mercoledì 30 marzo 2016

IMMIGRAZIONE IN EUROPA E "€UROPEAN-WAY": LE PREVISIONI "DIMENTICATE" DEI TRATTATI

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1. La confusione mentale regna sovrana nelle dichiarazioni degli €uropeisti, istituzionali e "culturalizzati", ovverosia, ideologizzati a quella forma di mondialismo, sedicente progressista (ma che ha in sommo odio le Costituzioni democratiche dei diritti del lavoro), che finisce invariabilmente per predicare la...carità del gold standard mondializzato, come forma di promozione, addirittura, dell'etica cristiana.
Perchè di questo si tratta quando si teorizza l'assoluta priorità del mantenimento dell'euro in quanto tappa fondamentale di un percorso verso una moneta unica mondiale, indubbiamente sottratta alla sovranità dei singoli Stati (democratici e regolati da Costituzioni) e, di conseguenza, necessariamente affidata al sistema bancario liberalizzato e altrettanto mondializzato: questo assume così la forma di una governance "de facto", ma guardandosi bene dal chiarirlo ai cittadini che, a un certo punto, si trovano esposti al bail-in. 

Ed infatti, allorchè un trattato istituzionalizza tale assetto monetario (dove l'erogazione del credito diviene l'unica forma di emissione della moneta lecitamente praticabile), questo risulta l'effetto per il benessere e la democrazia dei cittadini degli Stati assoggettati al trattato stesso. Cioè un assetto che sottomette ogni tipo di istituzione "pubblica", sia statale, in via di "liquidazione" (perché obsoleta), che pseudo-internazionale; dunque governance  rispondente a interessi economico-finanziari "privatizzati" e resi "sovrani" da trattati che si intendono superiori alle Costituzioni.
In versione cristiana, ecco la non nascosta teorizzazione che ne fece Beniamino Andreatta tra un "inevitabile" "movimento per l'unificazione monetaria" mondiale, essendo la moneta nazionale "uno strumento sempre più obsoleto", e lo sviluppo, non a caso anticipatorio di Padoa-Schioppa, "in modo duro austero e forte" del "senso della cittadinanza universale": 


2. Presupposto, come direttiva principale, questo scenario, - che non bisogna mai dimenticare, dato che non è nè lo stato di eccezione derivante dall'immigrazione nè quello, ancor più "eccettuante", creato dal terrorismo, che lo pongono in discussione (anzi, lo rafforzano e ad esso occorre tendere con ogni mezzo: propagandistico, mediatico, accademico, e anche militare, ormai)-, dicevamo della confusione che regna sovrana negli enunciati e nelle decisioni preannunciate (come TINA) dall'€uropeismo in crisi (wanna be) di espansione.

Infatti, da un lato, dichiarano che il problema dell'immigrazione di massa nel territorio dell'Unione è qualcosa con cui dovremmo convivere a lungo, perché, a dire dell'UE e di tutte le organizzazioni mondialiste (in testa il Dipartimento di Affari Sociali ed Economici dell'ONU), esso è un fattore benefico di trasformazione e riequilibrio demografico, indispensabile per la sostenibilità sociale (certamente dello Stato minimo hayekian-mondialista).
Dall'altro lato, in varie versioni, che spesso si rincorrono e si contraddicono tra di loro, ci dicono che siamo in guerra con l'Islam, o coi terroristi antidemocratici: come se la democrazia fosse una preoccupazione dell'UE, che teorizza senza mezzi termini l'esautorazione dei parlamenti nazionali, e l'instaurazione di una governance tecnocratica modellata, secondo la versione esplicita della Venice Commission, su quella della World Bank

3. Insomma, sia come sia, saremmo in guerra e bisogna costituire un esercito europeo; naturalmente supportato da "riforme strutturali" che includono la riduzione del personale pubblico dipendente della difesa, l'operatività auspicata dei contingenti armati di contractors privati, la creazione di gruppi industriali privati, super-oligopolistici, accorpati a livello €uropeo (cioè l'acquisizione dell'industria della difesa dei paesi "debitori" da parte dell'industria privata dei paesi "forti"), e, però, investimenti in ricerca e sviluppo a carico dei bilanci degli Stati (senza tuttavia rinunciare al pareggio di bilancio, non sia mai!), perchè si sa, il "ritorno" di tali investimenti può essere gravemente incerto e non possono i privati perdere tempo visto che sono così cristiani e caritetevoli da fare gli interessi della "difesa comune".

In questa evidente contraddittorietà non c'è spazio per alcun ragionamento razionale, essendo l'emotività su cui si basa il controllo totalitario neo-ordo-liberista (anche Sapelli ce lo conferma), completamente intollerante verso qualsiasi ragione che la contraddica.

4. Ma val bene la pena di rammentare qualche precedente storico: movimenti migratori interni all'Europa ci sono stati in passato e, con tutta evidenza, non furono regolati nel modo in cui si vorrebbe attualmente imporre il flusso di coloro che "fuggono dalla guerra, dalla miseria e dalla fame".
Certamente, il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, determinò in Europa problemi anche più gravi di quelli causati dalle crisi mediorientali e africane attuali. Negli anni e, anzi, nei decenni immediatamente successivi, infatti, in attesa degli effetti sociali ed occupazionali delle varie "ricostruzioni" (industriali e degli Stati di diritto) di un continente devastato, i flussi migratori tra Stati europei furono certamente imponenti. E gli italiani ne furono, purtroppo, protagonisti.
Come furono affrontati?

5. Seguendo un modello di risoluzione che oggi si è stranamente dimenticato: 
a) naturali carenze di manodopera e di base demografica erano certamente presenti (i morti, i disabili al lavoro e i deportati erano decine di milioni) e costituivano un problema per la ripartenza industriale, specie in attesa di poter ricostituire, con adeguati investimenti, gli impianti distrutti o, comunque, resi obsoleti dall'arresto delle attività economiche non strumentali all'apparato bellico. (Dapprima, va detto, furono utilizzati come lavoratori in stato di semi-schiavitù, i prigionieri tedeschi, ma questa fase, procedendo l'applicazione dei vari trattati di pace, finì entro il 1947-46);
b) Stati come il Belgio e la Germania (ma anche la stessa Francia), risolsero il problema stipulando trattati bilaterali con gli Stati che, come l'Italia, avevano un'incompiuta (quanto ad efficienza) base agricola e un'insufficiente base industriale, financo da ricostituire, per poter assorbire l'eccesso di manodopera determinato dal simultaneo ritorno dei vari combattenti e dalla carenza di investimenti praticabili (in attesa della riforma agraria - che, comunque, a dire di Caffè, rimase incompiuta nella sua dimensione programmatica "a tappe" che, pure, era stata elaborata dalla Commissione economica per la Costituzione-, e della ripresa industriale);
c) questi trattati bilaterali prevedevano una selezione della manodopera potenzialmente ammissibile alla emigrazione operata, sulla base di procedure di richiesta dello Stato "ricevente", dagli stessi uffici competenti dello Stato di origine. Questo modulo fu poi piegato alle esigenze della parte economicamente più forte, in quanto dapprima si volevano essenzialmente lavoratori italiani provenienti dalle aree già industrializzate e che non fossero comunque stati coinvolti in rivolte contadine e "occupazioni" delle terre: insomma, nei centri di raccolta (sotterranei della stazione di Milano o di Verona, non molto dissimili da lager) in territorio italiano, i funzionari belgi e tedeschi riselezionavano i cittadini italiani considerati più adatti e meno politicamente compromessi col "comunismo";
d) nel paese di destinazione, i lavoratori italiani venivano trasportati, dai treni-merce su cui avevano viaggiato, in appositi carri-bestiame, a della baraccopoli per essere allogiati. Generalmente si trattava degli stessi campi di prigionia usati dai tedeschi o dagli alleati durante il conflitto. Qui avveniva un'ulteriore selezione, dove i politicamente sgraditi e quelli fisicamente e psicologicamente inadatti al lavoro, in miniera, o nel facchinaggio più pesante, erano individuati sbrigativamente e rimpatriati;
e) dopo alcuni anni di applicazione di questi trattati, l'indirizzo di selezione mutò, perché ci si accorse che i meridionali italiani, essendo più privi di alternative e più disperati, erano meno portati all'abbandono e al rimpatrio di quelli del nord, che, a loro volta, venivano richiamati in patria dai parenti che, nel frattempo, avevano constatato la ripresa economica e dell'occupazione nelle aree industriali italiane, dove le condizioni di lavoro erano meno disumane di quelle imposte da begli o tedeschi;
f) nondimeno, i meridionali italiani, una volta stabilizzati, perché ritenuti affidabili e "produttivi" (naturalmente a livelli retributivi, e di condizione abitativa, più bassi di quelli che qualsiasi autoctono avrebbe mai accettato), e ritenuti perciò "preferibili", venivano incentivati a richiamare anche i parenti; ciò da un lato consentì ai paesi "riceventi" di evitare la straniazione e la potenziale destabilizzazione sociale legata alla presenza degli immigrati, dall'altro li rifornì di un ulteriore stabile flusso di manodopera a bassa retribuzione, che veniva socialmente emarginata e rinchiusa in enclaves chiuse nella memoria e nella nostalgia della terra di provenienza (dunque, l'assimilazione fu convenientemente molto lenta e completata dalla discriminazione selettiva nell'accesso ai livelli superiori di istruzione dei figli dei nostri emigrati: fenomeno, che dato il sistema istituzionale scolastico tedesco, è sostanzialmente ancora in atto).

6. Al di là della cronistoria di dettaglio di questi eventi, che certamente testimoniano la non novità delle grandi migrazioni di massa in Europa, e che potete trovare più o meno crudamente illustrati qui e qui (ex multis), è evidente che le soluzioni adottate, - pur quando, si badi bene specialmente nell'esperienza tedesca, erano già operanti i trattati OECE (poi OCSE) e i primi trattati europei CECA e Euratom-, erano improntate a:
a) fissazione annuale di contingenti da parte del paese di destinazione e selezione degli "aspiranti" operata essenzialmente sul territorio di provenienza, da parte di organismi e funzionari sia nazionali che del paese di destinazione, secondo procedure fissate nei trattati bilaterali (anche se poi, come abbiamo detto, in pratica "forzate" a favore della discrezionalità esercitata di fatto dai selettori stranieri operanti in territorio nazionale);
b) assicurazione dell'occupazione all'arrivo, ma sottoposta sia a un'ulteriore selezione "in loco" che ad un periodo permissivo "legale" iniziale limitato (generalmente a un anno), al cui termine, se la autorità e i dirigenti delle imprese non erano soddisfatti, si procedeva alla revoca del permesso di lavoro e al rimpatrio;
c) forte ciclicità dell'immigrazione stessa, in funzione della corrispondente ciclicità dei settori industriali interessati, con contingentamenti e rimpatri accelerati in caso di crisi occupazionale del settore. A ciò si unì poi la mitigazione delle mera importazione di forza lavoro col consentire i "ricongiugimenti", cosa che garantiva sia futura forza lavoro senza dover ricorrere all'applicazione del trattato bilaterale, sia la più sicura assimilazione dei familiari insediati, seppure segregati in condizioni di mobilità sociale, in particolare sotto il profilo dell'accesso ai livelli più alti di istruzione,  istituzionalmente delimitate;
d) la successiva crescita dell'economia italiana, a complemento di ciò, indusse poi il fenomeno dei "ritorni" nei paesi di origine, contribuendo ulteriormente a calmierare i problemi di impatto socialmente destabilizzante sulle comunità sociali e politiche di destinazione.

7. In sintesi, si può dire che il sistema ebbe una certa funzionalità, pur con i suoi ovvii inconvenienti, riassumibili nella formula: non ci sono pasti gratis, meno che mai che per degli stranieri, e meno che mai ci si può aspettare che vengano stesi tappeti rossi per un'integrazione che, come evidenziano le cronache del tempo, ad es; in terra tedesca, passavano per una comunicazione politica e misure normative che rassicuravano i tedeschi sulle preferenza loro accordata per l'accesso ai lavori più appetibili.

Rimane il fatto che tale sistema aveva dei contenuti concordati essenziali, considerati connaturali: il reclutamento-collocamento e il convolgimento burocratico e istituzionale congiunto, sul territorio di "origine" dei responsabili amministrativi di entrambi gli Stati, secondo esigenze e contingenti programmabili stabilite negli accordi bilaterali, nonché la selezione ulteriore, in funzione di convenienze anche di orientamento politico e atteggiamento "cooperativo", compiuta nel paese di destinazione. Che, comunque, si riservava sia ulteriori selezioni all'arrivo in base a criteri di ulteriore "gradimento", sia l'adozione di un sistema di temporaneità dell'occupazione assicurata, che quello di misure normative studiate per tenere sotto un certo controllo l'inserimento-mobilità sociale dei nuovi arrivati (e delle loro stesse famiglie ricongiunte).

8. Ora, pur nella, molto presunta, nuova sensibilità verso i "diritti umani" dell'attuale €-clima ideologico-mediatizzato (diritti che, se escludiamo quelli di tutela del lavoro, smantellati a tappe forzate in tutta €uropa, si riducono a formule cosmetiche su accoglienza e forme di assistenza sociale, anch'esse progressivamente tagliate, come ben sappiamo), è facile avvedersi come questa soluzione sia tutt'ora e vantaggiosamente praticabile.
Va, infatti, considerato che i paesi di provenienza dell'attuale immigrazione - che furiosamente e "curiosamente" viene lasciata premere direttamente alle frontiere dei paesi di destinazione- sono statisticamente ben noti e, comunque, facilmente accertabili, e che solo una percentuale minima, in termini quantitativi, dei "disperati", ha i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato, o persino della condizione di protezione umanitaria o sussidiaria (cfr; art.78, par.1, del TFUE: concetti non ben precisati, semplicemente perché non precisabili sul piano materiale, storico e politico, e che dunque si prestano a arbitrii e manipolazioni del tutto contingenti, cioè a una discrezionalità priva di una seria predeterminazione legale dei suoi criteri di esercizio).
Si consideri che, quanto al 2014, ad esempio, "su 36.270 stranieri richiedenti lo status di rifugiato, il 10% (3.641) l'ha ottenuto, il 23% ha ricevuto protezione sussidiaria, il 28% quella umanitaria. Pari al 39% le domande respinte". E questa statistica esclude dal computo quegli immigrati che non hanno inoltrato alcun domanda di asilo, che sono la maggioranza, considerando che, nello stesso 2014, gli arrivi sono ammontati a circa 170.000 persone.

NB: I dati della tabella sottostante riguardano, nei vari Stati interessati, l'esito delle pratiche attivate dai richiedenti uno status di profugo o similare, non il numero totale degli immigrati in arrivo, che è molto maggiore: quelli che non fanno richiesta, infatti, sono, per loro stessa ammissione, degli immigrati "illegali" ai sensi dell'art.79 TFUE, cioè espressione del fenomeno che tale norma imporrebbe all'Unione di contrastare:
 

9. Essendo questi i fatti, non si vede perché l'Unione europea e, più ancora, gli Stati-membri non abbiano, di fronte alla situazione emergenziale protraentesi ormai da anni, attivato gli accordi bilaterali modellati sulle precedenti esperienze, interne all'Europa, che consentirebbero di evitare il tragico spettacolo permanente della disperazione e dell'ammasso umano, sfruttando, anzi, doverosamente applicando, le stesse clausole dei trattati.
Va infatti ricordato che l'art.78 TFUE  sopra citato, se letto in buona fede, si riferisce chiaramente a flussi peculiari, cioè determinati da eccezionali e imprevedibili eventi circoscritti a uno "Stato terzo" manifestamente in stato emergenziale, e non coinvolgenti in modo stabile e prolungato, data l'evidente ratio di eccezionalità della normativa, intere aree continentali o addirittura interi continenti.

Ce lo conferma lo stesso trattato: al successivo art.79, infatti, l'Unione nel configurare una "politica comune" di gestione dei flussi migratori:
a) si pone, al par.1, l'obiettivo prioritario del "contrasto rafforzato alla immigrazione illegale e alla tratta degli esseri umani". 
E dov'è tale azione comune di contrasto rafforzato, che è evidentemente diversa dal principio del "non respingimento" e della protezione sussidiaria e dei rifugiati, che riguarda situazioni eccezionali e imprevedibili?;
b) enuncia il seguente fondamentale principio (par.5): "Il presente articolo non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro indipendente o autonomo";
c) infine, volendo attribuire alla normativa europea una certa previdenza sugli esiti emergenziali dei principi dell'art.78, lo stesso art.79, al par.3, mostra come la degenerazione, fuori dai suoi presupposti giustificativi nel trattato, di una fase emergenziale non si risolva con la permamente apertura delle frontiere che, anzi, fuori dalla condizione di imprevedibiltà, origine circoscritta ed eccezionalità, (caratteri che la dimensione e la durata attuale del fenomeno ormai smentiscono), deve considerarsi non consentita e da correggere. Ed infatti, il par.3 così prevede:
"L'Unione può concludere con i paesi terzi accordi ai fini della riammissione, nei paesi di origine o di provenienza, di cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni per l'ingresso, la presenza o il soggiorno nel territorio di uno degli Stati membri". 
E dove sono, dopo anni e anni di incremento vertiginoso del fenomeno della immigrazione illegale (ce lo dicono le statistiche) questi accordi, coi ben identificabili paesi terzi, per il rimpatrio di coloro che non soddisfano ora e poi le condizioni di ingresso in €uropa?

10. In conclusione, se gli Stati, nel quadro dei trattati europei, avrebbero ben potuto impostare dei trattati bilaterali coi paesi di maggior provenienza della immigrazione economica, per regolare i flussi migratori in funzione delle proprie effettive esigenze occupazionali, se l'Unione non ha concluso gli accordi di rimpatrio con questi stessi paesi (anche di coloro che "non soddisfano più" le condizioni di entrata), ci sarà un motivo razionale?
Forse che la disoccupazione dei legalmente residenti in €uropa non è un problema attuale, eclatante, disastroso, e, alle condizioni di governance economica dell'UEM, rivelatosi in concreto irrisolvibile?
Non è dunque un problema espressamente preso in esame dati trattati con le loro esplicite previsioni?

11. Certo, qualche problemino, ORA, a trovare organi dei paesi terzi legittimati a concludere dei trattati bilaterali e con l'Unione ci sono: ma la situazione sopravvenuta della Libia, visto il suo ruolo di passaggio-vettore della migrazione africana, era ben prevedibile, una volta scatenata la guerra contro Gheddafi. Anche considerando, appunto, che dalla Libia, essenzialmente, non scappano i libici, ma coloro che, provenienti da gran parte dell'Africa, uno Stato libico legittimo secondo il diritto internazionale, piuttosto, teneva sotto un certo controllo (per quanto ricattatorio).
E destabilizzare sistematicamente il medio-oriente con crociate per la democrazia aveva lo stesso risultati molto prevedibili di medio e lungo termine.
Tra l'altro nulla impedisce di concludere, anche attualmente, accordi bilaterali con Stati come la Tunisia, il Marocco, la Nigeria e via dicendo, anche implementando presso il territorio di questi Stati, o Stati simili, centri a gestione congiunta di selezione e verifica non solo della condizione di "rifugiato" o di "protezione umanitaria", ma pure di quella della "eleggibilità" del mero migrante economico.
Almeno, dovendo prendere delle decisioni in quadro giuridico certo e predefinito, si dovrebbe ammettere, nel caso dei "migranti economici", che la situazione dell'occupazione, nella maggior parte dell'eurozona, non è, in questo (lungo) momento, tale da rendere economicamente e socialmente opportuna tale tipologia di immigrazione.
E magari, si dovrebbe pure spiegare ai cittadini europei perché le cose stanno in questo modo (ben diversamente da quello che accadde nella fase di ricostruzione che seguì alla seconda guerra mondiale).

Invece, si continua con la politica dell'ammasso e degli arrivi alle frontiere dell'Unione, che sono esattamente l'opposto dei trattati bilaterali che il trattato avrebbe previsto e anzi, nelle condizioni attuali, imposto, per regolare i flussi di immigrazione e per combattere quella illegale e la tratta degli esseri umani.
Evidentemente, prevenire il terrorismo dei disadattati "programmatici", nelle sue più ovvie cause scatenanti, non è un obiettivo razionalmente affrontabile in sede €uropea.
Evidentemente la soluzione preferita è l'esercito europeo delle multinazionali private e delle privatizzazioni sovranazionali...

lunedì 28 marzo 2016

L'INTEGRAZIONE ECONOMICA IN EUROPA? I TRATTATI CREATIVI DELLO STATO DI ECCEZIONE. ANTIDEMOCRATICO.


http://europeanpapers.eu/sites/default/files/EP_macroa3_IT.jpg

http://www.pensolibero.it/public/wp-content/uploads/2015/06/greci-in-miseria.jpg

http://www.beppegrillo.it/immagini/immagini/8_milioni_poveri.jpg

1. Nell'accingervi a leggere questo post, mi pare opportuno segnalare l'ultimo post odierno su goofynomics, che risulta ricco di chiarimenti sulle diverse formule e gradi dei sistemi di apertura dell'economia o, in termini complementari, di integrazione dell'economia tra paesi diversi: l'apertura delle economie, infatti, esige sempre una regolazione giuridica che tenda a coordinare gli effetti "innovativi" che scaturiscono, - detto in termini brutalmente semplici, ma così riassunti dallo stesso Caffè-, dall'arrivo di merci e capitali esteri in una misura e intensità che alterano i precedenti equilibri socio-economici interni riguardo a "ciò che dovrà essere prodotto nel Paese e a ciò che dovrà essere ottenuto in cambio dall'estero" (qui, p.8). Aspetto che, secondo Keynes, sarebbe poi la decisione politica suprema che giustifica il ruolo dello Stato e la sua titolarità delle politiche economiche e fiscali: una decisione che, idealmente, Caffè riporta (pp.8-9) alle formule, normative sia chiaro, della Costituzione economica e che, "tecnicamente" egli ravvisa negli studi preparatori della stessa effettuati dalla Commissione economica per la Costituzione, di cui Caffè era componente

2. Una piccola aggiunta a questo necessario chiarimento, ci dà lo spunto per un utile (spero) riassunto del discorso complessivamente svolto da questo blog (insomma i links non sono da sorvolare a cuor leggero...).
Il discorso svolto da Alberto, infatti, ci porta a sottolineare che, quando parliamo di integrazione economica, si tratta, in linea di tendenza, di sistemi (pretesamente) cooperativi che trovano, invariabilmente, la loro "istituzionalizzazione" in accordi di diritto internazionale: cioè in decisioni politiche del più alto livello e, come tali, teoricamente sottoposte al massimo grado di responsabilità non solo politica (cioè elettorale), ma anche giuridico-costituzionale: cioè in termini di rottura, resa permanente, della legalità costituzionale e di creazione di un assetto extra-ordinem (come ci conferma Luciani, eminente costituzionalista, in uno scritto post-Maastricht, arrivando alle nostre stesse conclusioni...del 2013). 
Si tratta, quindi, della incombente responsabilità (costituzionale e persino penale) per la instaurazione di assetto non consentito dalle norme costituzionali sui limiti dei poteri negoziali degli organi di indirizzo politico: governo e parlamento.

Ne consegue che, come abbiamo già segnalato, "apertura" dell'economia e metodi di integrazione economica tra economie di Stati diversi, non "accadono" per forza naturale, delle cose ma seguono invariabilmente due percorsi: quello negoziale di diritto internazionale, ovvero quello della guerra di sottomissione di uno Stato colonizzatore in danno di un altro Stato (inteso come comunità sociale e territoriale avente delle sue precedenti connotazioni di autonomia e unità politiche). 
Di questa seconda formula ci dà, da ultimo su questo blog, ampio conto il più recente post di Bazaar che, al tempo stesso, evidenzia come, specialmente nell'esperienza storica europea più recente, che va dall'espansione nazista germanizzatrice a quella dell'Unione europea, - egualmente germanizzatrice nei crudi fatti-, i risultati perseguiti coi i due diversi "sistemi", non divergano poi in modo rilevante.

3. Questa inquietante "non diversità" di risultati ultimi, come sottolinea anche il post di Alberto sopra citato, trova dei diversi e alternativi riflessi avversativi (anzi, estirpativi) di ciò che viene definito, in modo solo manicheista, "protezionismo" e che, invece, come abbiamo visto, non è sussumibile in un'unica funzione politico-economica, meno che mai riducibile alla esaltazione del nazionalismo e all'ostilità verso gli altri Stati: ma è lo stesso Caffè a segnalarci come Keynes avesse ben individuato il costo immancabile dell'apertura delle economie

In altri termini, secondo Keynes, tale apertura e la regolazione tesa alla complementare "integrazione", pur potendo spaziare in una certa variabile intensità di effetti degradanti del tessuto economico e sociale del paese più debole che si "apre" e si "integra" (e il colonialismo che diviene intrinsecamente razzista ne è l'espressione al limite massimo), presenta un effetto negativo invariabile, che, a ben vedere, discende dalla stessa tendenza, presupposta, del capitalismo liberoscambista a fondarsi sulla ipocrisia della libera concorrenza senza "frontiere" (come appunto si vuole nel Manifesto di Ventotene).
Ma tale libera concorrenza, in realtà, null'altro è che, (proprio nel  liberoscambismo così macroscopicamente incarnato dall'Unione politica e monetaria europea), l'esaltazione delle tendenze mercantiliste degli oligopoli dei paesi più forti economicamente. Senza dimenticare che, come evidenziano pure il post (e l'opera divulgativa) di Alberto, aggiungendo al liberoscambismo, all'Unione doganale e al mercato unico, l'unione monetaria, il paese più forte - e dunque inevitabilmente avvantaggiato dai trattati che tale moneta unica sanciscono- è quello che muove da una situazione di più bassa inflazione e prosegue ad accenturare questa situazione (cercando cioè il vantaggio competitivo dei c.d. tassi di cambio reale la cui decisiva rilevanza permane anche in una moneta unica, se non viene unificato politicamente, e in partenza, il bilancio e il governo fiscale dell'intera area monetaria).

4. Per tornare al costo, evidenziato da Caffè in una visione keynesiana rigorosa, della "integrazione economica" da trattato- specialmente multilaterale, come abbiamo evidenziato in questo post, essendo ben diversi gli impatti, e gli stessi presupposti di autonomia sovrana e di convenienza, dei trattati bilaterali-, esso contiene l'implicita critica all'ipocrisia della principale ipotesi di scuola liberista (marshalliana, si sarebbe detto nella sua epoca): quella della concorrenza perfetta
Ma la sintesi profetica di Caffè contiene anche la prefigurazione del costo sociale ed economico inevitabile della "integrazione" e anche il preannunzio dell'impoverimento culturale, in ogni senso, dei paesi coinvolti.
Questo costo è infatti così tratteggiato:
"l'ingigantirsi, privo di freni e di remore...della stessa intensificazione dei traffici internazionali, quando essi non riflettano una più efficiente soddisfazione di bisogni basilari, ma si risolvano in un artificioso travaso reciproco di prodotti resi indispensabili dalle tendenze imitative tipiche delle situazioni di concorrenza oligopolistica."
Ora, come sappiamo, il fenomeno dello "artificioso travaso reciproco di prodotti" viene evidenziato pure da Rawls, nello stigmatizzare l'effetto inevitabile dell'Unione europea, (tra l'altro pur senza analizzare se il suo accoppiarsi con la moneta unica sacrificasse persino quella crescita "garantita" che, pure, Rawls considera un vantaggio di valore inferiore ai disagi sociali e culturali che comunque l'Unione avrebbe apportato!): il "consumismo senza senso". 
Che è come dire il tecnicismo-pop al potere che diluisce ogni pallido ricordo della verità, cioè degli effetti reali che vengono programmati quando si intraprendono unioni economiche e monetarie, senza aver voluto considerare minimamente il benessere e la democrazia dei popoli che ne sono coinvolti.

5. Nel caso dell'Unione europea, basti dire che questa mancata considerazione programmatica del benessere e della democrazia è addirittura un principio fondante: cioè quella "economia sociale di mercato fortemente competitiva", principio chiave supremo dei trattati, che null'altro è che un'esasperata e anticooperativa competizione tra Stati, e sottostanti popoli.
Una competizione che riduce al valore "mercato" (conquista di quote, inevitabilmente in danno dell'economia-comunità sociale di un altro Stato, parte dello stesso trattato) l'essenza dell'Unione europea e priva di ogni legittimazione cooperativa la ragion d'essere del trattato.
Un trattato meno che mai funzionale alla "pace e alla giustizia tra le Nazioni", dato che, come abbiamo visto, l'integrazione fortemente competitiva fnisce per avere, all'interno della moneta unica, gli stessi effetti del mercantilismo imperialista e colonizzatore a vantaggio dei già forti e a svantaggio dei deboli, ancor più indeboliti. 
Fino, possibilmente, alla schiavizzazione, come insegna il "modello" di risoluzione greco, adottato nell'eurozona per le crisi da squilibri commerciali e di  indebitamento estero interne all'area monetaria divenuta mercantilista e colonizzatrice. 
Un modello che non è solo la negazione del benessere e della democrazia dei popoli, ma anche un sistema intenzionale di creazione di "stati di eccezione" che trasferiscono irreversibilmente il potere dalla sovranità democratica, fondata sulla piena occupazione come orientamento costituzionale, all'ordine sovranazionale degli oligarchi del capitalismo finanziarizzato. Per trattato.
Questa è l'integrazione economica oggi realizzata in €uropa.
E, si badi bene, non ha proprio nulla a che fare con effetti inevitabili del progresso tecnologico sui modi della produzione e sull'assetto sociale che ne consegue: ha solo a che fare, come ci illustra il post sull'ordoliberismo sopra linkato, con la ben nota "rivincita" del vetero-capitalismo sulla emancipazione democratica del mondo del lavoro. In €uropa specialmente...
Ma questo versante del problema cercheremo di affrontarlo in un prossimo futuro.
 


sabato 26 marzo 2016

LO SCONTRO TRA CIVILTA' COME ARMA POP DI ATOMIZZAZIONE DI MASSA (DANCE, MENTI ELEMENTARI!)


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Questo post di Bazaar è complesso e non lo nascondiamo: ma la sua complessità deriva dalla necessità di ricostruire ciò che è stato devastato. 
E devastato per un fine collettivo preciso. 
E devastato tanto a lungo e tanto in dettaglio che "ricostruire" è un compito gravoso. Forse, ormai, persino vano: abbiamo ancora le risorse culturali "accessibili" per evitare di scivolare oltre il "punto di non ritorno" (ne parlavamo tre anni fa...)?

Consideriamo una risposta positiva come un augurio di Buona Pasqua. Per tutti...

Introduzione- Imperialismo globale, menti elementari e fallacia fallaciana.

«I work for a Government I despise for ends I think criminal»
«Lavoro per un Governo che disprezzo per finalità che ritengo criminali»
John Maynard Keynes, a proposito del governo britannico, in una lettera  a Duncan Grant del 15 dicembre 1917
Ricordiamo come – stando con Braudel – le correnti della Storia fluiscano a velocità diverse: ed invece, ci troviamo a constatare come la comune esperienza porti a credere che «geografia, civiltà, razza e struttura sociale» siano un dato di fatto. Oggetti immutabili, come le leggi stesse che li governano.

I motivi sono principalmente due: il primo – come sconsolati dovettero prendere atto Marx ed Engels – è che l'ignoranza della storia è diffusissima[1] anche in gran parte delle classi più istruite; il secondo, invece, lo aveva ben chiaro Adolf Hitler: i dominati con «un cervello illuminato da alcune nozioni di storia, giungerebbe a concepire alcune idee politiche, e questo non andrebbe mai a nostro  vantaggio»[2].

Cioè, i dominanti, per il proprio piacere – nell'accezione orwelliana di ebbrezza del potere – opprimono masse sterminate di persone umane con una serie di strategie più o meno raffinate con cui gestire e coniugare il più ampio divario possibile nella distribuzione di benessere-potere tra classi, e il più ampio divario numerico possibile tra componenti delle classi stesse.

Ovvero, stando con Adam Smith:  «Tutto per noi stessi, e niente per gli altri, sembra, in ogni epoca del mondo, essere stata la vile massima dei dominatori del genere umano».


1 – Socrate, la manipolazione emotiva e il branco: “lo spillo di Zinoviev” nell'incrinare il delicato equilibrio tra ragione ed emozioni.

 «La differenza sostanziale tra emozione e ragione è che l’emozione porta all’azione, la ragione a trarre conclusioni», Donald Calne
1.1. La scienza e la tecnica possono permettere – come propongono A.Huxley o B.Russell – di incrementare ulteriormente questi divari, limitati storicamente dalla resistenza dei dominati ad accettare ulteriore sofferenza e dolore senza ribellarsi.
Hitler, che altro non è che un ottimo archetipo di “dominatore” – nonostante la storiografia non faccia altro che evidenziare i suoi forti tratti psicotici piuttosto che quelli di legittimato rappresentante di interessi particolari di classe – riflette questo modus cogitandi delle classi dominanti: l'ignoranza – ovvero la creazione massiva di menti elementari – è naturale obiettivo di chi si trova in posizione egemonica.

L'ignoranza più terribile – così come la schiavitù più terribile “è di colui che crede di essere libero”[3]è quella di coloro che “sanno di sapere”: una più o meno ampia erudizione priva di una naturale struttura logica e valoriale[4], può essere il più grande strumento anti-cognitivo riservato alla classi subalterne più istruite.

1.2. La destrutturazione logica e valoriale delle classi dominate è semplicemente ottenibile tramite il marketing emozionale, ossia quell'evoluzione della manipolazione freudiana delle debolezze inconsce, o dello sfruttamento delle reazioni pavloviane, insistendo particolarmente sulle dinamiche di gruppo come, ad esempio, quelle più irrazionali legate al senso di appartenenza.
I mezzi di comunicazione di massa sono – nella loro naturale struttura del tipo “pochissimi che producono contenuti, una grande maggioranza che li consuma” – lo strumento tramite il quale quel minimo di istruzione dei dominati viene sterilizzata, e l'opinione pubblica” viene spinta ad identificarsi con quella “privata”: ovvero, il “pensiero-obiettivo” della classe dominante viene iniettato dai media nella coscienza della comunità sociale dominata.   
Gli interessi confliggenti delle diverse classi vengono rimossi dalla coscienza stessa degli oppressi.

(Nota: la cultura non si consuma: la si vive)

1.3. Quindi possiamo assumere come archetipo[5] per analizzare il pensiero della classe dominante quello espresso da Hitler che, prima di essere stato figura carismatica esponenziale dell'ideologia nazista, è stato figura paradigmatica in quanto esponente di interessi materiali di classe: quelli – appunto –  della classe dominante

Poiché Hitler rappresentava, ma non apparteneva, né alla classe nobiliare né a quella capitalista, con la sua immagine poteva tendenzialmente manipolare più facilmente le classi subalterne, trasformando i sentimenti revanscisti di classe in aggressività imperialista, trasformando l'identità  nazionale in identità razziale: il revanscismo e il patriottismo si trasformavano dialetticamente in un feroce imperialismo, portato alle sue estreme conseguenza per mezzo delle sovrastrutture ideologiche edificate intorno all'eugenetica.

Le classi subalterne – tramite l'ingegneria sociale goebbelsiana – erano soggette ad una collettiva identificazione con l'aggressore, ovvero con la classe dominante, di cui finirono per abbracciare in toto l'etica [Nota: morale come Super-Io “ingegnerizzato”].

1.4. Questo è il meccanismo che sta alla base tanto del consumismo quanto del razzismo.

È comune a tutta l'esperienza coloniale; da una parte deresponsabilizza le classi dominanti, che identificano a loro volta se stesse [contro-transfert] con l'imbruttimento morale dei dominati: «vedete che voi al posto nostro fareste la stessa cosa?»; dall'altra permette di far accettare il “codice Manu" in versione occidentale”, per cui al sangue-razza è attribuito valore immutabile, che giustifica l'ipostatizzazione dell'ingiustizia sociale assurta a fondamento ordinamentale costituito: tanto a livello nazionale, quanto a livello internazionale.


2 – Imperialismo angloamericano e nazifascismo: dall'identica struttura alle similitudini sovrastrutturali.

2.1. Come nella tradizione angloamericana e liberale, Hitler grazie alla narrazione terroristica sulla “sicurezza nazionale” – propaganda che: «la sicurezza dell'Europa non sarà assicurata se non quando avremo ricacciato l'Asia dietro agli Urali»[6], mentre – come è ovvio – cerca nel Lebensraum un'area coloniale in cui imporre trattati di libero scambio: «Lo spazio russo è la nostra India. Come gli inglesi, noi domineremo questo impero con un pugno di uomini»[7].

Il Grossraum è strutturalmente niente altro che una grande area in cui è possibile imporre “liberamente” accordi commerciali: questo è, di converso, il significato di “libero” che può essere assegnato al significante “free” di free trade. [Nota: mercatolibero” di espropriare]

Infatti, seguendo la logica liberoscambista e ricardiana dei vantaggi comparati, Hitler calcola che: «La Romania farebbe bene a rinunciare nei limiti del possibile ad avere un'industria propria. A questo modo dirigerebbe le sue ricchezze del suo suolo e, specialmente il grano, verso il mercato tedesco. In cambio riceverebbe da noi i prodotti manifatturati di cui ha bisogno. La Bessarabia è un vero granaio. Così scomparirebbe quel proletariato romeno che è contaminato dal bolscevismo»[8].

(Prestiamo attenzione al fatto che “bolscevismo” è una sineddoche per intendere “socialismo”, ossia coscienza politica e di classe che si fonda sulla dignità del lavoro: di converso, si nota che sarebbe accorto per il lavoratore e per il produttore del nostro tempo, evitare di chiamare “socialista” o “comunista” la sinistra politica liberale, liberoscambista o – stessa cosa –  “federalista”) 

2.2. Infatti, sempre sulla falsa riga della politica liberale angloamericana, Hitler esprime il genere di sovrastrutture atte al dominio imperialista [9]
«Per dominare i popoli che abbiamo sottomesso nei territori a est del Reich, dovremo di conseguenza rispondere nella misura del possibile ai desideri di libertà individuale che essi potranno manifestare, privarli dunque di qualsiasi organizzazione di Stato e mantenerli così a un livello culturale il più basso possibile

Ovvero: se sarà possibile, ai popoli sottomessi  sarà concesso qualsiasi tipo di “diritto civile”,  in quanto diritto individuale ad effetto anestetizzante per il disagio sociale (cfr. “diritti cosmetici”); ma l'ignoranza deve essere il più possibile dilagante in modo che – poiché i diritti sociali sono strettamente connessi ai diritti politici – si potrà contare su comunità sociali atomizzate e incapaci di organizzarsi politicamente per avanzare pretese di carattere economico e sociale.

Il Führer – ben informato sul paradigma liberoscambista dell'imperialismo anglosassone – prosegue
«Bisogna partire dal concetto che questi popoli non hanno dovere che servirci sul piano economico. Il nostro sforzo deve dunque consistere nel trarre dai territori che essi occupano tutto quanto se ne può trarre. Per impegnarli a consegnarci i loro prodotti agricoli, a lavorare nelle nostre miniere e nelle nostre fabbriche d’armi, li adescheremo aprendo un po’ dappertutto spacci di vendita nei quali potranno procurarsi i prodotti manifatturati dei quali abbisognano».

2.3. Questo, come è stato ampiamente trattato, è la semplice conseguenza di ciò che accade naturalmente alla periferia di un Paese che viene costretto ad entrare in un'area di libero scambio.

Paragrafo 2.4: «Alla polarizzazione della ricchezza tra classi, si affiancherà la polarizzazione di potere politico, economico e militare, tra centro e periferia; la tecnologia fornisce un alto valore aggiunto alla produzione e un vantaggio militare, e le aree che vedono il proprio tessuto industriale irreversibilmente compromesso dovranno esportare tendenzialmente materie prime, nel caso non ne fossero in possesso, dovranno esportare il fattore lavoro: ovvero favorire l'emigrazione

Sull'emigrazione ci torniamo nel paragrafo conclusivo.

2.4. Ricordiamoci inoltre che l'euro – ovvero la “moneta unica europea” – era già stata progettata dalla Germania nazista. L'inquietante piano Funk.

Infatti, Adolf Hitler prosegue nella versione austriaca dell'anarco-libertarismo, che ricorda tanto l'americano ultra-liberista Rothbard
«Se vogliamo preoccuparci del benessere individuale di ognuno, non otterremo alcun risultato imponendo loro un’organizzazione sul modello della nostra amministrazione [cfr. «lo Stato brutto e cattivo che limita la “libertà personale”», “The road to serfdom”, ndr]. In tal modo non faremmo che attirarci il loro odio. 
Infatti, quanto più gli uomini sono primitivi, tanto più avvertono come una costrizione insopportabile qualsiasi limitazione della loro libertà personale
Dal nostro punto di vista, l’altro difetto di una tale organizzazione sarebbe di fonderli in un blocco unico [cfr. «Stato-nazione brutto, nazionalismo brutto, ecc», ndr], di dar loro una forza di cui si servirebbero contro di noi [ma pensa un po', chi lo avrebbe mai detto..., ndr].
In fatto di organizzazione amministrativa, il massimo che si possa loro concedere è un’amministrazione comunale [cfr. con «evviva il federalismo, partiamo dal basso, dai comuni a cinque stelle, ecc.», ndr], e unicamente nella misura in cui ciò è necessario al mantenimento di un determinato potenziale di lavoro, ossia il potenziale indispensabile ad assicurare i bisogni elementari dell’individuo [quest'ultima definizione corrisponde all'equilibrio malthusiano, e ci si ritornerà in altra occasione, ndr].

2.5. Insomma, Hitler insiste sull'ovvietà per cui l'individualismo metodologico su cui è fondato tutto[10] il liberalismo, non è altro che una narrativa funzionale al controllo sociale: l'atomizzazione della società non permette coscienza di classe, ovvero coscienza politica.

Se a livello sovrastrutturale “l'individualismo metodologico” e il liberalismo sono fondamentali, come ampiamente dimostrato dall'imperialismo anglosassone, la struttura liberoscambista deve veder elevate istituzioni di tipo federale e macroregionale; infatti insiste:

«Ma, nel creare tali comunità di villaggi, dovremo procedere in modo che delle comunità vicine non possano fondersi tra loro. Per esempio, avremo cura di evitare che una chiesa unica serva un ampio territorio. Insomma il nostro interesse sarebbe che ogni villaggio avesse la propria setta, che coltivasse la propria nozione di Dio. E se, come gli indiani e i negri, alcuni avessero a celebrare culti magici, non ci dispiacerebbe affatto. Dobbiamo moltiplicare, nello spazio russo, tutte le cause di divisione».

2.6. Divide et impera: seguendo per filo e per segno le orme della tradizione liberale e federalista angloamericana.
«Solo ai nostri commissari spetterà di sorvegliare e dirigere l’economia dei paesi conquistati – e ciò che ho detto deve applicarsi a tutte le forme di organizzazione. E, soprattutto, che non si veda spuntare la ferula dei nostri pedagoghi, con la loro mania di educare i popoli inferiori e la loro mistica della scuola obbligatoria! Tutto quanto i russi, gli ucraini, i kirghisi potessero imparare a scuola (non fosse altro che a leggere e scrivere) finirebbe per volgersi contro di noi. Un cervello illuminato da alcune nozioni di storia giungerebbe a concepire alcune idee politiche, e questo non andrebbe mai a nostro vantaggio.»

Insomma, i federalisti europeifinanziati lautamente dall'imperialismo globale a trazione USA – seguono il medesimo modello strutturale della Germania nazista: e, come abbiamo intuito, non è un caso. Il nazismo non aveva fatto altro che portare alle sue estreme conseguenze il modello imperialista  britannico.

2.7. Il totalitarismo liberale del progetto dispotico europeista, è cognitivamente anestetizzato dalla propaganda hollywoodiana,  dalle tetre morbosità stile Isola Desnuda, al modello Flash Dance; quest'ultimo già teorizzato dal Füher
«Meglio installare un altoparlante in ogni villaggio: dare alcune notizie alla popolazione, e soprattutto distrarla [...ma guarda un po' come è evoluta la politologia negli ultimi settant'anni..., ndr]. A che servirebbe darle la possibilità di acquisire cognizione nel campo della politica, dell’economia? [Già, tanto vale avere “comici” e “spaghetti-liberisti” diversamente laureati, ndr] La radio non dovrà impicciarsi di offrire ai popoli sottomessi conversazioni sul loro passato storico [Meglio del sano autorazzismo!, ndr]. No, musica, e ancora musica! La musica leggera provoca l’euforia del lavoro. Forniamo a quella gente l’occasione di ballare molto, e ce ne sarà riconoscente. Da noi, l’esperimento è stato fatto al tempo della Repubblica di Weimar: è dimostrativo […]»

Magari qualcheduno si sarà chiesto come mai la musica “pop” debba essere “leggera”: Adolf Hitler lo aveva ben chiaro.

(Mi raccomando: dopo il lavoro tutti davanti alla televisione a vedere la partita, il sabato sera tutti in discoteca....)

Ma, apparentemente, il Führer si era applicato con più costanza allo studio della storia rispetto ai campioni dell'imperialismo liberoscambista dei giorni nostri, dato che avverte:



3 – Conclusioni: la fallacia fallaciana.


«La mancanza cronica di cibo ed acqua, la mancanza d'igiene e di assistenza medica, la trascuratezza nei mezzi di comunicazione, la povertà delle misure educative, l’onnipresente spirito di depressione che vidi di persona, prevalente nei nostri villaggi dopo oltre un secolo di dominio britannico, mi fa perdere ogni illusione sulla loro benevolenza», Radindranath Tagore
«Se la storia del governo britannico dell’India fosse condensata in un singolo fatto, questo sarebbe che in India non vi fu alcun aumento di reddito procapite dal 1757 al 1947» Mike Davis, Late Victorian Holocausts: El Nino Famines and the Making of the Third World, London, Verso Books, 2001.
«Churchill, spiegando perché difendesse l’accumulo di cibo in Gran Bretagna, mentre milioni di persone morivano di fame in Bengala, disse al suo segretario privato che “gli hindu sono una razza sudicia, protetta grazie alla sua continua riproduzione dal destino che merita”» Madhusree Mukerjee, “Churchill’s Secret War”: The British Empire and the Ravaging of India during World War II, New York: Basic Books»[11]


«Se tenete in mano un'arma e mi dite, “Scegli chi è peggio tra i musulmani e i messicani”, avrei un attimo di esitazione. Quindi sceglierei i musulmani, perché hanno rotto i coglioni», Oriana Fallaci
 «Ci sono cose che se potessero essere capite, non andrebbero spiegate», “I Legge della Termodidattica”
3.1. L'argomento è serio. Ora: basterebbe rimandare al punto (b) del paragrafo (3) delle conclusioni di questo post per capire che, sul tema dell'imperialismo e dell'immigrazione, dalla contrapposizione della sinistra (?)[12] liberale alla Sabina Guzzanti e della destra (?)[13] liberale all'Oriana Fallaci, non può che sintetizzarsi un'inana contrapposizione utile solo a proteggere la traiettoria neo-[appunto]-liberale seguita da decenni e le riforme strutturali che questa comporta.

Va da sé che, essendo tale dialettica espressione di due prodotti nati da sovrastrutture liberali, quindi vuoti di contenuti culturali strutturalmente diversi, l'unico motivo per cui esistono gruppi sociali che spendono energie a favore di un gruppo e dell'altro, va ricercato nel senso di appartenenza e nelle diverse dinamiche pavloviane sfruttate dalla propaganda e dal marketing emozionale: questi sono gruppi che si complementano
Cioè, poiché il senso di appartenenza nasce in primis per contrapposizione, un gruppo necessita – per essere legittimato – dell'esistenza dell'altro.

Questa dinamica è – per definizione – inutile agli interessi materiali delle classi subalterne.

3.2. Sulla (più o meno) moderna sinistra liberale ha speso fiumi di inchiostro virtuale Alberto Bagnai (v. alla voce "Piddino"): sulla destra liberale, in cui si può annoverare anche l'amatissima, dallo scrivente, Ida Magli, non è purtroppo possibile trarre conclusioni politicamente troppo dissimili da quelle emerse dalle analisi di quel contenitore culturale che è la sinistra liberale, che, come tutto  il paniere di ideologie a disposizione altro non sono è che un prodotto di consumo[14]: cultura-merce.

Dopo il breve stralcio di analisi materialistica della storia, quantomeno nel senso di analisi economica istituzionalista di un periodo storico, dovrebbe essere lampante –  se già dapprima non fosse stato autoevidente – che appassionati giornalisti alla Oriana Fallaci, o grandissimi esponenti della cultura come la raffinatissima antropologa Ida Magli, hanno promosso politicamente analisi pop.

Non era il loro mestiere: in particolare non era quello di Oriana Fallaci: la storia della civiltà analizzata con qualche forma di approccio etnico, ha perso – se mai l'ha avuto – qualsiasi presupposto epistemico da almeno due secoli: nella sua variante pseudoscientifica di teoria delle razze,  è stato meramente usato a scopo ideologico, per la grande controrivoluzione neoliberale che getta le sue radici nell'ultimo quarto dell'Ottocento[15].

3.3. Certo è che gli epifenomeni possono essere dettagliatamente descritti da un preparatissimo antropologo: ed è vero che questi epifenomeni vengono rimossi o attivamente negati dalla sinistra liberale, generalmente impregnata di un “terzomondismo” senza senso che non è altro che una forma di razzismo rovesciato: ma il fatto che già gli antichi fossero consapevoli di quanto fossero gravemente «ridicoli» i politicanti dei regimi democratici nel trattare gli stranieri come se fossero cittadini, e che questa sia un debolezza strutturale degli ordini liberali tanto da essere sfruttata come vulnerabilità tramite strumenti di guerra alternativa (cfr.: Armi di migrazione di massa: deportazione, coercizione e politica estera, Kelly M. Greenhill), dovrebbe rendere chiaro quanto sia stato sostanzialmente inutile il contributo su questi temi della Magli e totalmente inano intellettualmente quello della Fallaci.

La controrivoluzione neoliberale, vinta la battaglia con l'URSS, ha avuto la repentina necessità di sostituire  la sovrastruttura ideologica anticomunista con quella dello “Scontro tra civiltà” suggerito da Samuel Huntington e promosso dallo stratega mondialista Zbigniew Brzezinski.

3.4. Così come lascia interdetti, ad un quarto di secolo dalla caduta del socialismo reale, appellare con “comunisti” formazioni politiche che vantano programmi antisociali e liberisti ben più estremi della destra politica post-comunista, non si può non rimanere sbigottiti di fronte a chi – a cospetto del massacro odierno, con tutta la letteratura scientifica e le ammissioni di responsabilità politica che sostengono tesi esattamente opposterilancia i pensieri islamofobici di Oriana Fallaci.

Se esiste un neologismo creato dalla propaganda semiofaga liberale che abbia un senso, è proprio “islamofobia”: ovviamente il problema non è tanto se la Fallaci et similia abbiano liberamente in simpatia o meno una certa religione o una certa etnia, o che la ritengano di per sé minacciosa: è un loro sacrosanto diritto.  
Islamofobia è un ottimo sostantivo per chiamare quella politica terrorista usata per il divide et impera, tanto volta all'oppressione delle classi subalterne, quanto finalizzata ad obiettivi imperialisti e mondialisti.

Il terrorismo non consiste nell'atto stragista di emarginati sociali creati dall'esclusività sociale teorizzata dal liberalismo stesso. A meno di volersi privare di qualsiasi seria capacità di identificare i meccanismi causa-effetto che agiscono nel concreto tempo della Storia (risalendo la concatenazione degli effetti e senza fermarsi alla prima "concausa-causata" della serie causale; cioè troncando emotivamente il nesso prima dell'esaurirsi di una normale indagine razionale...).

Il terrorismo consiste in una ben nota e teorizzata politica imperialista e di classe che si chiama strategia della tensione.

Bisogna spiegarlo agli Italiani?

E chi potrebbero mai essere questi “strateghi”?

Forse i reietti della segmentazione sociale imposta dalle politiche liberiste e federaliste?

3.5. Ovviamente no: chi ha le basi minime per comprendere i fondamenti delle scienze sociali è perfettamente consapevole che le responsabilità politiche (cioè la "cause" prime, derivanti da decisioni supreme di indirizzo sociale e economico, imposte a tutti coloro che sottostanno alle regole affermate dall'effettiva classe dominante) vanno ricercate in primis nella dialettica di strutture complesse di rapporti di forza che cercano di coordinarsi (per quello storico scopo nobile così ben espresso da Adamo Smith nella citazione iniziale).
E questi rapporti di forza si sintetizzano nella struttura sociale e nei rapporti di produzione che si modificano nel tempo.

Questo non significa prendere in simpatia chi è qui per sostituirti (e magari insegnargli il lavoro, come sa bene chi è rimasto disoccupato a causa della globalizzazione e delle conseguenti delocalizzazioni); questo non significa non usare tutti i mezzi machiavellanamente leciti per difendere la propria sovranità.

3.6. Il punto è che i deliri sconclusionati di chi colpevolmente si è prestato a propagandare un'ideologia degna di essere erede dell'antisemitismo nazista come quella dello “Scontro tra civiltà”, sono funzionali alla sconfitta irreversibile, che si  manifesta allo stesso modo di un genocidio portato a compimento.

E chi attenterebbe alla nostra sovranità? Chi predica la cessione delle sovranità democratiche come in guerra? Il profeta dell'Islam nel Corano?

3.7. Chi lo scrive nero su bianco – ma, si sa, la lettura porta via tempo alla musica leggera e alla discoteca – sono von Hayek e i filantropi sociopatici che hanno finanziato la Mont Pelerin Society e il Movimento Federalista Europeo.

Che, guarda un po', appartiene alla stessa classe che ha anche manifestamente le mani sporche di sangue per le vicende che riguardano l'ISIS.

Aizzare i conflitti sub-sezionali tra cristiani (non credenti) e musulmani (non praticanti) è la stessa pratica imbecille che fare a botte tra fascisti (tali perché si lavavano e portavano i capelli corti) e comunisti (con il papà che lavorava in banca): divide et impera.

3.8. Questo è il senso ultimo dei deliri visionari del fondatore di Paneuropa.



 (Chiaramente il post è per definizione inutile alle menti elementari e ai «grulli», data la kantiana “I legge della termodidattica”)

 «Per Giove, preferisco andare fuori strada con Platone, piuttosto che condividere opinioni veritiere con questa gente», Cicerone

«Dalla nolontà o incapacità di scegliere i propri esempi e la propria compagnia, così come dalla nolontà o incapacità di relazionarsi agli altri tramite il giudizio, scaturiscono i veri skandala, le vere pietre d'inciampo che gli uomini non possono rimuovere perché non sono create da motivi umani o umanamente comprensibili. Lì si nasconde l'orrore e al tempo stesso la banalità del male»
Hannah Arendt, le conclusioni morali di una vita di profonde e sofferte riflessioni.



[1]      L'ignoranza peggiore – come sappiamo noi Italiani, degni custodi della cultura greca – è quella di “sapere di sapere la Storia”.
[2]      “Conversazioni segrete”, Napoli 1954, citazioni selezionate da M.Pasquinelli.
[3]      «Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo», Johann Wolfang von Goethe
[4]      «Il difetto di Giudizio è propriamente quello che si chiama grulleria, difetto a cui non c'è modo di arrecare rimedio. Una testa ottusa o limitata […] si può ben armare mediante l'insegnamento fino a farne magari un dotto. Ma poiché in tal caso di solito avviene che si sia sempre in difetto di Giudizio, non è punto raro il caso di uomini assai dotti, i quali nell'uso della loro scienza lascino spesso scorgere quel tal difetto, che non si lascia mai correggere» Kant, “Critica alla ragion pura,” cit. in Arendt, “Alcune questioni di filosofia morale”, ET Saggi, pag.103.
[5]      Si fa notare che Hitler rappresenta la classe dominante poiché è stato un rappresentante politico di un regime che ha tutelato a livello strutturale un sistema ben determinato di rapporti di produzione, favorendo particolari interessi di classe; ma contestualmente, alimentando falsa coscienza nazionalistica e razziale, è stato anche una figura esponenziale di una sovrastruttura demagogica e populista: populismo rinvenibile già dal significante “socialismo” di nazional-socialismo (alias, nazismo). [O nel significante “sociale”, in economia sociale di mercato, alias ordoliberismo...]: infatti il Führer constatava sussiegoso che: «...l'ultimo degli apprendisti, il più modesto dei carrettieri tedeschi, è più vicino a me che non il più importante dei lord inglesi», Ibid, pag. 155-156
[6]      Ibid., pag.44
[7]      Ibid., pag.37
[8]      Ibid., pag.16
[9]      Ibid., pp. 450-453.
[10]     La curiosa contraddizione di Keynes (e del liberalismo sociale in genere)  per cui viene mostrata una predisposizione etica ad una maggiore giustizia sociale ma un totale rigetto della prospettiva del conflitto tipica del socialismo, può essere ricercata nella profonda influenza esercitata della filosofia morale anglosassone, quella di esponenti quali Adam Smith e William Paleys; questi non concepivano come un concetto ontologico di ordine “superiore” quello di società rispetto a quello di individuo, esclusivo soggetto ad essere dotato di “umanità”.   
[11]     Cit. da Ramtanu Maitra.
[12]     Nel senso di politicamente corretto al limite della querela.
[13]     Nel senso di politicamente scorretto nei limiti di un effettivo impegno civile.
[14]     Infatti Marx mai si sarebbe sognato di chiamare con il sostantivo “ideologia” (Ideenkleid) gli strumenti culturali e cognitivi messi a disposizione dai suoi studi, magari con l'intenzione di appellare “sistema di idee” ciò che è di fatto un insieme multidisciplinare di dottrine scientifiche: l'ideologia, nella concezione materialistica del divenire storico,  è falsa coscienza. (Dottrine scientifiche che sono state tutte riprese da scienziati sociali e filosofi che hanno avuto quasi due secoli di sviluppo... a partire dall'analisi economica!)
[15]     Ci sono una serie di motivi che sarebbe interessante approfondire per cui intorno al 1870 circa si può collocare l'inizio vero e proprio di un conflitto di classe cosciente, e su scala globale.