sabato 13 maggio 2017

DIBATTITO SULL'EURO: L'INCONSAPEVOLE (?) NOSTAGLIA SENZA RICORDI DI DE GRAUWE

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Questo importante post di Arturo si presta sia a costituire una sintesi (di rara profondità storico-economica e giuridica) del problema dell'euro, sia ad un indispensabile ampliamento del discorso, in modo più approfondito, sul versante economico-costituzionale della stessa questione. 
Il problema ulteriore che ci presenta questa duplice attitudine del discorso qui proposto, è che l'incapacità, anzi, l'ormai evidente "refrattarietà" a padroneggiarlo, da parte della "classe dirigente" di questo paese, va di pari passo con l'opposta urgenza di cominciare, almeno, a familiarizzare coi suoi termini economico-istituzionali.
Ne va della sopravvivenza di un'intera comunità sociale; in ogni sua componente...



1. Il Sole 24 Ore ha aperto da qualche tempo il dibattito sull’euro. Spero non vi sia sfuggito l’articolo di De Grauwe, che ha almeno il pregio di chiarire, direi in modo definitivo, i termini non solo e non tanto economici, quanto politico-costituzionali, della permanenza nella moneta unica.
Che ci dice il nostro? Vediamo (adde: non ci si preoccupa di dire perché l'esiziale "salita del costo unitario del lavoro" si sia verificata. La cosa, che pure individuerebbe le rispettive responsabilità dei paesi interessati - chiarendo, oltretutto, la predisposizione istituzionale dei trattati proprio a determinare tali comportamenti anticooperativi...come inevitabili -, è relegata a puro retroscena di natura meteorologica)
È evidente che l’Italia non ci ha guadagnato molto a stare nell’Eurozona. La si può vedere così: dal 1999, quando è stato creato l’euro, la competitività di molti Paesi dell’Europa meridionale (più l’Irlanda) ha subìto un notevole deterioramento, fino allo scoppio della crisi finanziaria del 2008. Rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona, l’Irlanda ha visto salire il costo unitario del lavoro del 45%, la Grecia del 35% e la Spagna del 28 per cento. Insomma, questi Paesi hanno subìto un pesantissimo calo della competitività, che ha penalizzato le esportazioni e determinato un forte disavanzo delle partite correnti. L’Italia è al terzo posto in questa classifica, con una perdita di competitività di quasi il 30 per cento. Come è accaduto per gli altri Paesi, questa perdita ha inciso pesantemente sulle esportazioni.

Insomma, l’euro non è stato un buon affare per i paesi periferici dell’eurozona e in particolare per l’Italia. Chi l’avrebbe mai detto!
Almeno su questo punto, anche Eichengreen, al netto di non inspiegabili amnesie, bontà sua, concorda: “Ci sono ragioni valide per sostenere che la creazione dell’euro e la partecipazione dell’Italia siano stati due errori storici.
Piccola osservazione a latere: non vedo come argomentazioni di questo tenore non debbano rappresentare la definiva pietra tombale su qualsiasi ricattatorio e improvvisato “più Europa”.

2. Se già Spaventa  (punto III, b) lamentava un “terrorismo ideologico europeistico” che esponeva al rischio “di essere marchiati come nazionalisti, come retrogradi”  chi non aderiva entusiasta allo SME, la trappola si è puntualmente ripresentata all’epoca di Maastricht (ricordiamo per esempio le parole di D’Alema in occasione della ratifica (pagg. 54-5 del pdf):
La scelta di un voto favorevole, alla quale giungiamo, è dunque una scelta sofferta e non scontata. Noi sentiamo vivissima la preoccupazione di una Europa dominata da interessi forti, scarsamente democratica, divisa tra aree ricche e trainanti e aree meno sviluppate e subalterne, ma ci persuade l'idea che una mancata ratifica del trattato di Maastricht, in realtà, non metterebbe per nulla al riparo da questi rischi e significherebbe la sanzione di una sconfitta. Sappiamo che la battaglia per un'Europa democratica dei cittadini e dei lavoratori è una battaglia non facile, il cui esito dipenderà in gran parte dalla forza e dall'unità di una nuova sinistra europea, ma di una nuova sinistra europea che stia nel processo di unità e che guardi oltre Maastricht. Chiamarsi fuori, confondersi con il fiorire di resistenze nazionalistiche e corporative, significa perdere senza combattere.”).
Ad anni di distanza, tirando le somme, e soprattutto le sottrazioni, occorre osservare quanto invariabilmente dannose e illusorie si siano rivelate le decisioni prese sull’onda del “ora o mai più”, “cambieremo l’Europa dall’interno” (Eichengreen ce lo propina ancora oggi!) e in ogni caso “abbasso il nazionalismo”.

Oltre Maastricht c’è solo il fiscal compact

3. Torniamo a De Grauwe: 
La grande differenza tra l’Italia e gli altri Paesi citati si è avuta dal 2008 in poi, quando Irlanda, Grecia e Spagna hanno avviato un processo di «svalutazione interna» (il termine usato dagli economisti per dire che questi Paesi hanno seguito politiche finalizzate a ridurre salari e prezzi rispetto agli altri membri dell’Eurozona), con risultati positivi
Queste svalutazioni interne hanno riportato la competitività ai livelli antecedenti alla nascita dell’Eurozona. L’Italia non ha seguito lo stesso percorso: a partire dal 2008, la sua svalutazione interna (misurata con la diminuzione del costo unitario del lavoro relativo) è stata inferiore al 10 per cento. Il risultato è che il Paese è gravato da una perdita di competitività che appare inchiodata al 20 per cento. In altre parole, in Italia il costo unitario del lavoro rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona è più alto del 20% dalla creazione dell’euro.
In un’unione monetaria è essenziale che quando un Paese perde competitività esista un meccanismo in grado di ripristinarla. Questo meccanismo sembra aver funzionato in Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia. È molto doloroso e spesso è fortemente osteggiato da chi vede diminuire il proprio salario. Ma è anche inevitabile, nell’ambito di un’unione monetaria. Paesi come Irlanda, Spagna e Grecia sembrano essere riusciti a vincere l’opposizione alla svalutazione interna.

Tiriamo un respiro, vinciamo lo sgomento di fronte all’impiego dell’aggettivo “positivo” – seppure, bontà sua, accompagnato da “molto doloroso” - per descrivere un corso di politica economica che ha prodotto un crollo del PIL greco di entità analoga a quello subito dal PIL tedesco fra il 1938 e il 1948 (non sto scherzando, come potete verificare  qui) e andiamo avanti: non ha senso discutere simili enormità.
Il punto fondamentale è il seguente: Spagna, Grecia e Irlanda dimostrano il successo della svalutazione interna!
Evviva!

4. Una tesi che piace alla gente che piace (ai media), visto che è un inossidabile refrain ripetuto in tutte le salse e tutte le sedi, come dimostra, per dire, quanto ci racconta Flassbeck, reduce dalla conferenza di Cernobbio dell’anno passato, durante cui non s’era lasciato sfuggire l’occasione – guastafeste come al solito! - per confutarlo, chiarendo con brutale sintesi i reali termini economici della questione: 

Il messaggio è che l’Italia può decidere se vuole morire lentamente o se vuole morire in fretta. Morirà lentamente se si muove a piccoli passi o se non progredisce affatto. Ma può anche morire in fretta, se cerca, come hanno tentato la Grecia, la Spagna o il Portogallo, di ridurre i salari in un tempo molto breve di qualcosa come il venti o il trenta per cento.
Evidentemente De Grauwe (e chi lo pubblica) si augura per noi la morte rapida (non era stato proprio Renzi a prendersela con la “lentocrazia”?), che però non s’annuncia affatto “dolce”.

5. Difficile vederci una qualsiasi razionalità economica rispetto alla situazione di equilibrio estero del paese, come indicano i relativi dati pubblicati da Bankitalia (punto 19).
La vera posta in gioco risulta chiarita dalla chiusa dell’articolo di De Grauwe (adde: che risulta, a sua volta, come una pietra tombale, €urocertificante il fastidio incontenibile verso la sovranità democratica, specificamente delineata dalla nostra Costituzione, dopo la prematura dipartita di ogni minimo dibattito, serio ed approfondito, sulle relazioni tra esito del referendum costituzionale e il rifiuto popolare, più o meno cosciente, della sua vera posta in gioco): 
L’inevitabile conclusione è che l’Italia non funziona bene in un’unione monetaria. Le sue istituzioni politiche la rendono inadatta all’Eurozona. Se queste istituzioni politiche non cambieranno radicalmente, l’Italia sarà costretta a lasciare la moneta unica: non può rimanere ferma a guardare il suo tessuto economico che continua a deteriorarsi.
Prima dell’arrivo dell’euro, quando l’Italia aveva una propria moneta, capitava spesso che perdesse competitività a causa dell’inflazione, ma riusciva sempre a ripristinarla attraverso le svalutazioni. Questo aveva creato un modello economico con frequenti crisi valutarie e inflazione alta. Non era un granché, ma almeno era coerente con la debolezza delle istituzioni politiche. In assenza di istituzioni politiche più forti, l’Italia dovrà prepararsi a un’uscita dall’euro nel prossimo futuro.

Finalmente si gioca a carte scoperte, verrebbe da dire: l’euro serve a spazzare via (quel che resta del)la Costituzione repubblicana.

6. Alcune semplici considerazioni ritengo supportino la conclusione:
primo: mi pare abbastanza evidente che l’uscita dall’euro non venga indicata come un’opzione percorribile, di cui debbano essere valutati razionalmente i costi, confrontandoli con quelli, “dolorosi”, della permanenza: sulle pagine del Sole, affannato a elargire banalità come “la storia non fa marcia indietro” e simili, una tale analisi rimane, nella migliore delle ipotesi, vaga ma in compenso catastrofista.
Più plausibile pensare a un ennesimo impiego di quella che Caffè (per non citare la solita Klein…) chiamava “strategia dell’allarmismo economico” “da intendersi come presentazione artificiosamente esagerata di fatti reali” rientrante “in una strategia oligopolistica rivolta a mettere in crisi un determinato assetto politico-sociale.” (F. Caffè, Un’economia in ritardo, Bollati Boringhieri, Torino, 1976, pag. 50); 

secondo: non si può davvero dire che, allo stato presente, la Costituzione dispieghi tutto il suo potenziale di ostacolo a un’azione decisionista e antisociale del governo, nemmeno nei suoi aspetti procedurali
Magari! Della, diciamo, aleatorietà della tutela giurisdizionale dei diritti sociali ad opera della Corte Costituzionale, s’è già ripetutamente parlato; ma anche la rappresentanza versa in uno stato di salute non proprio brillante. 
Come sintetizza un costituzionalista del calibro di Azzariti (Contro il revisionismo costituzionale, Laterza, Roma-Bari, 2016, pag. 43) 
La mia impressione è che il sistema parlamentare e le procedure in esso utilizzate per giungere a definire il compromesso politico stiano subendo una particolare involuzione. E, infatti, ormai legittimo chiedersi se dietro alla procedura parlamentare esista ancora la realtà del conflitto. Ci si può forse anche domandare se il nostro sia ancora un Parlamento rappresentativo degli interessi reali.”, solo che si considerino i “nostri sistemi elettorali, sempre più distorsivi della rappresentanza e votati ad un unico scopo, quello di assicurare artificialmente una maggioranza parlamentare ad ogni costo”,l’abbandono di ogni rapporto privilegiato tra elettori ed eletti, privati i primi di ogni effettivo potere di scelta dei secondi, prevalendo ormai le decisioni dei partiti nella composizione delle liste e nella stessa scelta dei futuri eletti (diventati quest’ultimi fiduciari dei leader di partito, più che rappresentanti del corpo elettorale)”, “la centralità del governo in Parlamento e la marginalità ormai assunta dal confronto politico nelle Camere, schiacciato dall’abuso della decretazione, dai maxiemendamenti, dall’uso continuo e strumentale della fiducia, dai tempi di discussione contingentati”;

terzo: una terapia d’urto paragonabile a quella richiesta dalla permanenza dell’euro nella storia nazionale l’abbiamo già avuta, all’epoca della quota 90
I dati lasciano spazio a pochi equivoci: tra il 26 e il 1930, si riscontra “una caduta continua” dei salari reali, per complessivi “26 punti percentuali” (V. Zamagni, Salari e profitti nell’industria italiana tra decollo industriale e anni ’30 in S. Zaninelli e M. Taccolini (a cura di), "Il lavoro come fattore produttivo e come risorsa. Atti del convegno di studi della Società italiana di storici dell’economia, Vita e Pensiero", Milano, 2002, pag. 244), naturalmente col vivo plauso della finanza anglosassone, come abbiamo verificato (qui, amplius, p. 5 e ss.) leggendo un memorandum riservato del 26 dicembre 1927, redatto dalla franca penna del governatore della Fed dell’epoca, Benjamin Strong:
Anche mettendo in conto questi punti particolari [le discussioni sul livello della stabilizzazione, che è poi svalutazione salariale mediante disoccupazione diffusa], non ho mai partecipato a una trattativa importante che fosse condotta in maniera così soddisfacente come questa. 
La ragione veramente sta nel fatto che l’Italia adottò le varie misure preliminari necessarie alle trattative e le eseguì con grande vigore e successo prima di arrivare alla decisione. La maggior parte degli altri paesi che hanno stabilizzato, con la sola eccezione dell’Inghilterra [sic!], non sono riusciti a raggiungere lo stesso risultato in anticipo, e devo dire che vi sono prove di grande autocontrollo e capacità di sacrificio, tali da consentire di realizzare questo programma, secondo i connotati lineari che ha assunto, senza tanti “se” e “ma” e riserve.” (G. G. Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo, Feltrinelli, Milano, 1980, pag. 197). 

7. Evidentemente lo stato di eccezione permanente (da “scarsità di risorse”) e la rappresentanza in stato comatoso sono ancora gravidi di troppi “se e ma” (!!!).
Aggiunge Migone (Ibid., pag. 198): 
E’ interessante rilevare come l’autocontrollo ammirato da Strong non consisteva che nei poteri autocratici di cui disponeva Mussolini e che già i partners della Banca Morgan aveva confrontato favorevolmente alle più complesse ed incerte procedure delle democrazia parlamentari europee
Analogamente, lo spirito di autosacrificio a cui egli fa riferimento consiste in realtà nei sacrifici imposti a quelle classi e quelle categorie che erano state colpite dal processo di disinflazione, oltre che dalla repressione dello stato fascista.
Se uno, più uno, più uno fa tre, che tipo di soluzione sta caldeggiando il quotidiano di  Confindustria per bocca di De Grauwe, come unica alternativa allo spauracchio dell’uscita dall’euro?


Naturalmente la differenza, non da poco, è che negli anni ‘20/’30, lo Stato poteva intervenire a salvare imprese e banche italiane colpite dalla deflazione; oggi *no*.

8. Gli imprenditori italiani farebbero quindi bene a riflettere con molta attenzione su queste parole di Kaldor ("Il flagello del monetarismo", Loescher, Torino, 1984, pagg. 117-18)
In realtà la «pressione verso il basso» sui prezzi esercitata dall’offerta di moneta non esiste, è pura immaginazione. La pressione verso il basso sui prezzi deriva, se esiste, dalla perdita di leadership nei prezzi delle imprese inglesi rispetto a quelle straniere, che avviene non solo sui mercati esteri, ma anche sul mercato nazionale, e che dipende dalla sopravvalutazione della sterlina, dall’assenza di barriere doganali, e dalla rapida diminuzione della quota di mercato nazionale in mano ai produttori inglesi. Essa è aggravata dal costante peggioramento della posizione finanziaria delle imprese, causato dalla progressiva riduzione della domanda effettiva di tutti i prodotti, a sua volta provocata da una miscela di misure di bilancio deflazionistiche e dalla particolare restrizione nei confronti delle imprese britanniche che viene assicurata dalla sopravvalutazione della sterlina (a sua volta dovuta agli alti tassi di interesse). È una politica che «taglia il naso per far dispetto alla faccia», che rovina progressivamente le imprese private al solo fine di indebolire il potere contrattuale dei lavoratori”.

9. Concludendo, diciamo che si può pure capirli: meno l’ital-tacchino è in grado di muoversi e starnazzare, più è agevole tirargli il collo e servirlo in tavola.
Pure il buon appetito però non me la sento di augurarglielo.

32 commenti:

  1. De Grauwe non era quello che diceva, e dice tutt'ora, che gli italiani sono i più ricchi del mondo e che vivono in un paese dove anche il calzolaio ha 5 seconde case? Magari mi sbaglio, ma sembra che costui abbia proprio preso di mira l'Italia.
    Questi dati potrebbero far inorgoglire qualcuno e far pensare "bene noi italiani stiamo comunque resistendo, perché almeno i dati di De Grauwe ce lo dicono", anche se, purtroppo, altri dati dicono tutto il contrario, ad esempio questi:
    Gli stipendi degli italiani sono i più bassi d’Europa:
    http://www.lastampa.it/2016/02/16/economia/lavoro/gli-stipendi-degli-italiani-sono-i-pi-bassi-deuropa-g3Gez1YPkr1LcYJJSnJxiJ/pagina.html
    I giovani italiani sono i meno pagati d'Europa, anche peggio degli spagnoli:
    https://www.idealista.it/news/finanza/lavoro/2016/02/18/119093-in-europa-gli-italiani-sono-quelli-che-guadagnano-meno
    Sembra che questo De Grauwe dipinga un paradiso italico che esiste solo nelle sue fantasie, visto anche il tasso di povertà descritto qui:
    http://orizzonte48.blogspot.it/2017/04/ong-chi-le-finanzia-veramente-e-perche.html
    Il paradiso in Terra di De Grauwe avrebbe potuto essere vicino alla descrizione della realtà forse 20 o 30 anni fa; cioè, prima di tutte le privatizzazioni e i Jobs act operati, da 20-30 anni a questa parte, dalla nostra classe dirigente più europeista dei Padri Fondatori stessi. Dopo tutto quello che abbiamo fatto, dopo MONTI, noi dovremmo ancora fare le riforme "che non abbiamo ancora fatto" per abbattere il costo del lavoro e viviamo tutti ancora nel paese dei balocchi con la Costituzione effettivamente ancora in opera nei suoi effetti economici?

    Finché ci sarà ancora qualche italiano che respirerà (nel senso di riuscire fisicamente a respirare dopo che ti avranno tolto tutto il resto, compreso i pasti) per questi "ricercatori" noi continueremo sempre ed eternamente ad essere i più "ricchi" del mondo e a vivere al di sopra delle nostre possibilità, immeritatamente, come parassiti sulle spalle dei virtuosi e "austeri" paesi del nord. Questa non è volontà di spennare, questa è volontà di STERMINARE.

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    1. Io un pò sono orgoglioso, nonostante le forze in campo ,abbiamo mostrato una discreta resilenza.
      Tralasciamo che ciò si è tramutato in una carsica stagflazione, ma stiamo resistendo,abbiamo evitato lo stupro della costituzione, si forse più inconsciamente che consciamente.
      Adesso dovremmo reagire, magari schierandoci sotto l'egida della costituzione, si lo so la notte è ancora lunga, ma siamo un grande paese, che nonostante le forze in campo contro di noi, resiste, calpesto e spezzato ma resiste.

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    2. Ma, a conti fatti, quella che tu chiami "resistenza", io la chiamerei strategia a piccoli passi della rana bollita, operata dal capitale; e la strategia dei piccoli passi l'hanno chiaramente esplicitata, non siamo nel campo della teoria. E' naturale che noi non eravamo nelle stesse condizioni di partenza della Grecia, ad esempio; il nostro peso demografico ed economico era maggiore. Ma sono 30 o 40 anni che le nostre classi dirigenti vanno avanti per la strada europeista pressoché senza alcun disturbo. E' naturale che NON POSSONO ridurre in estrema povertà la maggioranza dei cittadini da un giorno all'altro, perché questi andrebbero subito in subbuglio, si accorgerebbero che c'è qualcosa che non va; perciò hanno adottato la tecnica del dissanguamento nel lungo termine. E questa tecnica funzione, perché, ad oggi, sinceramente, non vedo nessuna forza di peso a mettere in discussione tale paradigma; e i più che si lamentano, magari anche i pensionati che si privano di soldi per aiutare i figli e i nipoti, lo fanno contro la CorruZZione oppure contro i figli bamboccioni che non vogliono lavorare.

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    3. Citando altri dati:
      "Un’indagine della società di consulenza Willis Towers Watson ha analizzato la media della retribuzione annuale lorda delle prime 20 economie europee e ha messo l’Italia in fondo alla classifica (14° posto). E il risultato è ancora peggiore (17°) se si considera il potere di acquisto: l’alto livello di tassazione in Italia e l’alto costo della vita fanno sì che il potere d’acquisto di uno stipendio italiano sia notevolmente inferiore a quello della maggior parte dei Paesi europei compresi Paesi Bassi, Irlanda, Francia, Austria, e tutti i paesi scandinavi. Ma già l’Eurostat, a fine anno, aveva evidenziato che la paga media oraria del Belpaese si ferma a 12,5 euro (sotto la media europea di 13,2) con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro. Peggio dell’Italia solo Spagna (9,8) e Portogallo (5,1) che però si possono consolare con un potere d’acquisto superiore.."
      http://www.leggo.it/news/economia/stipendi_tasse_italiani_piu_poveri_d_europa_gentiloni_manovra_di_crescita_un_miliardo_terremoto-2347256.html

      Quindi, anche se, in teoria, noi abbiamo ancora gli stipendi più alti della Spagna (che magra consolazione), in realtà il nostro potere di acquisto è inferiore, per cui questo divario che vedono certi "ricercatori" è molto più basso. Naturalmente, la via non è quella di aumentare la concorrenza per diminuire i costi delle merci e aumentare il potere d'acquisto, come vorrebbero i liberisti, ma il dato rimane.
      A conti fatti, pur essendo (stati) un grande paese adesso ci ritroviamo con gli stipendi tra più bassi dell'Europa (escludendo quella orientale), con le aziende made in italy oramai quasi del tutto in mano estera, con privatizzazioni e riforme del lavoro che da 20 anni, a partire dalla legge Treu, stanno schiacciando i lavoratori, ecc.; tutto a piccoli passi; naturalmente non sono un profeta del tanto-ormaismo, ma, per ricostruire l'Italia, ci sarà un lungo lavoro da fare.

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    4. Ma anche se in teoria lo si volesse fare, questo lungo lavoro (sulle cui linee rinvio ai post di tre anni fa, sul "ci facciamo buttare fuori" nonché alle soluzioni indicate da Chang nel post precedente), ora siamo alla fase in cui ci è vietato farlo da trattati immodificabili: e dunque siamo nella fase in cui s'è scelta la morte lenta, salvo possibili imminenti accelerazioni, senza se e senza ma.

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    5. "Magari mi sbaglio, ma sembra che costui abbia proprio preso di mira l'Italia."

      No, non ti sbagli, e non solo De Grauwe.
      E come a scuola, il bullo sceglie sempre il più debole come target.
      E il più debole (politicamente)nel nel Euro-Zona è chiaramente l'Italia.

      Nel 2011 il sistema bancario italiano era probabilmente più sano di quello di tanti paesi cosidetti virtuosi. Le banche italiane avevano irreliventi esposizioni nei Subprime US ed anche un esposizione minima, praticamente nulla nei PIGS (Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo). Ecco questa era la situazione di partenza. Poi tutto d'un tratto, praticamente dal nulla partì la speculazione sui BTP italiani, queste speculazioni furono lanciate da un Fake news di FT (Financial Time)se mi ricordo bene, dove si sostenne che l'Italia era in default, le Fake news furono ripetute continuamente per 2-3 settimane, contemporaneamente iniziò un Selling Climax sui BTP italiani. Questo fù l'inizio della crisi italiana.
      Berlusconi, allora presidente del consiglio si arrese subito senza nemmeno provare a difendersi, praticamente una resa incondizionata. Se non mi sbaglio furono attaccati anche gli asset di Berlusconi, questo accellerò ancora di più la sua resa. Sarebbe stato il dovere di Berlusconi di calmare le acque con ogni mezzo possibile, poi Berlusconi come minimo avrebbe dovuto attivare la banca d'Italia per neutralizzare le vendite dei BTP, aquistando BTP. Berlusconi non fece assolutamente nulla, forse scioccato dalla perdita di valore dei suoi Asset. Boh. I suoi Asset comunque dopo la prima tempesta si sarebbero rivalutati.

      Poi con l'ascesa di Monti a Montecitorio l'Italia fù praticamente commissariata dal UE, fino ad oggi. L'Italia viene governata da buratini del UE che non rispondono alla reppubblica italiana.
      Situazione tragicomica e pericolosa che secondo mè persisterà finchè il popolo italiano non si muoverà. Ma attenzione anche il malumore e lo stress dentro i CC sta salendo esponenzialmente. Per un CC deve essere altamente frustrante giurare di servire la reppubblica italiana ed avere im capo (ministro degli interni) che non risponde più alla reppubblica italiana. I CC praticamente proteggono l'intero personale del governo italiano, un governo che non risponde più agli interessi del Italia sulla quale i CC hanno giurato di servire.

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    6. DE GRAUVE FORSE PENSAVA AI CALZOLAI CON 5 CASE,SI RIFERIVA AI MIEI CORREGIONALI ,DELLA ZONA SUD DELLE MARCHE ,CHE AI TEMPI DELLA LIRA ERANO DIVENTATI DEGLI INDUSTRIALI CHE ESPORTAVANO IN TUTTO IL MONDO.gRAZIE AL CAMBIO FISSO TUTTO QUESTO NON C'E' PIU'

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    7. Ma De Grauwe queste cose, volendo, le sa benissimo (meglio di noi)...
      Ma, se vedi la sua biografia, è stato, inevitabilmente, un sessantottino...https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_De_Grauwe
      che, QUINDI, lavorava alla CEE già da studente (e poi subito dopo il Ph.D, al FMI e alla BCE...) :-)
      https://en.wikipedia.org/wiki/Paul_De_Grauwe

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  2. Sulla presunta ricchezza dei pensionati proprietari di casa che ricevono ancora una pensione "decente" e per questo fatti "odiare" attraverso la propaganda TV che li dipinge TUTTI come dei ricchi multiproprietari pluri-investitori che vivono sulle spalle delle nuove generazioni (le famose vacche grasse) ci sarebbe da fare anche questa considerazione: gran parte della loro presunta ricchezza è molto speso investita nell'aiuto economico di figli e nipoti, rimasti disoccupati, sottoccupati o sotto stipendiati, e quindi ancora dipendenti da papà e mamma e nonno anche all'età di 50 anni; già loro, padri e nonni, prima ancora che il GOVERNO glielo imponga, si privano dei loro averi, che avrebbero tutto il diritto di spendersi in piaceri e consumi loro, e li donano alle nuove generazioni, in gran parte per amore familiare, come retaggio anche BIOLOGICO della difesa della prole, quella cosa che ESSI vogliono distruggere al fine di creare una società futura composta di atomi allo stato gassoso; quindi, al netto di tutto, siamo veramente in grado di affermare che le vecchie generazioni veramente se la spassino bene adesso la loro vecchiaia? Anche quando si sono sostituite in tutto e per tutto al welfare nel cercare di dare una mano a figli e nipoti? Non parliamo poi delle loro preoccupazioni per il futuro della loro prole. Mi sembra che qui in Italia, come ho già detto, non siamo di fronte ad una volontà di spennare, siamo di fronte ad una volontà di sterminare.

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    1. Il modello da imitare per i nostri governanti in questo caso è quello americano.
      Dove non di rado ti capita di vedere alle stazioni di servizio cassieri 80enni o 75enni fare le pulizie dei cessi in fabbrica.
      Si può ben capire come, avendo questo metro di paragone, i pensionati italiani siano intollerabilmente ricchi tuttoggi.
      Andrà bene quando, senza Niente di proprietà se non due vestiti e un auto semi distrutta...dovranno lavorarw fino al giorno della propria morte per pagarsi cibo e affitto in case non ristrutturate da 50anni.
      Ovviamente il reddito residuo non dovrà permettere una qualunque cura ospedaliera. Solo antidolorifici in pillole.
      Se non hai scalato la scala sociale, che è inscalabile per definizione dal 99% della popolazione, quella è la vecchiaia che ci meritiamo secondo chi ci comanda.
      Non si fermeranno prima. Forse neanche allora.

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  3. "Una terapia d’urto paragonabile a quella richiesta dalla permanenza dell’euro nella storia nazionale l’abbiamo già avuta, all’epoca della quota 90."

    La 'terapia d'urto' e la difesa di quota 90 provocarono anche il quasi fallimento del sistema bancario ed industriale nazionale (a cui il regime pose rimedio in extremis con la creazione dell'IRI nel 1933).

    L'IRI fu la soluzione politica (decisa da Mussolini stesso su consiglio di Beneduce) ad un problema sociale ed economico (apparentemente irrisolvibile) che poteva rivelarsi letale per il regime.

    Per ironia della storia la Costituzione Repubblicana resta oggi l'ultimo baluardo (perche' rifiuto l'idea stessa di uomo solo al comando) per un eventuale governo di salvezza nazionale che volesse cercare di ripercorrere, "mutatis mutandis", la stessa via (oggi ancora piu' obbligata) percorsa dal regime nel 1933 e salvare il residuo tessuto produttivo.

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    1. Vero: "oggi ancora piu' obbligata",
      Ma, come abbiamo visto nel post precedente, difficilmente un corpo varia il suo moto rettilineo uniforme o uniformemente accelerato (a condizioni invariate di forze applicate).

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    2. Ho iniziato a studiare nel dettaglio la teoria della relativita' una decina di anni fa.
      Oggi che sono sulla soglia dei 60, dopo un licenziamento economico che mi ha costretto a ritirarmi a vita privata, ho molto tempo libero per gli approfondimenti.
      Nello spazio-tempo 4-dimensionale velocita' ed accelerazione (che sono vettori a 4 dimensioni, 3 spaziali + 1 temporale) RISULTANO SEMPRE ORTOGONALI ed il modulo della 4-velocita' e' pari a c (velocita' della luce) anche per gli oggetti apparentemente fermi, perche' anche se non ci si muove nello spazio non ci si puo' fermare nel tempo.
      Anche la teoria della relativita' supporta quindi l'idea di resistere, fortissimamente resistere, perche' anche se le forze ordoliberiste ci vorrebbero costringere in una direzione parallela, nell'universo in cui viviamo l'accelerazione sara' invece ortogonale (e stando fermi aggrappati sul pezzo il tempo comunque passa, inesorabile, e vivendo abbastanza vedremo passare il cadavere ordoliberista sul fiume della storia.

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  4. Sul presunto "miracolo" irlandese, consiglio anche la lettura di questo articolo, di cui riporto le conclusioni: "This, then, is what the Right is not telling about the Irish miracle: almost nine years now have passed since the bust. In Ireland, wages fell, consumption is lower than in 2007, employment is lower than in 2007, multinationals pay no tax and never in the history of the state have so many been sleeping on the streets – and this is a direct consequence of the neoliberal policies. That is the nature of the great neoclassical recovery in Ireland, regardless of whether this year or the next GDP increases with another 26%.".

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  5. D'altronde uno cosa studia economia a fare se non si vende?

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  6. (Quello di Strong, dai, è un falso storico! È stato confezionato dalla longa manus dei Savi di Sion.
    Si sa, il fascismo è un prodotto dello Spirito della Storia per fini ontologicamente contrapposti a quelli del capitalismo.

    È tutta colpa dei comunisti!)

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    1. Basta andare alla Butler Library, presso la Columbia University, Archivio G. Harrison, cercare gli Strong Correspondence and memoirs 1927-28, Memorandum Italian Stabilization Negotiation, Washington D.C., 27 dicembre 1927, doverosamente citato in nota, e vedere un po' se è un falso oppure no. :-)

      Adesso invece va l’ideologia: Sternhell, Sternhell! E allora eccolo qui: “I sindacalisti soreliani, con Mussolini nell’agosto del 1914 divenuto il loro leader politico ufficiale, appoggiati dalla massa dei nazionalisti e dei futuristi che rifiutano sotto ogni aspetto il marxismo, non avevano soluzioni di ricambio al capitalismo e non ne volevano. […] Basta questo a spiegare perché Mussolini non è un discepolo di Lenin e, contrariamente a ciò che afferma Furet, perché rompe con il marxismo già nel 1912 e da quel momento si impegna a preparare gli animi e a forgiare le armi di una rivoluzione nazionale, culturale e morale ma non sociale.
      Non solo Mussolini non imita Lenin, ma la sua rivoluzione di vertice, che non mette in discussione né l’economia né le strutture sociali, è agli antipodi di quella dei bolscevichi, così come sono completamente diversi il processo attraverso il quale Mussolini giunge al potere con il sostegno di tutte le élite sociali, e quello dell’instaurazione progressiva e distribuita su più anni della dittatura, la funzione del Partito e la natura del regime italiano.
      ” (Z. Sternhell, Contro l’illuminismo, Baldini e Castoldi Dalai, Milano, 2007, pagg. 640-41).

      Insomma, mi pare possiamo dire che all’epoca il liberalismo era un’ideologia delle élite per le élites, senza capacità egemoniche di massa (i lavoratori, vivaddio, non leggevano certo gli editoriali di Einaudi sul Corsera, e in ogni caso non se ne sarebbero lasciati convincere); oggi son riusciti a farlo diventare senso comune: Mirowski e Wollin, fra gli altri, hanno scritto ottimi libri per spiegarci come, ma per fare sempre un esempio concreto (riportato da Piga, figuriamoci): “Ma che cosa si può fare? … Non è alla portata di un governo decidere di creare 3.300.000 posti di lavoro, neanche 300.000 posti di lavoro neanche 3000 posti di lavoro.”. Questo è Mentana in apertura del telegiornale.

      Per questo del fascismo non c’è alcun bisogno e, anzi, riuscirebbe ideologicamente dissonante rispetto alle idee oggi dominanti, come ci risulta il fascismo storico quando lo studiamo o quello attuale dei gruppetti di nostalgici (fra cui mi è capitato di trovare una visione del presente infinitamente più acuta e pertinente di quella di qualsiasi piddino).

      Non mi pare che ci voglia uno sforzo di contestualizzazione disumano per capire quanto sopra, eppure… ;-)

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    2. Il punto, credo, è che quando ti vomitano addosso disprezzo moralistico appellandoti "fascista e razzista" per decenni, e a farlo sono i veri nipotini delle camicie nere, ossia gli europiddini... bè... diventerei un po' ottuso anch'io.

      Tra socialisti di destra e fascisti di sinistra... comincio a capire la questione gender.

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    3. Vabbeh, allora senti questa: una volta mi è capitato di parlare con un nostalgico, accanito ammiratore di Mussolini e Grandi. Mi ha detto che votava Monti "perché i debiti vanno pagati". Gli ho voluto bene. :-)

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    4. Grazie Arturo.

      Le istituzioni forti erano richieste, guarda caso, anche dal regime in camicia nera: solidità istituzionale in favore del mercato. La volontà di liquidare i residui di democrazia hanno sempre come stella cometa quella della Commissione di Venezia. La tecnica, mediaticamente ben veicolata – dopo la prova generale del fallito referendum - è: forse l’€uro non è stato effettivamente un grande affare per il Paese; ma cosa vuoi farci? A questo punto, però, uscire dalla moneta unica sarebbe un disastro. Tanto vale, avendo fatto 30, fare 31 e consegnarci definitivamente alle oligarchie internazionali con la definitiva cessione di sovranità.

      Prima ancora di quota 90 (che inizia nel ’26) era stata posta in essere una serie di misure non indifferenti a favore della classe dominante, con il contributo determinante proprio di quelli che si facevano chiamare “sinistra” (un po' come le nostre tappe di avvicinamento all’€uro). Estintisi i sedicenti socialisti “massimalisti”, sono rimasti solo i “riformisti” (che siano dannati) i quali, a forza di chiedere riforme, ce le hanno fatte imporre:

      Terminata, agli inizi del 1919 la disciplina di guerra, l’inasprimento dei rapporti di classe portò a momenti di tensione estremamente acuta. Riusciva in quel periodo alle classi capitalistiche – industriali ed agrarie – di mantenere normali le loro rendite e i loro profitti di fronte alla organizzazione di classe che avanzava impetuosamente nelle masse lavoratrici. Era logico che la gran parte del padronato italiano…pensasse di stabilizzare le rendite e i profitti attraverso una costrizione materiale della spinta delle masse, l’austerità nella retribuzione dei redditi di lavoro, e quindi una politica proibitiva nei confronti degli strumenti di pressione delle masse lavoratrici, cioè dello sciopero e dell’organizzazione operaia. Contro questi tentativi di creare una austerità coatta e un blocco dei livelli retributivi, lo sciopero e l’organizzazione di classe crebbero impetuosamente…

      Sull’andamento dei salari nell’immediato dopoguerra e in relazione allo sviluppo delle lotte sindacali, parlano i dati dell’istituto Nazionale Infortuni sulle retribuzioni reali, espresse cioè in termini di potere d’acquisto della lira. Assumendo come base l’anno 1913, per ogni 100 lire di salario reale del 1913, nel 1918, cioè nell’ultimo anno di guerra, le retribuzioni erano scese a 64; l’anno successivo erano già salite al punto del 1913, erano a quota 99; nell’anno 1920 salirono a 114 e nel 1921 salirono a 127.

      Il 1921 fu l’anno della vittoria del fascismo nel paese prima ancora che nel governo; ora dalla fine del 1921 le retribuzioni tendono a diminuire, e per ritornare all’indice del 1921 pari a 127 sono dovuti passare ben 28 anni; l’indice è tornato al livello 127 soltanto nell’anno 1949. Il fatto mi sembra abbastanza indicativo della politica di compressione delle retribuzioni durante tutto il periodo del fascismo…La Confindustria, organo nazionale degli industriali, nasce nel marzo del 1920, e nell’agosto dello stesso anno nasce la Confagricoltura. La richiesta degli agrari nel 1921 sono molto chiare; si chiede uno Stato forte che riduca al silenzio gli operai, i braccianti, i mezadri; si chiede la riduzione e possibilmente la eliminazione dell’imponibile di mano d’opera, strumento essenziale per l’occupazione bracciantile e per una distribuzione giusta del lavoro... Nell’attesa, gli agrari non perdono tempo: i loro figli capeggiano le squadracce assassine nella Valle Padana e nella Puglia. Più signorili, gli industriali danno solo aiuti finanziari, e aspettano per indossare la camicia nera che il fascismo si sia identificato con lo Stato. “Noi industriali siamo ministeriali per definizione”, è una frase di GiovanniAgnelli
      . (segue)

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    5. In questa primissima fase il fascismo si presenta al popolo in una posizione barricadera, socialisteggiante, fortemente antispeculativa, utilizzando largamente tutti gli elementi che la demagogia spicciola poteva fornire. I fasci di combattimento nascono il 23 marzo 1919; nell’agosto dello stesso anno esce il loro primo programma: perequazione fiscale, fissazione del minimo di paga, forme di partecipazione operaia alla gestione delle aziende, primi accenni ad un confuso corporativismo.

      Nell’ottobre del 1919…il programma viene confermato; l’economista del regime è allora Massimo Rocca, uomo di provenienza anarchica… La svolta del fascismo si ha subito dopo la sconfitta elettorale dell’autunno del 1919…La svolta fascista in campo economico porta a posizioni violentemente antisocialiste e antipopolari

      …mi limito a citare il passo di uno scrittore non sospetto: si tratta del professor Felice Guarnieri, che fu per molti anni ministro nel governo Mussolini, e che nel 1921 era segretario generale della Confindustria. Nel suo libro intitolato Batteglie economiche il Guarnieri, riferendosi alla svolta del fascismo nell’autunno del 1919, scrive testualmente: “A determinare tale orientamento non erano estranee le suggestioni dell’ambiente industriale ed agrario lombardo, il quale tendeva in quel momento a liberarsi dalle strettoie della politica vincolistica lasciata in eredità dalla guerra”.

      Si inizia così la fase di un fascismo liberista che rimarrà in piedi fino alla caduta del ministro Alberto De Stefani nell’estate del 1925. La fase del fascismo liberista si può sintetizzare in una formula assai semplice: STATO FORTE [istituzioni politiche più forti, NdF], STATO NON ECONOMICO. Lo Stato forte sul piano politico rifiuta di porre ostacoli di carattere sociale allo sviluppo dell’attività economica privata delle imprese: questo fu il programma che Mussolini pronunciò alla Camera il 20 giugno del 1921. Alla vigilia della Marcia su Roma, in un discorso che durante i primi anni del regime fu molto celebrato, nel discorso di Udine del 20 settembre 1922, il fondatore del fascismo disse testualmente “NOI VOGLIAMO SPOGLIARE LO STATO DI TUTTI I SUOI ATTRIBUTI ECONOMICI! BASTA CON LO STATO FERROVIERE, CON LO STATO POSTINO, CON LO STATO ASSICURATORE! ”…

      Di fronte a questo fascismo che si presentava con una così accentuata impronta liberistica, per la liquidazione di tutte le bardature di guerra, della fiscalità più rigorosa, del vincolismo dei prezzi e degli affitti, contro questo fascismo che inneggiava allo Stato forte da un lato e alla libertà economica delle imprese dall’altro, sul piano della cultura economica non venica posta alcuna alternativa concreta. La tradizione culturale economica italiana…si era largamente ispirata al liberismo economico…Questo non è soltanto vero nel pensiero di Einaudi e di Giretti che tanta influenza hanno avuto nella vita culturale italiana. La concezione della concentrazione monopolistica come un elemento patologico, come una deviazione dell’ideale della concorrenza, ANZICHÉ NEL SUO RAPPORTO CON LO SVILUPPO DELLA SOCIETÀ E DELLE FORZE PRODUTTIVE, era purtroppo condivisa da gran parte del pensiero socialista fino alla prima guerra mondiale. In polemica con la collusione fra riformisti e industriali protezionisti si coltivò l’illusione di una industria leggera prevalentemente esportatrice
      . (segue)

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    6. Fin dai primi anni del secolo il pensiero socialista concorreva con il pensiero liberale e radicale nel denunciare il protezionismo e il processo di concentreazione monopolistica sotto un aspetto moralistico e distributivo…Anche dopo la guerra, IN UN CELEBRATO DISCORSO DI FILIPPO TURATI, TENUTO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI IL 22 LUGLIO DEL 1921, E INDICATIVO DEL PENSIERO MEDIO SOCIALISTA DI QUEL TEMPO, si prende posizione netta contro l’industia siderurgica, affermnando che in Italia si devono fabbricare temperini, lame da rasoio e altri simili prodotti dell’industria leggera. In queste condizioni del pensiero economico, la organizzazione della lotta sotto il peso della tradizione liberistica rimase disarmata culturalmente, incapace di porsi come antitesi alla esperienza fascista

      Il grande padronato industriale in quel periodo era spinto al liberismo dalla fine della crisi economica post-bellica: esso voleva veramente provare le sue forze senza i vincoli che la legislazione di guerra e del dopoguerra frapponeva allo sviluppo della libera iniziativa. Però quegli stessi che predicavano la libertà economica assoluta …erano allo stesso tempo molto inclini a chiedere il denaro dello Stato, quando venivano a trovarsi in qualche difficoltà. La tradizionale politica dei salvataggi è continuata ininterrottamente: dalla crisi dell’industria, dalla conversione della industria siderurgica dell’ILVA e dell’Ansaldo, dal fallimento della Banca Italiana di Sconto fino alla crisi del Banco di Roma del 1923…nonostante i dichiarati propositi del fascismo, l’intransigenza liberista del padronato italiano non rifiutava il compromesso quando si trattava di pompare i denari dei contribuenti per sanare il deficit della sua insipienza e della logica del profitto.

      Nell’ottobre del 1922 Mussolini prese il governo e immediatamente, da vero galantuomo, mantenne gli impegni che aveva preso con i capitalisti. Furono riprivatizzati i telefoni che erano dello Stato, i fiammiferi che erano dello Stato; le assicurazioni sulla vita, importante settore di raccolta dei risparmi e influente centro di orientamento di investimenti che erano monopolio dello Stato…; anche le aziende municipalizzate furono restituite ai privati. Nelle date vi è una evidenza simbolica della solvibilità fascista verso i capitalisti:
      28 ottobre 1922: costituzione del governo Mussolini:
      10 novembre 1922: il governo liquida definitivamente tutti gli impegni presi precedentemente per la nominatività dei titoli azionari, cioè per uno strumento fondamentale per l’accertamento fiscale…
      19 novembre 1922: la Commissione di guerra sui profitti di guerra, spina negli occhi degli speculatori, è soppressa;
      11 gennaio 1923: è abolito il decreto Visocchi che regolava l’occupazione delle terre incolte da parte dei contadini poveri senza terra;
      20 agosto 1923: è abolita l’imposta di successione nell’ambito familiare, sono ridotte le imposte di successione al di fuori dell’ambito familiare.

      I provvedimenti di liberalizzazione avvengono tutti negli anni della gestione di Alberto De Stefani: liquidazione…della imposta straordinaria sul patrimonio e dell’imposta sui sopraprofitti; abolizione di altre numerose imposte, come la complementare sui valori immobiliari, il contributo straordinario di guerra; sgravi fiscali per la fusione delle società anonime, abolizione dell’imposta sui capitali delle banche e delle imndustrie, abolizione di numerose imposizioni sui consumi di lusso…IL LIBERISMO SIGNIFICAVA UNA IMMEDIATA MASSA DI FAVORI E UN ENORME TRASFERIMENTO DI REDDITO DA UNA CLASSE ALL’ALTRA
      . (segue)

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    7. Finita la crisi del 1920-21, si vuole avere mano libera, PERÒ CON LO STATO A PORTATA DI MANO COME GARANZIA PER LE PERDITE EVENTUALI…Intanto si sviluppano fattori politici di notevole rielievo anche sul piano economico. Il fascismo si identifica con lo Stato, gli squadristi sono mandati a casa, sono incomodi, sono maleducati. Il fascismo diventa rispettabile; si ripristina il vecchio personale statale che veste la camicia nera e con la sua vecchia esperienza assicura una certa continuità formale. Quella che era l’agitazione violenta, diventa organica dittatura poliziesca….

      E’ nel 1926 che il fascismo cambia di nuovo veste: da organizzazione statale liberista diventa sempre più esplicitamente intervenzionistica; quella che era la pratica dei salvataggi, dei rapporti tra Stato, banche e industria, diventa ora una teoria, in nome del supremo interesse nazionale. Il capitalismo, che tradizionalmente esprimeva come hobby il suo sospetto per lo Stato, perde questa sua fobia. In questo periodo i rapporti si rendono più organici; è la fase delle sistemazioni settoriali, delle grandi sistemazioni aziendali; si risanano imprese di navigazione, si sistemano cantieri, si risanano i telefoni, si sistemano le aziende elettriche in crisi…

      Il processo analizzato da vicino è molto interessante. Se si leggono le relazioni dei Consigli di amministrazionie nelle fasi di espansione si vede che gli amministratori comunicano con agli azionisti che l’azienda ha preso molte iniziative, che si è collegata con questa società, ha assorbito le azioni di quell’altra società, che ha ottenuto un importante contratto, sempre mercè sua Eccellenza il Ministro tale, o sotto gli auspici fausti di dua eccellenza il ministro talaltro. Il rapporto tra il grande gerarca e l’azienda industriale è di feudo personale, sempre naturalmente nelle fasi di sviluppo. Quando poi l’impresa va male, il gerarca scompare e sorgono conflitti di interesse; gli azionisti dovrebbero perdere il valore dei capitali sottoscritti, i creditori dovrebbero perdere i loro crediti; ma questo non va bene. Per i creditori bisogna distinguere! Se sono grossi si compensano in qualche modo, se sono piccoli si lasciano cadere. Gli azionisti si salvano. Chi paga è il contribuente. La formula di quel tempo (e anche del nostro) è questa: PRIVATIZZAZIONE DEI PROFITTI, SOCIALIZZAZIONE O NAZIONALIZZAZIONE DELLE PERDITE
      ” [V. FOA, Le strutture economiche e la politica economica del regime fascista, in Fascismo e antifascismo (1918-1936), Lezioni e testimonianze, (lezione tenuta il 20 marzo 1961), Feltrinelli, 1962, 266-277] (segue)

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    8. Oggi la concentrazione (l'ital-tacchino spennato), realizzata tramite deflazione, avviene a favore delle oligarchie transnazionali che rappresentano il nuovo sovrano. Anzi, si tratta di un “antisovrano”, come lo chiama M. Luciani:

      … Crisi della costituzione non è però crisi della politica, non significa assorbimento indistinto del politico nell’economico…questi ultimi venticinque anni esibiscono un tratto politico fortissimo, connesso al manifestarsi di precise e consapevoli volontà di trasformazione sociale. Il processo che si è aperto non vede protagoniste istenza decisionali od organizzazioni che funzionino con logica essenzialmente democratica. La vicenda, infatti, non riguarda la larga maggiornaza degli stati, e le stesse Nazioni Unite ne sono escluse…Più che di una crisi della politica in sé si dovrebbe dunque parlare di una crisi democratica dal basso. Funziona invece una politica nuova, ma certo ben poco soddisfacente in termini di rendimento democratico; una politica che ha allo stesso tempo un volto pubblico e privato e nella quale si intrecciano la volontà degli esecutivi degli stati, di potenti tecnocrazie internazionali, di imprese transnazionali dominatrici di settori strategici. E’ concettualmente arduo, però, vedere in questi poteri, anzi in quest’intreccio e in questa competizione di poteri un nuovo sovrano.

      L’idea moderna di sovranità è infatti intimamente legata…a due precondizioni – la concezione ascendente del potere e l’idea di nazione – che sono entrambi assenti nella nuova politica. Per sussumere in una sola etichetta i nuovi fenomeni potremmo invece parlare del tentativo di creazione di un antisovrano, e cioè un quid che in tutto e per tutto si contrappone al sovrano da noi conosciuto: non è un soggetto (ma semmai una pluralità di soggetti, oltretutto dallo statuto sociale altamente differenziato, che ben difficilmente potrebbero candidarsi a detenere il monopolio del potere sovrano); non dichiara la propria aspirazione all’assoluta discrezionalità nell’esercizio del proprio potere (cerca anzi di presentare le proprie decisioni come logiche deduzioni da leggi generali oggettive quali pretendono di essere quelle dell’economia e dello sviluppo); non reclama una legittimazione trascendente (che sia la volontà di Dio oppure l’idea dell’uguaglianza degli uomini), ma immanente (l’interesse dell’economia e dello sviluppo, appunto); non pretende di ordinare un gruppo sociale dotato almeno di un minimum di omogeneità (il popolo di una nazione), ma una pluralità indistinta, anzi la totalità dei gruppi sociali (tutti i popoli del mondo, o almeno tutti i popoli della parte di mondo che ritiene meritevole di interesse); non vuole essere l’espressione di una volontà di eguali formata dal basso (si tratta infatti di un insieme di strutture sostanzialmente e talora formalmente organizzate su base timocratica).

      L’opposizione è dunque polare, tanto che potrebbe ricordare …quelle evocate dalle figure dell’antipapa e più ancora dell’anticristo. Come l’antipapa, per il codice di diritto canonico del 1917, rientra fra i soggetti che si oppongono all’autorità del pontefice legittimamente eletto, così l’antisovrano si arroga un potere senza averne legittimo titolo (senza investitura democratica). E come l’anticristo, è detentore di un potere che (aspira ad essere) universale, ed è l’agente che determina la crisi del mondo (del mondo democratico) …Un antisovrano, dunque, dal punto di vista concettuale, ma inevitabilmente un antisovrano anche dal punto di vista pratico, perché l’affermazione del suo potere presuppone proprio che l’antico sovrano sia annichilito
      ” [M. LUCIANI, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in rivista di diritto costituzionale, Torino, 1/1996, 164-166].

      Le prossime elezioni porteranno alla scelta dell’ultimo Caronte

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    9. E Luciani ha così fatto la descrizione dell'ideologia hayekiana (e della ramificata MPS in genere) nonché la scomposizione degli elementi istituzionali dell'ordine sovranazionale del mercato.

      Peccato che manchi (almeno in questo "estratto") la diretta individuazione degli elementi dell'ordine internazionale stesso:

      a) gold standard (inteso come sistema di privilegio assoluto della stabilità monetaria sì da legittimare lo svincolo, cioè l'INDIPENDENZA, delle relative politiche da ogni altro interesse generale insito nella politica economica e fiscale, che ne viene azzerata);

      b) free-trade, i cui effetti di specializzazione da "vantaggi comparati" risultano accelerati dalla moneta-valore "stabile" (le obbligate politiche deflattive per via fiscale conducono immancabilmente a deindustrializzazione e compressione irreversibile della capacità produttiva...competitiva);

      c) mercato del lavoro perfettamente flessibile, realizzandosi la mitologica legge della domanda e dell'offerta, al suo stato puro, solo nel mercato del lavoro, mentre, in nome del mercato internazionalistico, gli oligopoli vanno apprezzati in termini evolutivi di allargamento continuo dei confini (con la giustificazione dell'evoluzione tecnologica e della workable competition, in attesa dei risultati della ricerca privata-senza-Stato che stiamo ancora aspettando)...

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    10. Lei ha perfettamente ragione. Non sono affrontati nel dettaglio i punti da Lei richiamati, come si nota da quanto riporto di seguito. Per essere uno scritto del 1996, però, Luciani dice cose significative, soprattutto se messe in continuità con gli ulteriori scritti citati nel blog. Segno che aveva capito l’aria che tirava, e le stoccate ad Amato e Bognetti lo dimostrano. Essendo un grande studioso, infatti, dal punto di vista giuridico i conti non gli potevano tornare. Purtroppo manca l'approfondita disamina dei punti ai quali Lei accennava. Luciani è stato però l’unico degli esperti sentiti in Parlamento ad aver in maniera convinta espresso parere negativo sul pareggio di bilancio in Costituzione; si tratta solo di unire i puntini:

      … Il processo di erosione della sovranità ha indubbiamente radici lontane. Il potere di «alzare o abbassare il titolo, valore e piede delle monete», prerogativa essenziale della sovranità sin dal tempo di Bodin, è ormai da tempo sfuggito dalle mani degli stati. E perdita di sovranità sulla moneta significa perdita di controllo sui tassi di cambio e sui tassi d'interesse, che costituiscono una variabile essenziale nel governo del ciclo economico. Le interconnessioni fra le economie nazionali, poi, sono sempre esistite, non foss'altro perché lo richiedevano la logica oggettivamente «internazionalistica del modo di produzione capitalistico e la sua stessa origine tendenzialmente mercantile. Infine, non sono mai mancati condizionamenti sulle scelte politiche dei singoli stati da parte di stati economicamente o militarmente più forti.

      Nondimeno, i fenomeni attuali esibiscono un'evidente diversità qualitativa rispetto al passato. Come è stato esattamente rilevato, una cosa sono gli effetti che su singole economie nazionali possono essere determinati da operazioni commerciali o militari decise fuori dei confini nazionali (e questo è il modello tradizionale), altra «l'emergere di un sistema economico globale che sfugga al controllo di qualunque singolo stato» o «l'enorme crescita del numero di organizzazioni internazionali che possono limitare il raggio di azione degli stati più potenti».

      Parimenti, la sottrazione agli stati del governo della moneta acquista una dimensione diversa quando si è compiuta un'integrazione monetaria sovranazionale: in questo caso i paesi partecipanti all'integrazione rispondono agli shocks sulla domanda o sull'offerta con scelte di politica economica sempre meno autonome e sempre più coordinate… L’interconnessione sempre più stretta fra le economie, ancora, sollecita un'ingerenza negli affari interni dei singoli stati (in particolare dei più deboli) che non è più motivata - come in passato - solo da considerazioni strategico-militari, e che si realizza attraverso strumenti di pressione economico-finanziaria.

      E’ un fenomeno inedito, poi, che le vicende del diritto internazionale influiscano anche sul modo in cui gli interpreti leggono le costituzioni dei singoli stati. Proprio l'esperienza italiana, da questo punto di vista, è significativa: è attraverso i trattati istitutivi delle Comunità europee e (soprattutto) le loro successive modificazioni che - si dice - è «entrata in Italia la cultura del mercato» [in nota G. Amato, Il mercato nella Costituzione, NdF], ed è tra l'«ordinamento nazionale» e l'«ordinamento comunitario» che la cosiddetta «costituzione economica» italiana viene vista oscillare [In nota G. Bognetti, La costituzione economica italiana, NdF]
      . (Segue)

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    11. Infine, il tratto nuovo che forse maggiormente colpisce il giurista è la rottura di quel legame fra la libertà e il suo limite che ha attraversato l'intera storia del costituzionalismo moderno. Il limite, a ben vedere, è sempre stato inteso, addirittura, come costitutivo dei diritti di libertà in quanto diritti. Questo è evidente per la giuspubblicistica continentale del diciannovesimo secolo, tanto nel caso della teoria dei diritti riflessi che in quella dell'autolimitazione dello stato. Ma lo stesso presupposto è incorporato nelle concezioni più coerentemente liberali, da quelle di ascendenza scopertamente kantiana nelle quali si afferma che «ogni diritto nasce limitato» in funzione del rispetto reciproco delle sfere giuridiche individuali, a quelle che ricostruiscono i diritti (fondamentali) di libertà come costellazioni di valore, nelle quali la misura del diritto non è data solo dal suo aspetto individuale, ma anche dal valore collettivo che ne delimita, nei singoli campi di attività, il raggio.

      La libertà di investimento del capitale è invece, nella società globalizzata, una libertà (l'unica) nella quale è percepibile solo il suo versante individuale: nessun valore collettivo le si contrappone, perché non esiste nessuna collettività cui imputare quel valore, e comunque non esiste nessun potere sociale che possa imporre il suo rispetto. Per questo non possiamo neppure parlare di un vero e proprio diritto di libertà, in questo caso, quanto piuttosto di una semplice libertà di fatto, di una libertà che viene goduta e si autotutela fuori dello spazio coperto dal diritto. Anche se è auspicabile che il diritto non pretenda di estendersi a tutte le forme dell'agire umano, non è pensabile che sia coerente con l'idea stessa della giuridicità la sottrazione al diritto di atti e comportamenti di tale importanza.

      Fino ad ora, il diritto aveva risolto simili problemi facendo coincidere l'ambito dell'esercizio dei diritti di libertà con quello dell'effettività del potere che poteva enunciare e far rispettare i valori collettivi in essi incorporati. La corrispondenza fra ambito dei diritti di libertà e ambito della sovranità statale era servita proprio a questo scopo. La dissoluzione, per la libertà di investimento, dei limiti segnati dallo stato confinano ha sottratto al diritto (costituzionale) un oggetto essenziale del suo disporre e HA MESSO IN DISCUSSIONE L'IDEA ELEMENTARE CHE LA STESSA GIURIDICITÀ non é concepibile senza uno spazio nel quale abbia modo di dispiegarsi: «ogni diritto vale come tale solo nel giusto luogo», scriveva, riprendendo un detto comune e giuocando sul doppio senso di Recht e recht, Carl Schmitt.
      (segue)

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    12. E’ su questa realtà, dunque, che si innesta oggi l'emersione del nuovo assetto di poteri, che si candida a sostituire l'antico sovrano nazionale contestandone ragioni d'esistenza e basi di legittimazione. E rispetto al passato la grande novità è la manifestazione di, pur articolate, volontà di governo e di orientamento dei processi economici internazionali, con l'obiettivo consapevole di modificare modelli di sviluppo, stili di vita, funzione e posizione sociale del lavoro.

      In questo scenario non tutti gli stati, certo, si trovano nelle stesse condizioni: è evidente che l'erosione del potere di controllo della moneta e dei tassi colpisce la Germania o gli Stati Uniti assai meno di quanto non faccia con l'Italia o con la Spagna. Per questo, si potrebbe esser tentati di pensare che una soluzione del problema della crisi della statualità nei paesi più deboli stia nel risanamento delle loro economie e nell'ingresso nel club dei paesi più forti. A questa prospettiva si può tuttavia obiettare che: a) non é pensabile che tutti i paesi del mondo si omologhino ai più forti. Per tutti coloro che non faranno parte del club, dunque, si porrà comunque il problema della loro sovranità e della democraticità dei processi decisionali internazionali.

      E questo problema non può essere eluso dalla teoria del costituzionalismo democratico (quale che sia la nazionalità di chi l'elabora), che per definizione si interessa dei principi a prescindere dal loro successo per pochi privilegiati; b) anche i paesi più forti non sono immuni dai condizionamenti che vengono imposti dalla necessità di un raccordo con quelli (industrializzati) meno forti, dall'immenso potere della finanza internazionale e dalle esigenze della competitività globale, sicché - anche se qualcuno è molto più «policy maker» di quanto non sia «policy taker» - tutti i paesi seguono «strategie composte di differenti combinazioni di "policy making" e di "policy taking"». Soprattutto in prospettiva, la questione riguarda la forma-stato nel suo complesso, non singole, determinate, realtà nazionali…
      ” [M. LUCIANI, cit., 166-169].

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  7. ...il responsabile del Ministero delle Finanze francese [Postel-Vinay], che fra l’altro appartiene all’ordine dei benedettini ed è il capo dell’Opus Dei francese: e la Commissione Europea è ampiamente controllata, come anche il governo francese, dall’Opus Dei. Ho parlato con lui di questa crisi, e mi ha detto: “Sì, l’economia francese è morta, ma non lo è abbastanza”. E ha aggiunto: “Professore, lei deve capire perché esiste il sistema europeo: che cosa vogliamo? Vogliamo distruggere per sempre la gente; vogliamo creare una nuova tipologia di europeo, una nuova popolazione europea disponibile ad accettare la sofferenza, la povertà; una popolazione disposta ad accettare salari inferiori a quelli cinesi”.
    Parte della Trascrizione della prima parte dell'intervento tenuto da Alain Parguez al seminario MMT di Rimini il 24-26 febbraio 2012

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    1. "vogliamo creare una nuova tipologia di europeo"

      L'ultimo esperimento sociale di creazione di un "uomo nuovo" e' stato quello di Pol Pot.

      https://it.wikipedia.org/wiki/Pol_Pot

      Quando prese il potere i soldati-bambini del suo esercito erano stati istruiti affinche' uccidessero sul posto chiunque portasse gli occhiali (perche' chi porta gli occhiali legge i libri e non puo' essere rieducato).

      Tutti gli abitanti delle citta' (quelli inizialmente sopravvissuti perche' senza occhiali) impararono in primis ad aver paura dei bambini (perche' addestrati a spiare all'interno delle famiglie per conto del partito e perche' denunciavano senza pieta' anche i genitori ed i fratelli) e furono deportati in massa per essere 'rieducati'.
      Circa un abitante su quattro della Cambogia fini' quindi ucciso dagli stenti e/o dalle ricorrenti esecuzioni di massa (le stime dei morti variano tra 1 e 3 milioni).

      Che l'Opus Dei sia una setta inutile (e quindi pericolosa) lo sospettavo da tempo (il loro credo e' "santifica il lavoro", e da quello che si sa, si intende QUALUNQUE LAVORO, anche da schiavi aggiungo io, purche' sia legale): pero' questa della creazione di un nuovo tipo di europeo devo ammettere che mi mancava (anche se non mi meraviglia piu' di tanto).

      Perche' infatti creare una organizzazione confessionale segreta di tipo super-gesuitico (ove vige la cieca obbedienza al superiore diretto, che esercita una supervisione totale della vita spirituale e sociale dell'affiliato) quando il "chi non vuole lavorare neppure mangi" della lettera di San Paolo dovrebbe essere piu' che sufficiente per un cattolico?

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