito tutto questo nel 1939. Tanto di cappello. Ma la cosa davvero impressionante sono gli attuali “intellettuali di sinistra” che questa cosa non la capiscono nemmeno oggi, 2013, nemmeno dopo che tutto ci è stato squadernato davanti. E magari sono gli stessi che pensosamente si interrogano sui motivi della crisi della sinistra" 


Una sorprendente osservazione e le, altrettanto sorprendenti, risposte che ne sono seguite nella importante sede dei commenti su Goofynomics, sono lo spunto per questo post.
Non si tratta, chiariamolo subito, di dar voce, unilaterale, alla propria personale replica al fine di prevalere in una disputa. Dati i termini della questione, riassumibile nell'interrogativo "E' o non è von Hayek collegabile alla costruzione europea, culminata in Maastricht?", ritengo che questa sia piuttosto la sede per un chiarimento più ragionato e puntuale, che la sede dei commenti di un blog non consente esattamente di fare.
Il che lascia aperto, al dibattito susseguente, in questa o qualsiasi altra sede, il fare un ulteriore arricchimento dei punti di vista legittimamente e documentatamente esprimibili.
Quello che poi qui verrà esposto è necessariamente un'operazione divulgativa. Per affrontare problemi di questa portata "funditus", occorrerebbero i famosi "fiumi di inchiostro" e probabilmente uno o più consistenti "libri" che, però, si leggerebbero poche persone.
Uno dei problemi più rimarchevoli che affligge le scienze sociali, è che, come dice il mio amico Cesare Pozzi, illustri autori vengano citati, citatissimi, ma in realtà molto meno letti.
Quindi si rassicuri Istwine, non faccio affidamento su fonti di seconda mano di facile diffusione sul web, ma, laddove non riporterò "l'originale", ho prescelto fonti quantomeno "serie" in quanto capaci di rimanere aderenti al testo che commentano. E d'altra parte questa utilizzazione delle fonti non è meno attendibile di quella normalmente usata nelle sedi scientifiche e non dichiaratamente divulgative (e sfido chiunque a constatarlo, proprio prendendo visione di tale tipo di testi).

Quindi che si crei, nelle scienze sociali, e specificamente in economia, una "vulgata", non è problema che riguardi Keynes o von Hayek, soltanto, ma praticamente tutti.
Quanto questo sia un male non è possibile stimare con atteggiamento "sdegnoso" dell'intellettuale "puro" (a cui la purezza potrebbe dare modo di essere attaccato a sua volta proporio sul piano che voleva rivendicare).
Le "vulgate", se soffrono di imprecisione e quindi di forti margini di errore (o, come direbbe Popper, di "falsificabilità"), spesso riflettono una "autenticità" che è direttamente proporzionale a un fenomeno intellettuale del nostro tempo (diciamo dell'evo contemporaneo): i protagonisti del "pensiero" sono portatori, in modo di gran lunga prevalente (personalmente eccettuiamo, in questo campo, proprio Keynes, che spicca per la ricchezza e varietà dei temi culturali che sa affrontare) di ben poche idee originali che si compendiano, in definitiva, in una o due idee-guida.
Molte lunghissime esposizioni, quindi, sono in realtà il frutto di citazioni, (come ha ben enfatizzato Borgés nel parlare della cultura moderna come "sistema di citazioni"), spesso inconscie, cioè frutto di una formazione culturale che  non viene resa coscientemente manifesta da chi la utilizza. Problema, di pre-comprensione, particolarmente evidente in Von Hayek. Queste "citazioni precomprese" sono poi utilizzate a fini confermativi e rafforzativi di concetti frammentati molto analiticamente, in corollari quasi tautologici, e spesso rielaborati in continue parafrasi.
Questa tendenza alla parafrasi "autodimostrativa" è particolarmente evidente in Hayek che, come autore, si presta particolarmente a operazioni "riduzionistiche", senza che ciò finisca per fargli particolarmente torto.

1- PREMESSA
Per inquadrare la questione che andiamo ad affrontare, occorre subito sottolineare una componente storico-politica di grande portata. Qui la premettiamo per poi riprenderla sui singoli argomenti.
Quando si propone un modello normativo generale, come si trova inevitabilmente a fare von Hayek, non ci si limita a predicare, come suo substrato giustificativo, "causale", un modello economico assolutamente "teorico", cioè svincolato dalla esigenza di "correggere l'esistente": si formula necessariamente una critica all'assetto sociale di un certo momento storico.
Tralasciando la questione problematica della necessaria scelta di quali caratteristiche, piuttosto che altre, defniscano tale assetto, (problema metodologico che è insito in ogni trattazione delle scienze sociali), l'operazione critica si risolve inevitabilmente nella critica al modello normativo generale precedente.
Cioè, se è vera la "vulgata" che il diritto consegue alla "struttura economica", postici su un piano storico, il voler affermare una diversa "struttura" - in particolare Hayek, parla proprio di "struttura del capitale", connettendola alla libera formazione dei prezzi , di tutti i prezzi di ogni possibile bene o servizio, come indice di una sua progressiva costante razionalità-efficienza-, significa, anzitutto, rimuovere gli ostacoli normativi (Hayek parla di "Legge" e "legislazione") che il precedente assetto strutturale ha creato nel darsi il proprio ordinamento, (più o meno) storicamente indentificabile.

Questo aspetto ci dà un'importante chiave di lettura: trasposto dalla teoria, quale appunto espone Hayek, alla pratica della "politica", il modello di assetto socio-economico "nuovo", dovrà necessariamente dotarsi di una "strategia", che gli consenta di affermarsi attraverso un PROCESSO (modificativo proprio del precedente assetto normativo) di periodo più o meno lungo. Questo perchè, appunto trasposto un modello dal piano ideologico a quello politico, si dovrà necessariamente tenere conto delle "resistenze al cambiamento" che si manifesteranno, da parte delle componenti sociali che subiscono i cambiamenti della posizione in precedenza normativamente garantita.
E quindi si cerca piuttosto di fissare dei "nuovi" obiettivi e agire con coerenti "strumenti" che, all'interno del processo, cioè nel tempo, pur non riflettendo immediatamente l'assetto finale da realizzare, ne consentono la progressiva affermazione.

Solo comprendendo questo necessario legame tra "fini" e "strumenti", e la sottostante connessione tra modelli economici e modelli normativi che si  mira ad avvicendare, si può comprendere la "costruzione europea" e il suo legame con la matrice culturale hayekkiana.
Altrimenti, in una visione statica, si finirà, come fa, a nostro parere, il nostro buon Istwine, per enfatizzare, appunto, visioni statiche (come nel caso in cui si confonda uno stock con un flusso) e concludere che il modello finale è ben diverso dalla rilevazione delle linee strategiche, cioè dinamiche, che lo vogliono attuare.
In termini più espliciti: von Hayek propone un radicale modello che, al di là della sua intrinseca bontà e praticabilità, quando è adottato dai suoi "realizzatori politici", esige di tener conto della realtà storica delle Costituzioni democratiche pluriclasse affermatesi in tutto il continente europeo (più o meno) nel "secondo dopoguerra". Perciò quello che premette ai fondatori di Maastricht era:
a) di fissare dei fini. In particolare la "forte competizione", che desse risalto al sistema di formazione dei prezzi come fulcro ordinativo di una società "efficiente" e libera (nella visione esplicita hayekkiana) nonchè la "stabilità dei prezzi" stessi, cioè il controllo assolutamente prioritario dell'inflazione (altro "valore assoluto" hayekkiano, certo ripreso da tutta la teoria economica che si pose sul suo solco). In tal senso basti vedere non solo la formulazione, ma la stessa prassi applicativa "inderogabile" e priva di mediazione con cui è stato inteso l'art.3 del trattato istitutivo dell'Unione;
b) stabilire gli opportuni strumenti strategici: su tutti, nonostante la "apparenza", e per le ragioni storiche qui più volte indicate, la banca centrale indipendente, considerata, a torto o a ragione, la cinghia di trasmissione di quella "disciplina salariale" che Hayek ritiene un presupposto indispensabile del "nuovo ordine". E quindi poco importa, in chiave strumentale, che egli non ne sia stato il diretto teorizzatore (ma anche su questo la conclusione non è affatto scontata).

D'altra parte, lo stesso Hayek è perfettamente cosciente della distinzione tra modelli teorici e strategie di loro realizzazione, di cui si disintessa per personale visione della sua funzione intellettuale:
“Penso fermamente che lo scopo principale del teorico dell’economia o del filosofo politico sia di agire sull’opinione pubblica per rendere politicamente possibile quello che forse oggi è politicamente impossibile, e quindi l’obiezione che le mie proposte sono attualmente impraticabili, non mi scoraggia assolutamente a svilupparle.”.

2- MODELLI COMPARABILI E...NON
Alla luce di questa "premessa" analizziamo la proposta comparativa tra modello hayekkiano e modello UE che, secondo Istwine, proverebbe la estraneità di Hayek medesimo al secondo.
Poi ci occuperemo di come, in effetti, con riferimento al modello UE-UEM, la sua sintesi si riveli frutto di inesatte valutazioni circa il contenuto della relativa disciplina dei trattati, nonchè circa la appartenenza di taluni elementi, indicati come "europei", a tutt'altra origine normativa.
Ecco il modello "comparativo" proposto:
"Eurozona:
1) BCE indipendente che fissa i tassi e interviene a sua discrezione. Così pure FED e virtualmente tutte le BC.

2) Tra QE e LTRO + tassi bassissimi, si può dire tutto fuorché "politiche monetarie restrittive".

3) Restrizioni a determinate libertà, in alcuni Stati esiste il reato d'opinione sostanzialmente e ti fai il carcere.

4) Monopoli e oligopoli, con evidente potere politico (cosa che Hayek aveva capito peraltro, come tanti altri, Galbraith ecc)

5) Tassazione a livelli elevati, spesa pubblica in termini di PIL non certamente bassa e burocrazia abnorme. Il caso italiano è emblematico. Tutt'altro che lo Stato minimo teorizzato da Hayek, tutt'altro che le regole previste dalle tesi originarie dei neoliberisti.

Hayek:
1) Concorrenza fra moneta, a livello pubblico e privato.

2) I tassi li fa il mercato.

3) Libertà personali sacrosante, lui peraltro scriveva criticando i totalitarismi dell'epoca.

4) Libero accesso all'attività economiche e minime restrizioni in termini burocratici. Lo stato fa le regole, ma non interviene. E fa le regole in funzione del bene pubblico, non dei monopolisti.

5) Lo Stato minimo di Hayek appunto.

3- LA MONETA
Partiamo da questo primo elemento che, più di ogni altro, segnalerebbe la esplicita contrarietà di Hayek alla stessa moneta unica, in quanto comunque espressione di un, per lui deleterio, monopolio di quello che dovrebbero essere un bene scambiabile, come ogni altro, in base a libere fluttuazioni della domanda e dell'offerta.
Ma le ragioni per cui v.H. si oppone alla moneta unica, cioè in quanto e solo in quanto, permarrebbe, in monopolio (più o meno pubblico), sono in un senso che è del tutto diverso da quello segnalato da altri "opppositori" all'euro.
Per v.H., e questo va tenuto sempre presente, l'euro non è sufficiente a garantire la stabilità del valore monetario ai fini della eliminazione dell'inflazione e della deflazione-disciplina salariale.
Di questa intrinseca funzione-finalità ideale del  bene-moneta abbiamo prova dalle sue stesse parole, già riportate nella parte finale di questo post. E il suo richiamo ad un ritorno al gold standard come soluzione ottimale globale, in ben manifesta connessione alla deflazione ed alla disciplina salariale, in contrapposizione alla logica inflazionistica della "piena occupazione" (prima che sul punto intervenisse la "sintesi" dialettica di Modigliani), non dovrebbe lasciare alcun dubbio.
Se v.H. ha una concezione della moneta in concorrenza libera tra pubblico e privato, questo ha precise finalità.
In "Denationalisation of money: the argument refined” espone la sua idea al riguardo così sintetizzata in un commento non certo "critico", ma piuttosto fedele:
"Hayek parte dalle ben conosciute tesi austriache: l’inflazione è un male assoluto poiché impedisce un calcolo economico corretto e provoca distorsioni e cattivi investimenti che, se si prolungano, non possono risolversi altro che per crisi; l’inflazione è il risultato di un’eccessiva creazione di moneta, e i responsabili sono i governi. Vi aggiunge tre semplici idee:
- chiunque possa produrre moneta, ha interesse a produrne il più possibile;
- la moneta è un bene come un altro;
- per tutti gli altri beni, è la concorrenza che modula la produzione sui bisogni.
Egli conclude che la stabilità monetaria sarebbe meglio assicurata da un regime di libera concorrenza fra monete rispetto all’attuale gestione statale, e cerca di dimostrarlo analizzando quello che verosimilmente succederebbe se i paesi del Mercato Comune s’impegnassero reciprocamente a non mettere più alcun ostacolo sui loro territori né alla libera circolazione delle monete nazionali né al libero esercizio dell’attività bancaria."

Senza dilungarsi troppo sull'argomento, vediamo quali sarebbero i vantaggi delle "monete in concorrenza", nelle sue stesse parole e compariamoli con quelli che, "strategicamente", l'euro cerca di perseguire, e sui quali abbiamo innumerevoli conferme, sia a supporto che radicalmente critiche di queste stesse finalità:
“- una moneta di cui si pensa che conserverà un potere di acquisto più o meno costante, sarà oggetto di domanda permanente fintanto che le persone saranno libere di utilizzarla;
- se tale domanda dipende dall’effettivo mantenimento a un livello costante del valore di questa moneta, si potrà dare confidenza alle banche emettitrici di fare tutti gli sforzi necessari per giungervi meglio di un monopolista che non corre alcun rischio deprezzando la propria moneta;
- gli emettitori possono giungere a questo risultato regolando la quantità di moneta che emettono;
un tale regolazione della quantità di ciascuna moneta è il migliore di tutti i metodi praticabili per regolare la quantità dei mezzi di scambio.”

Il substrato comune "ideale" tra il "nostro" e il metodo euro-BCE, quale istituzione "unica" di gestione della moneta, risulta certo parzialmente compromissorio. Ma rimane, nei "fini" enunciati normativamente nei trattati a partire da Maastricht, quello della stabilità del valore monetario, cioè pratica assenza di inflazione, e della visione monetaristica "quantitativa".
I riflessi a cui entrambe le soluzioni, con diversa gradualità (v.H. esplicitamente non si curava di questo aspetto, l'abbiamo visto), rimane quello della curva di....Phillips: la disoccupazione "naturale" (cioè l'abbandono della piena occupazione) e il conseguente calo dei salari reali sono indispensabili caratteristiche del modello sociale da attuare.
Certo, per v.H. il gold standard rimane una soluzione ideale, ma egli ammette che poichè si ha "l'assurda" pretesa che, nell'economia internazionale aperta, i paesi in surplus debbano sopportare (con la rivalutazione) il peso degli aggiustamenti, il valore della stabilità (assenza di inflazione) possa essere "almeno" garantito da quanto egli propone.
Questo passaggio è direttamente indicativo:
Resterebbero nel mondo libero più monete largamente utilizzate e molto simili. In vaste regioni una o due fra queste sarebbero dominanti, ma queste regioni non avrebbero confini né precisi né fissi, e l’uso delle monete dominanti in ognuna si sovrapporrebbe in zone frontaliere larghe e fluttuanti. La maggior parte di queste monete farebbe affidamento a un paniere di beni simili e fluttuerebbero molto poco le une in rapporto alle altre, probabilmente molto meno delle monete dei paesi oggi più stabili, ma un po’ di più delle monete che riposano su un gold standard.”
Ora sulla assimilabilità degli effetti (essenziali, non parliamo di totale coincidenza) dell'euro, all'interno della sua area di utilizzo, al gold standard, esistono ben precisi attestati scientifici sulla cui autorevolezza non si sollevano particolari obiezioni.
In questo quadro di finalità e obiettivi, realizzati in UEM con una certa "tragica" tangibilità, la vera discrasia che potrebbe lamentare v.H., alla luce delle sue stesse parole, è quella della limitazione, quoad effectum beninteso, alla sola Europa dei 17, dello schema generale che lui auspica per il mondo intero.
Ma, intanto, per noi "euroti" che subiamo le linee fondamentali delle sue teorie, è una ben magra consolazione il fatto che non tutto il mondo sia coinvolto nella stessa follia deflazionista, specialmente a seguito dello shock 2007-2008. Il quale, se non altro, ha avuto il merito di far ripensare, solo fuori dall'UEM, purtroppo, il mito" quantitativo" della moneta, che v.H. vuole realizzare senza porsi alcun dubbio teorico.

4- Q.E., LTRO E POLITICHE MONETARIE "RESTRITTIVE"
Circa i"tassi li fa il mercato", secondo v.H., e invece in Europa, "Tra QE e LTRO + tassi bassissimi, si può dire tutto fuorché "politiche monetarie restrittive", ci limitiamo a dire:
a) ci pare pacifica la non assimilabilità tra LTRO, operazioni di rifinanziamento del sistema bancario, e QE, operazione di finanziamento diretta degli Stati, senza agire sul sub-strato carry trade di collaterali.

L'UEM, a differenza della Fed (della BoI, della BoJ e via dicendo, praticamente all'infinito...) ha un piccolo particolare: l'art.123 del trattato sul funzionamento dell'Unione, che vieta l'acquisto di titoli del debito dei singoli Stati.
Questa è una caratteristica fondamentale, che differenzia la "roccaforte" UEM rispetto al resto del mondo, nell'intendere in modo "integralista", e rigidamente monetarista, cioè in base ad un dogma fondamentale per v.H., che lo indirizza proprio contro gli effetti deprecati del deficit pubblico, causativo di inflazione, per sostenere la "improvvida" piena occupazione.
Sulla consonanza di obiettivi (dogmi), strategico-strumentali della BCE (sicuramente sotto l'influenza di Bundesbank, ma il discorso non cambia, anzi), con lo schema hayekkiano stesso, non riesco a nutrire dubbi.
Si tratta di una mera applicazione della differenza tra "proposta..filosofica" e suo sviluppo politico, apertamente contemplata da v.H.

La "restrittività" delle politiche monetarie UEM - così come il valore dei tassi "bassi", andrebbe valutata comparativamente (in primis agli USA) e nell'intero periodo di vita dell'euro.
Cioè nel contesto di un mondo che ha registrato, e tutt'ora vede, sia un differenziale dei livelli dei tassi (più alti) tutt'ora praticati dalla BCE (in assenza di qualunque seria minaccia inflattiva), sia, più ancorala pregressa politica di "credibile" mantenimento di tassi ancor più elevati, e considerati pro-ciclici, nel periodo di iniziale vita dell'euro e specie all'indomani della crisi del 2007-2008 (quando i tassi furono addirittura innalzati mentre si procedeva al rifinanziamento, statale e BCE, del sistema bancario, incuranti della presunta attivazione di un presunto meccanismo di trasmissione alla effettiva offerta monetaria, ma rimanendo attentissimi all'ossessione dell'inflazione).
La "politica monetaria restrittiva"della BCE, rispetto al "resto del mondo" (comparabile) è un fatto, appunto, "comparativamente" rilevabile in termini storici: dunque, andrebbe valutata alla luce di queste "finalità" (stabilità dei prezzi e disciplina salariale), senz'altro comuni a v.H. e allo "strumento" BCE. E risalta, altresì, drammaticamente proprio con le contestazioni tedesche al programma OMT, su cui rinviamo alla limpida analisi di De Grauwe 
Certo non ci sfugge che il fatto che "le banche centrali non possono fallire" (in regime di cambio flessibile, extra UEM beninteso) non sarebbe piaciuto affatto a v.H.:  ma ribadiamo, l'aspetto monetario teorico-ideale, recede di fronte all'obiettivo strategico di combattere inflazione e...piena occupazione.
Sicchè l'invocazione continua attuale delle "riforme strutturali" (del mercato del lavoro), sarebbe senz'altro parsa un beneficio, agli occhi dello stesso v.H.. Un "progresso fondamentale" per cui poteva valere la pena di transigere sullo schema teorico.
Diamo atto, piuttosto, che Hayek fosse abbastanza razionale da comprendere quale dovesse essere la scala delle priorità e la relazione tra esse e i mezzi per realizzarle.

5- RESTRIZIONI ALLE "LIBERTA'" E REATI D'OPINIONE.
Qui la perplessità rispetto allo schema del (sempre stimato) Istwine, giunge a ben più facili argomenti di confutazione. Semplicemente perchè:
a) bisogna capire, sul piano della teoria generale del diritto (che non è affatto una cosa così scontata e facile da maneggiare, in base alle proprie impressioni lessicali) cosa siano, per v. H., le "sacrosante libertà personali";
b) bisogna, capire, e in base ad agevoli riscontri di diritto positivo, sia nei vari livelli nazionali sia quale sancito nei Trattati, che l'UE con i reati d'opinione non c'entri proprio nulla.

a) Sul primo aspetto.
La concezione dei "diritti di libertà" di v.H. si incentra sulla rigida priorità del diritto di proprietà, statico, cioè inteso quale titolarità attuale del relativo diritto, sia dinamico, inteso come organizzazione di beni in termini aziendali (questa è la corretta versione giuridica), capace di dare un flusso di ulteriori beni, un "reddito", di cui si acquisisca la (più incondizionata possibile) proprietà.
Si interessa, poi, v.H. ad altri diritti-libertà che non siano legati alla proprietà-titolarità ed alla sua proiezione dinamica in termini produttivi?
Sì, certo, ma soltanto per predicarne la natura di prevaricazione da parte dello Stato, che, secondo lui demagogicamente li garantisce, sugli individui-proprietari che ne sarebbero invariabilmente danneggiati. E con essi tutta la società.
Cioè gli individui-proprietari, assunti nella loro proiezione produttivistica, risultano danneggiati da "ogni altro diritto", in particolare dai diritti sociali e politici stessi (in quanto indifferenziatamente estesi a tutta la massa, non legittimata dalla condizione "naturale" di titolarità proprietaria).
Rinvio in proposito a una fonte abbastanza ben riassuntiva del tema, dato che la lettura di "Law, Legislation and Liberty" è certamente ardua, specialmente per un non tecnico del diritto, dato che, quantomeno, occorrerebbe avere una conoscenza del resto della enorme elaborazione in materia di "diritti fondamentali" (di cui in questo post abbiamo offerto una sintesi e che amplieremo nel "libro" di prossima pubblicazione).
Insomma tutto questa "sacro" libertarismo, nell'apparenza delle enunciazioni così "affascinante", è, nella sua visione, necessariamente riservato a "pochi".
"Ciò che più interessa a Hayek è dunque la libertà concepita come protezione mediante la legge contro ogni forma di coercizione arbitraria (freedom from) e non come rivendicazione del diritto di ognuno di partecipare alla determinazione della forma di governo (freedom to). In tale impostazione, acquista grande rilievo il discorso sullo Stato, che deve avere essenzialmente un ruolo secondario e negativo, deve intervenire il meno possibile nell’ambito di autonomia individuale e deve garantire, grazie a leggi generali, il pieno dispiegarsi delle libertà individuali, assicurando solide barriere a difesa dei “territori” dei singoli individui. La proprietà privata, intesa lockeanamente come diritto alla “vita, alla libertà e ai beni”, è, di conseguenza, il fondamento di ogni civiltà evoluta."

Sulla proprietà, ecco cosa dice Hayek (e attenzione, non contestiamo la appartenenza di quest'ultima al novero dei diritti fondamentali, ma, attenendoci alla nostra Costituzione, la consideriamo "una" delle posizioni in cui si esprime la dignità ed il valore dell'esistenza umana):
è la sola soluzione finora scoperta dagli uomini per risolvere il problema di conciliare la libertà individuale con l’assenza di conflitti. Legge, libertà, proprietà sono una trinità inseparabile. Non vi può essere alcuna legge, nel senso di regola universale di condotta, che non determini confini di aree d’azione, stabilendo regole che permettono a ciascuno di accertare fin dove egli è libero di agire” (Law, Legislation and Liberty).
E gli "altri diritti", ad esempio, quello al lavoro, a ricevere un'istruzione, all'assistenza sanitaria, alla stessa partecipazione politica al di fuori di una condizione di titolare della "proprietà"?
Per Hayek, siamo nel campo, incondizionatamente, delle discriminazioni, il che, sul piano logico, come evidenziato da Bobbio (ad esempio), significa che si ammettte solo una condizione "naturale" di "soggetto di diritto", quella di proprietario; si prescinde da qualsiasi indagine sul come e perchè questa sia distribuita in un certo modo nella società, e si nega natura generale legittimante ad ogni altro aspetto della personalità umana.
Questo eventuale ulteriore aspetto, per v.H., può solo essere la "innaturale", creazione di uno Stato invasore, che instauri una legislazione (contraria al vero Spirito della Legge) che finirebbe per assumere esclusivamente valore di limitazione della condizione naturale del "proprietario" e di instaurazione di un regime di "privilegio" e di favoritismo (!), cioè di inaccettabile ingiustizia.
In questo, Hayek rivendica di ritenersi incurante del fatto che la "legislazione", qunado non sia rivolta a sancire l'astensione dello Stato dall'interferenza sulla proprietà, riguardi o meno la schiacciante maggioranza della popolazione. A quest'ultima non riconosce alcuna legittimazione "naturale" a sollevare il conflitto sociale. Negando, anzi, ogni valore al concetto di democrazia, che propone di sostituire con quello di "demarchia" per sottolineare la sua natura di sopraffazione perpetrata da una maggioranza che non può mai raggiungere una legittimazione naturale al governo.
L’imperio della legge […] comporta dei limiti al campo della legislazione; esso lo restringe a quel tipo di regole generali cui si tributa il nome di leggi formali ed esclude la legislazione che miri direttamente a persone determinate o che metta in grado qualcuno di usare il potere coercitivo dello Stato ai fini di una tale discriminazione. Esso non significa che tutto deve essere regolato dalla legge, ma significa all’opposto che il potere coercitivo dello Stato può essere usato soltanto in casi anticipatamente definiti dalla legge e in maniera tale che si possa prevedere come sarà impiegato” (Verso la schiavitù).

E dunque (anche questo è un sunto fedele):
"Una delle forme più diffuse di interferenza è sicuramente la legislazione in materia di giustizia sociale, la quale tende a modificare la posizione economico/sociale delle persone favorendo (ad esempio attraverso la tassazione) le persone meno agiate. Su questa tematica, la posizione di Hayek è assai drastica: le persone svantaggiate (i poveri, gli ammalati, i portatori di handicap, le vedove, gli orfani, ecc) debbono essere protetti da una “rete” che assicuri loro il minimo necessario alla sopravvivenza, ma ciò deve avvenire al di fuori del libero mercato e non come intervento correttivo del mercato da parte della legislazione. Assicurare un reddito minimo a tutti è, secondo Hayek, un dovere della società libera: ma ciò deve verificarsi tramite l’assistenza e non cambiando in modo artificiale le regole del mercato.
Tra i vari compiti dello Stato, spicca quello di costruire strade, fissare indici di misura, di fornire altri tipi di informazioni (attraverso mappe e cartelli stradali, ad esempio) e di controllare la qualità dei beni e dei servizi. Ma riguardo ad altri servizi, come ad esempio quello postale, quello dell’istruzione e delle telecomunicazioni, il monopolio dello Stato è pernicioso al massimo, oltre che inefficiente.
Da questa posizione, ben emerge l’immensa fiducia nel libero mercato che, pur non funzionando sempre in modo perfetto, presenta benefici che superano di gran lunga gli svantaggi. Indubbiamente suggestionato dalla “mano invisibile” di cui parlava Adam Smith, Hayek è convinto che il mercato riesca ad armonizzare in maniera spontanea le decisioni dei produttori con la volontà e coi desideri dei consumatori, senza la mediazione del governo, e che assicuri il perseguimento dei propri scopi a tutti, sviluppando altresì quella che Hayek chiama la “Grande Società”, cioè la moderna società complessa, che sfugge a ogni pianificazione centralizzata poiché si affida solo all’iniziativa individuale e al meccanismo della concorrenza."

Siamo coscienti che non riusciremo a far cambiare opinione al brillante Istwine, ma se si conserva un "senso comune" della democrazia, è difficile trovare "affascinante" l'idea individualistica-libertaria di v.H. E tantomeno attribuirgi una "sacralizzazione". E per nostra (purtroppo oggi cagionevole) fortuna.

b) Sul secondo aspetto.
I "reati d'opinione" non sono una costruzione europea.
L'Europa si disinteressa "operativamente" della materia con la famosa clausola dell'art.6 del TUE. Lascia la materia alla sfera di competenza degli Stati. E alle enunciazioni delle varie Carte dei diritti, entrate a far parte del diritto internazionale generale.
E neanche a dire che i "reati di opinione" non siano stati affrontati e stigmatizzati, più o meo direttamente, nelle Costituzioni democratiche, sicuramente in epoca anteriore a Maastricht, e nello stesso diritto internazionale generale.
Il punto è che sia la Corte costituzionale che la stessa Corte Europea dei Diritti dell'Uomo prendono da decenni posizione, cassandoli, sui vari "reati" di questo tipo, caratterizzati da clausole spesso incentrate sulla tutela della "personalità dello Stato" o il "sentimento religioso", cioè clausole c.d. "generali", in cui è più forte il pericolo della indefinizione dei presupposti che possono portare alla punizione dell'individuo.
In Italia, la materia è stata rivisitata, sulla scorta di varie pronunce della Corte costituzionale, dalla legge 24 febbraio 2006, n.85.
Ma è un fatto che, se la Corte non è intervenuta prima degli anni 2000, è perchè questi reati sono praticamente in desuetudine, cioè in concreto disapplicati. E grazie all'art.21 Cost.: ma più ancora, alla grande sensibilità che la Costituzione democratica pluriclasse ha innervato nel senso condiviso della comunità (smentendo che questo possa mai incentrarsi sul solo "diritto di proprietà") senso condiviso che v.H.avrebbe certamente condannato, perchè frutto della deprecabile "demarchia".

Come pure è un fatto, che a seguire la teoria generale dello Stato e del diritto naturale (Legge) di v.H., oggi, avremmo come fattispecie penali, duramente punite, lo "sciopero" e l'"associazione sindacale".

6-  MONOPOLI E OLIGOPOLI
Su questo punto, è veramente difficile vedere una divaricazione tra teorie hayekkiane e trattati UE.
Ovviamente, bisogna precisare ciò che v.H. sosteneva veramente in materia, come vedremo.
Per suo conto, il TFUE (ma già la versione originaria di Maastricht), contiene una vasta serie di previsioni su monopoli e concorrenza, che sono alla base del diritto antitrust introdotto, per la prima volta, in Italia. Il TFUE:
- all'art.101 prevede e sanziona (con la "nullità di pieno diritto"), come "incompatibili con il mercato interno" le varie forme di trust, accordi fra imprese, intese, e simili;
- all'art.102, colpisce allo stesso modo "lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante";
- al'art.106, colpisce con una sostanziale "incompatibilità" col trattato le posizioni di monopolio pubblico, ammettendone il mantenimento alla rigida vigilanza della Commissione sul rispetto delle norme (artt. 18 e da 101 a 109), inclusive dell'"abuso di posizione dominante", dettate sulla stessa "libera concorrenza".

Di sicuro, in questo quadro, l'UE non può essere accusata di aver creato o incentivato monopoli, cartelli od oligopoli. Tranne che per il sistema bancario, rimasto in un "limbo" di controllo delle varie banche centrali (e della stessa BCE, pur nelle grandi difficoltà che la sua competenza accentrata, a livello UEM, sta non casualmente incontrando). E ciò per ragioni, molto hayekkiane, connesse però al vigente mercato libero globalizzato dei capitali e alla natura "universale" , cioè non più legata alla sola intermediazione finanziaria in senso commerciale, dell'impresa bancaria, introdotta proprio sulla spinta europea (ma appunto non certo contraria alla visione di H.).

Per confermare, semmai, la non contrarietà (almeno) del diritto europeo con la visione di v.H. vediamo quale fosse il relativo impianto teorico.
Questo è (relativamente) facile da ricostruire e lo facciamo, in questa sede divulgativa (anche se i problemi qui trattati si sono già rivelati abbastanza complicatucci).
Come si può registrare da un commento sul tema, fortemente critico, ma non meno accurato, esiste una precisa fonte in cui confluisce la posizione di Hayek, ed in cui, pur risultando confluente con quella di altri esponenti della sua stessa "scuola" (diramatasi da von Mises), possiamo identificare i termini della sua analisi teorica: il c.d. "Colloquio Lippmann".
Sulla intima adesione di Hayek a quella "analisi fondativa" di un neo-liberismo in cerca di affermazione abbiamo la prova nella sua stessa vicenda personale.
Questi i punti salienti elaborati in quella sede, una sorta di "convenzione generale" del liberismo (li riporto dalla predetta fonte, per l'impostazione, quasi da "verbale" della riunione che essa ci fornisce):
"All’incontro ci sono tutti i nomi che contano del neoliberalismo: Hayek, von Mises, Rustow, Röpke e il segretario generale della riunione è niente di meno che Raymond Aron. Questo colloquio è importante perché proprio durante le discussioni verranno fissati i punti cardinali del neoliberalismo. Uno di questi signori, Miksch, dice: “in questa politica neoliberale è possibile che gli interventi economici siano tanto ampi e numerosi quanto in una politica pianificatrice, ma sarà la loro natura a essere differente”. Perché esprime un concetto così strano per un liberale? Perché dice che lo Stato dovrà intervenire pesantemente? Sembra una contraddizione in termini. Ma non lo è.
Miksch e i suoi compagni di merende stanno pensando al problema dei monopoli. Qualcuno (qualcuno di nome Marx) aveva fatto notare da tempo che, quando il mercato viene lasciato libero di autoregolarsi, tendono a formarsi dei monopoli. E si era notato che proprio i monopoli tendono a strangolare il libero mercato. Perciò si era detto: “non è vero che il mercato lasciato libero di agire si autoregola, anzi, semmai, con i monopoli che egli stesso crea muore da sé”.  

I neoliberisti in quella riunione del 1939 ribattono e dicono una cosa piuttosto strana: non è il mercato che crea i monopoli ma le azioni sbagliate dello Stato che, non vigilando sulla concorrenza in modo serio, lascia nascere i monopoli. Von Mises aggiunse un altro concetto: i monopoli si formano in mercati piccoli, nazionali. Il giorno in cui ci sarà un vero mercato mondiale, globale sarà impossibile la creazione di un monopolio
Ma, in fondo, aggiunge von Mises, perché preoccuparsi dei monopoli? Essi sono destinati a infrangersi perché quando un monopolista fisserà un prezzo troppo alto allora, all’interno dell’economia, sorgeranno imprese che praticheranno prezzi più bassi. Cioè: in ogni caso se il monopolista esagera con i prezzi il mercato reagirà. Così la principale obiezione di Marx veniva (apparentemente) eliminata.
Rimane il problema di capire come lo Stato dovrà intervenire. Ce lo dice un altro economista neoliberale, Eucken. Lo Stato, dice, deve intervenire con “azioni regolatrici”.
E le azioni regolatrici dello Stato vanno fatte non sull’economia ma sul funzionamento del mercato. Questo significa che si dovrà puntare sempre alla stabilità dei prezzi ossia quel che deve fare lo Stato è controllare a tutti i costi l’inflazione. Lo Stato non dovrà mai calmierare i prezzi, non dovrà mai sostenere un settore in crisi, non dovrà mai e poi mai creare posti di lavoro attraverso l’investimento pubblico. Lo Stato dovrà solo controllare l’inflazione. Come? Attraverso il tasso di sconto, attraverso l’abbassamento delle tasse. Ma mai con una politica che turbi l’economia.
E per la disoccupazione lo Stato che dovrebbe fare? Per Eucken e per i neoliberali lo Stato non dovrebbe fare nulla.
Il disoccupato non è una vittima – dice un altro neoliberale, Röpke – il disoccupato è solo un “lavoratore in transito” che passa da una attività non redditizia a una più redditizia. Ma lo Stato userà le “azioni regolatrici” solo dove si presenti la necessità, normalmente invece dovrà lavorare per garantire le condizioni di esistenza del mercato. Lo Stato dovrà garantire l’esistenza del “quadro” come lo chiamano i neoliberali nel 1939. Garantire il “quadro” è possibile attraverso le “azioni ordinatrici”  

I monopoli, dunque, si legano, a vario titolo, quasi esclusivamente alla "responsabilità dello Stato, la cui azione va dunque limitata, come sempre rigidamente, al controllo dell'inflazione.
Il monopolio nasce, dunque, o perchè lo Stato non agisce in "regolazione" (l'unica ammissibile) sul funzionamento del mercato, o perchè, peggio ancora, riservi a se stesso una posizione di monopolista.
Sappiamo (lo abbiamo visto poco sopra) che per v.H. ciò investe non solo attività di rilevanza economica, ma anche altre di sicuro interesse pubblico prevalente, esercitate attraverso la forma legislativa della "pubblica funzione".
Un fardello inammissibile per v.H., che considera la costruzione di strade, la fornitura di "indicazioni e segnaletica" e la verifica della qualità di beni e servizi le uniche attività con cui, lo Stato, può tangenzialmente sfiorare l'attività economica e la proprietà "libere". Naturalmente lo Stato dovrà anche vigilare su ordine pubblico e apprestare, in una certa misura, la difesa nazionale.
La visione di Hayek sul questi ultimi punti è tale che non esclude, in astratto, che larga parte della pubblica sicurezza e della repressione dei reati possa essere svolta in forma di servizio affidato alla libera concorrenza tra privati (contando poi che, come abbiamo sottolineato, "sciopero" e "associazione sindacale" rientrerebbero nelle fattispecie penali). Negli USA, si hanno varie applicazioni, più o meno estese, di ciò, ad esempio in quella branca della pubblica sicurezza che è la custodia dei carcerati. O la protezione degli interessi economici in terra straniera.  Ma in Europa, come attesta la famosa direttiva Bolkenstein è un'idea in forte avanzamento, tenuta lontano dalle conseguenze hayekkiane solo da "eccettuazioni" che riflettono la "gradualità"  strategica più volte menzionata.
In conclusione, monopoli  e oligopoli, - affidati a una nuova regolazione "del mercato", escludendosi progressivamente lo Stato dal, mal visto monopolio pubblico (ed estendendone oltremodo il concetto), sul presupposto della simultanea garanzia del controllo dell'inflazione, così come previste dai trattati UE-, risultano, in sede UE, disciplinati in linea con la teoria di v.H.

7- STATO MINIMO E "ECCESSO" DI TASSAZIONE.
Le cose fin qui complessivamente dette, dovrebbero aver chiarito il concetto di "Stato minimo", caratterizzato da una "Legge" che pone al di sopra di ogni cosa il soggetto naturale di tutela, il "proprietario-produttore", escludendosi, come interferenza distorsiva, ogni altro tipo di "legislazione", in specie quella sociale, foriera di violazioni e privilegi rispetto alla condizione di "astensione" dello Stato che possa porre in pericolo questo, ben delimitato, concetto di libertà.
Attinta dalla generale condanna della sua arbitrarietà, l'attività dello Stato sarà da delimitare progressivamente alla costruzione di "strade"...e alla segnaletica, mentre non è esclusa la progressiva privatizzazione, per di più in un mercato di cui si auspica la apertura "mondiale", di attività come difesa e pubblica sicurezza; queste, poi, finiscono per essere, in ultima analisi destinate a tutelare la proprietà produttiva, sul territorio nazionale come all'estero. Istruzione, previdenza e sanità sono invece nel tipico campo di elezione della "libertà" dei privati operatori economici. Lo Stato minimo ne è doverosamente escluso.
Un "punto di arrivo" indubbiamente, ma non un obiettivo che può dirsi estraneo alla strumentazione messa in campo coi trattati europei.

Che questa sia una costruzione ideale, ma non tanto (nutrendo Hayek espressamente fiducia nel fatto che "un giorno" esisteranno le condizioni politiche per realizzarla:...vi ricorda qualcosa?), e non segna alcuna fondamentale incompatibilità col disegno UE-UEM, che, come già sul piano monetario, ammette un processo strategico che utilizza strumenti di progressiva realizzazione di tale "schema ideale" condivendendone i fini essenziali.
In questa chiave "progressiva" si possono comprendere anche gli elevati livelli di tassazione: si tratta di una condizione transitoria e, naturalmente strumentale, che sconta la modifica del precedente ordine costituzionale dei welfare, mirando a farlo collassare, per rigetto del corpo sociale, mediante la imposizione del vincolo monetario (ad effetti equipollenti "in parte qua" al gold standard) e dei ben noti "vincoli" di deficit e di ammontare del debito, posti rispetto ai bilanci pubblici.
I quali, naturalmente, in una fase iniziale, pazientemente durevole, debbono "rientrare", consolidarsi, aumentando l'imposizione fiscale, prima di poter procedere, verificatesi le condizioni politiche, al taglio strutturale della spesa pubblica.
Alla fine, la gente, avvertendo come insopportabile il costo dei diritti sociali, cioè del welfare, invocherà il loro smantellamento, pur di vedersi sollevata da questa insopportabile tassazione. 

Ed è, appunto quanto si sta verificando, segnatamente in Italia, verificandosi così la strumentalità della costruzione europea per la realizzazione del "fine": l'instaurazione del "meraviglioso mondo di von Hayek".