domenica 28 febbraio 2016

IL "PIANO" Sì', MA PIANO PIANO VERSO LA TRAMVATA. MUNCHAUSEN E IL G20 OSSIMORICO


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1. Il racconto della tregua Italia-UE, una volta che debba cercare delle spiegazioni in termini di "principio di realtà" (in psicoanalisi, è il principio dominante nella vita psichica dell'adulto, successivo e sostitutivo, nello sviluppo psichico dell'individuo, del ridotto principio di piacere, che domina invece la vita psichica del lattante. Il principio di realtà richiede l'accettazione di uno stato di tensione in cambio, in un prossimo futuro, di un piacere maggiore o di un dolore minore.), assume risvolti comici.

Anzitutto, dovendosi attribuire una razionalità globale al sistema...globale, La Repubblica lo aggancia al G20, l'ultimo in ordine di apparizione sulla scena del grande pensiero-unico bla-bla-bla, che si esercita nello sport preferito dai neo-ordo-liberisti internazionalisti: formulare proposizioni apparentemente complementari ponendo obiettivi plurimi a realizzazione congiunta tecnicamente impossibile: la crescita attraverso le riforme (invariabilmente liberalizzatrici del lavoro e privatizzatrici della ricchezza e degli interessi collettivi)! 

2. E, perciò, formulando una sorta di ossimoro a significato manifesto genericissimo, mediaticamente sbandierato come "positivo!", ma destinato a nascondere il perseguimento dell'unico obiettivo reso possinile, contro ogni logica di correzione congiunturale, ovverosia quello conforme all'assetto strutturale del capitale finanziarizzato che controlla totalitariamente le istituzioni (e fa uno strano effetto vedere il G20 che si fa fare la fotografia conclusiva di rito, tra risate e facete cordialità fra "grandi", tipo la Lagarde che accorre giocosa per sedersi accanto ad un banchiere centrale dopo aver, più o meno, litigato con Visco sul fatto che la crescita non si fa con la BCE ma con le riformeeeeee!...).

Ma si sa, "il principio di realtà e quello di piacere non sono da considerarsi antitetici, non agiscono in contrapposizione fra loro. Piuttosto il primo contribuisce a ridimensionare il secondo, costringendolo a tener conto di quelle che sono le condizioni reali di azione. Il principio di realtà non vieta al principio di piacere di esprimersi ma lo riporta entro certi limiti di azione". Epperbacco, l'importante sono i "limiti", anzi i "vincoli"!

3. Dunque, Lagarde e Schauble stigmatizzano che la mancata crescita deriva esclusivamente dalla consueta mancanza di tempestive e integrali riforme: perchè, insomma, "nuovi stimoli", provenienti dalle banche centrali, (in effetti con il prevedibile backfire del peggioramento delle condizioni, e la conseguente restrizione del credito, derivanti dai tassi negativi sulle riserve depositate presso le stesse BC), potrebbero essere controproducenti.
Ma il "problemino", certamente legato ai tassi negativi sui depositi overnight delle riserve bancarie presso le banche centrali, può essere risolto senza per questo impedire, ad esempio, alla BCE di acquistare categorie di titoli diversi da quelli sovrani, ma sempre ben dotati di rating, a discrezione di M.me Lagarde, dietro le quinte delle agenzie tanto attendibili: e tra questi ulteriori titoli, magari, quelli privati bancari, possibilmente legati alla cartolarizzazione dei crediti in sofferenza e, sempre possibilmente, italiani.

4. Apriti cielo preventivo!  
Ma, insomma, alla fine, dopo questi (fin troppo) significativi enunciati di complementari apparenze (memento semper: riforme=crescita!), bisognerà enunciare, a fine G20, la formulettta magica neo-liberista: soluzione win-win (il banco vince sempre ma non si deve capire "come") e obbligo di por mano a una nuova ondata di riforme.

L'importante è offrire la cosa in modo creativo e non far trasparire l'ottusità del voler negare l'efficienza causale delle riforme rispetto alla crisi, chiamatela pure da debt-deflation o da equilibrio perverso della sottoccupazione strutturata, che le riforme stesse hanno determinato...per cui la cura, come ci ostina a dire da oltre 20 anni, è sempre e comunque una dose aggiuntiva dello stesso veleno.

5. Mischiando l'accordo molto vago raggiunto con Juncker e le proposizioni ossimoriche uscite dal G20 (ed è già qualcosa che, a ben vedere, gli accadimenti della colossale crisi incombente, siano letti come a epicentro UEM, persino quando si parla di contrarietà alle nuove guerre di svalutazione monetaria, innescate dal QE di Draghi), La Repubblica mischia varie mezze verità e le connette a soluzioni che, per vaghezza, assomigliano, in un deja-vù umoristico involontario, appunto, al piano di investimenti di Juncker.
Che non ha risolto nulla - nè la mancata crescita nè la disoccupazione- e nè avrebbe mai potuto, e che non si sa che fine abbia fatto con tutte le sue maxi-iniziative che, più che alle imprese del barone di Munchausen assomigliano alla sindrome intitolata allo stesso: attribuisci al bambino o a te stesso la malattia inventata, in modo da "punire" infliggendo i rimedi desiderati e conformi ad una patologia simulata e non corrispondente al reale.

6. Il tutto da non confondere col trilemma di Munchausen, che si basa sull'intreccio di proposizioni apparentemente logico-dimostrative intese a sorreggersi reciprocamente, ma nessuna delle quali è dimostrabile: l'esempio pratico lo avevamo individuato per l'Italia in questo post:

PUD€ NEL TRILEMMA "COMPETITIVO". CREDIT CRUNCH, DEFLAZIONE SALARIALE, DEVASTAZIONE DEL TERRITORIO

Ma per cogliere la tragicomicità della situazione ci viene ora prospettato un (ennesimo) piano di salvezza della crescita proveniente da Padoan: ridurre le tasse e farlo in modo coordinato in UEM.   

Questo popolarissimo mantra, per la verità già perseguito con un certo successo nella nostra penisola (basti pensare agli 80-euri-80 ai redditi medio-bassi e allo sgravio fiscale triennale sulle nuove assunzioni che non si sa, o meglio ben si può immaginare, che esito avrà al suo termine di efficacia), avrebbe, a quanto pare, solide ragioni di opportunità politico-economica e La Repubblica ce le espone "tutte d'un fiato": 

"Anche perché - sono i ragionamenti di questi giorni - permane un effetto psicologico sui consumatori: tendono a non indebitarsi più e a mantenere una riserva di garanzia nei loro conti correnti. Si sentono ancora feriti da quello accaduto dal 2008 ad oggi. 

E non vogliono più correre rischi. Il secondo elemento, che costituisce la piattaforma "politica" su cui tutti i leader dell'Unione europea stano ragionando, è costituito dall'avanzare nei paesi occidentali dei fronti populisti e anti-austerity. E dal rischio "instabilità". L'ultimo esempio è stato offerto dall'Irlanda. Nelle elezioni di venerdì scorso - nonostante le recenti buone performance economiche di quel Paese il cui Pil cresce del 7% - la coalizione di governo non solo è uscita sconfitta, ma sono stati premiati proprio i partiti che più hanno attaccato i sacrifici imposti negli anni precedenti. Risultato: ingovernabilità. 

Una condizione temuta anche in Spagna dove il ritorno alle urne è ormai un'opzione concreta. In Francia, dove l'ultima tornata amministrativa ha messo in crisi lo storico sistema bipolare a favore della destra di Le Pen. In Gran Bretagna, dove il prossimo referendum sull'adesione all'Ue è un macigno pesantissimo. E nel nostro Paese dove le forze antisistema formano un blocco permanente che supera il 30 per cento degli elettori. Ma anche negli Usa dove il successo di Trump sta scuotendo il Partito Repubblicano. E forse non è un caso che la recente proposta "rigorista" del ministro tedesco della Finanze Schaeuble di imporre il tetto del 25 per cento ai bond detenuti dalle banche, sia stata rapidamente respinta."

 

7. Ullalà! E' questo che intendevano Schauble e la Lagarde con accelerare sulle riforme? Dipende... 

Considerata la natura delle riforme, la goldenstraightjacket ideata dal Washington Consensus ed evolutasi nelle condizionalità a carico dei debitori deliberatamente resi tali attraverso i vincoli monetari, pare proprio di no. A meno che....

Il "problemino", è la copertura degli sgravi. Ovviamente un po' più serio in Italia che non in Francia (dove continua imperterrita la Vaudeville del deficit NEL fiscal compact the French Way), o in Irlanda, o in Spagna: da noi la manovra fiscale "in pareggio di bilancio" (al netto del saldo primario e sulle entrate e uscite correnti di bilancio, beninteso), e, infatti, tesa a realizzare surplus di pubblico bilancio record del mondo, è un'abitudine; anche se poi, appena possono, ci rammentano del debito/PIL che in tutta questa austerità aumenta - e ci mancherebbe, benedetti figliuoli! Noi obbediamo continuando a tacere.

 

8. Mentre, tutta l'UEM continua nello "svacco" del deficit a piacere (come le domande all'esame dello studente che non ha palesemente studiato),  insomma, l'Italia prova una mossa astuta:sgravi fiscali omogenei per tutti e si dovrebbe sperare deficit eguali per tutti, implicitamente dando nuovo vigore alla flessibilità per riforme

Ma attenzione: è una mossa alquanto disperata, essendoci di mezzo l'ital-tacchino da spennare definitivamente, via bail-in che rende tutti insieme debitori patrimonialmente responsabili i correntisti italiani e le loro proprietà immobiliari.

Dunque, nel ragionamento, forse per non doversi sentire dire di no da subito (basterà farselo dire "dopo", e magari ottenere una flessibilità ripetibile di 0,2, dicasi 0,2, punti di PIL per qualche annetto di rallentata liquidazione del nostro sistema produttivo), si mettono un po' le mani avanti. Sentite come, nella cronaca di Repubblica "ci si aggira":
"Nelle bozze in esame, infatti, nessuno prende in considerazione l'ipotesi limite di scorporare dal calcolo del deficit i soldi stanziati per far scendere la pressione fiscale. L'idea, semmai, è quella di rendere ancora più cogente la regola della "flessibilità". Del resto, già nelle due ultime leggi di Stabilità l'Italia ha usato alcune clausole - come quella per le riforme - al fine sostanziale di provare a comprimere le imposte. Si tratta di un percorso, nel quale a Trattati invariati si incida su tutte le alternative che gli stessi Trattati già presentano. Secondo Palazzo Chigi, ad esempio, questo è stato il percorso seguito con la discussa misura sugli 80 euro. Ma altre strade sono percorribili nel pacchetto di normative europee. Con un solo obiettivo: tagliare le tasse e mantenere inalterati i simboli dei parametri europei".

 

9. E, infatti, poi viene il bello: che è l'enigma di come diavolo faccio a non decrescere una volta, che, Haveelmo docet, il moltiplicatore del taglio della spesa pubblica sia il doppio di quello dello sgravio fiscale, (cosa che, a lume di naso, sta affondando la Grecia in modo accelerato):
"In tutte le ipotesi esaminate, comunque, viene scartata la possibilità di finanziare il taglio delle tasse con la sola sforbiciata alla spesa pubblica. La spending review non può essere sufficiente. Anche perché il governo registra un effetto boomerang sul Pil: almeno un terzo della riduzione della spesa si riflette sulla mancata crescita (...???) I dati offerti dall'Economia indicano per il 2016 la possibilità di incidere in negativo sul Prodotto interno lordo per lo 0,5 per cento. Ma la partita fiscale è solo all'inizio."

 

10. Come, come, come?  

Perché (solo) un terzo della riduzione della spesa si riflette sulla mancata crescita? 

Se taglio la spesa pubblica, QUALUNQUE SIA IL TIPO DI SPESA PUBBLICA CHE TAGLIO, la riduzione del PIL sarà pienamente corrispondente al doppio dell'espansione dello stesso sperata dai tagli alle tasse che avrò così finanziato (certo, poi, potrebbe andare peggio, a seconda del periodo di riscontro degli effetti che considero e del tipo di spesa, corrente o in conto capitale, che taglio, ma tendenzialmente questo è il risultato invariabile che ottengo). 

Il concetto di effetto boomerang, però, entra nel lessico del giornalone di turno. Sarebbe già qualcosa rispetto a debito-pubblico-brutto-stato-minimo-bello-sprechi-casta-corruzione

Forse perché quelli che, almeno in Italia, qualcosina ancora contano, hanno cominciato a dire:  

THE €URO CHALLENGE: TRA BOOMERANG E REDDE RATIONEM PER L'ITALIA (REMEMBER SINN)

"Non possiamo sacrificare sull’altare del “vincolo europeo” anche quello che di buono abbiamo in Italia. Sicuramente non possiamo sacrificare la nostra Costituzione. E neanche la “salute” della nostra economia: avere banche solide è essenziale per avere una economia sana e vigorosa. Se dobbiamo scegliere tra Weidmann e Calamandrei non abbiamo dubbi: noi scegliamo Calamandrei e i nostri padri costituenti che recepirono la necessità di “scolpire” nella nostra Costituzione la tutela del risparmio."
Queste righe sono state scritte da un banchiere su un giornale locale di proprietà del gruppo L'Espresso. Evidentemente qualcuno sente chaud aux fesses (pardon my French...). Sarà abbastanza per smuovere veramente qualcosa?"
E consoliamoci, perchè per la Grecia il boomerang era andato molto peggio:

IL BOOMERANG (INEVITABILE) DI UN REFERENDUM QUANDO LA SOVRANITA' COSTITUZIONALE SIA GIA' COMPROMESSA

 

11. Temiamo però che il wishfulthinking de La Repubblica sia un po' troppo ottimista. Diciamo che assomiglia alla "metafera" del solito barone di Munchausen che si tirava fuori dalle acque della palude traendosi per i suoi stessi capelli.

Ma nella nuova €uropa che ha paura dei "populismi", l'ostinazione a vincere facile non può essere minata da un piano..."italiano", per di più. 

Sia quel che sia, i grandi trasferimenti, cioè l'ital-tramvata, devono aver luogo...e valgono, agli occhi dei partners "solidali", molto di più della paura dei "populismi": che, curiosamente, fanno più paura in Italia dove, pure, sono ben meno incisivi che negli altri paesi che, alla fine dei conti, possono comunque spolpare l'Italietta acquiescente ed €urofila uber alles.

Il conto alla rovescia è già iniziato. Draghi o non Draghi...

venerdì 26 febbraio 2016

FINANZIAMENTI COMUNITARI: CONDIZIONALITA' SENZA FRONTIERE (almeno per l'Italia)


1. Oggi segnaliamo la pubblicazione del libro di Romina Raponi il cui titolo è lo stesso di questo post (e di cui vedete la copertina nell'immagine di apertura). 
Alberto Bagnai, autore della prefazione al libro, ha già fatto una incisiva recensione a cui rinviamo.

In questa sede faremo qualche approfondimento sulla concreta attualità del libro e per vari buoni motivi:
a) il libro è appena uscito, (teorica disponibilità in libreria e sui vari siti di acquisto on line), il 25 febbraio, cioè ieri;
b) l'autrice altri non è che Sofia, autrice di tanti interessanti (e straordinariamente accurati) post su questo blog. 
Insomma, ci mancherebbe che non fosse qui ospitato il suo libro che, in termini di approccio generale, è anch'esso (come "La Costituzione nella palude") figlio legittimo di questo stesso blog;
c) quello che espone il libro non solo getta luce su aspetti "insospettabili" della realtà della finanza "para-fiscale" €uropea, in quanto accuratamente "rimossi" dalla grancassa ital-mediatica pop, (ordoliberista-autorazzista e anti-Stato democratico-costituzionale), ma viene curiosamente confermato dalla cronaca degli stessi giorni in cui esce il libro. 


2. Migranti, il ministro degli Esteri polacco a Radio 24: «Renzi ci ricatta. si informi prima sui fatti»
"Il Ministro degli Esteri polacco Witold Waszczykowski in un'intervista a Radio 24, il Ministro degli Esteri polacco Witold Waszczykowski attacca il governo italiano e il premier Matteo Renzi.
L'ipotesi del premier italiano Renzi di un taglio dei fondi strutturali ai Paesi dell'Est che bloccano i ricollocamenti dei migranti «è un ricatto, totalmente ingiustificato, che deriva da una mancanza di conoscenza. I fondi strutturali europei sono parte dei Trattati Ue. Renzi non li può cancellare. Il premier Renzi probabilmente non sa che per ogni euro che arriva dall'Europa in Polonia, 70-80 cents ritornano a Ovest. In secondo luogo, il problema dei migranti e dei rifugiati non ha nulla a che vedere con le politiche europee, è una prerogativa nazionale e di sicurezza. Infine, il premier Renzi non sa che la Polonia ospita già un milione di ucraini sul proprio territorio. Consiglio a Renzi di informarsi sui fatti. Confido che la mia visita a Roma a marzo migliorerà la sua opinione sulla Polonia».
Alla domanda di Sergio Nava di Radio 24 su come Varsavia reagirebbe nel caso l'Italia desse seguito all'ipotesi di taglio dei fondi UE, il Ministro degli Esteri polacco Witold Waszczykowski ha così risposto: «È impossibile legare fondi UE e migranti, va contro i Trattati. Inoltre, la solidarietà è bidirezionale: se si chiede a noi di essere solidali sui migranti, voi dovete essere solidali sul fronte orientale, dove c'è un conflitto tra Ucraina e Russia, migliorando la sicurezza della Polonia. Manderete qui le vostre truppe? Se lo fate, possiamo discutere di altre questioni. Ma la solidarietà deve essere bidirezionale».

3. Il punto che sfugge all'intervistatore (cioè la realtà dei "fatti" su cui il ministro invita da informarsi), e che ben poteva essere approfondito, è che la questione dei migranti non è affatto impossibile da legare ai fondi UE quali previsti dal Trattato: si tratta infatti, in particolare a norma dell'art.174 TFUE (norma giustificativa della parte più importante dei c.d. fondi strutturali), di una materia strettamente connessa alla "coesione economica, sociale e territoriale" e che influenza, a seconda delle condizioni di mercato del lavoro (cioè di livello della disoccupazione) in cui il flusso di migranti interviene, proprio la possibilità di "ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite". Tant'è vero che il "Fondo europeo di sviluppo regionale è destinato alla correzione dei principali squilibri regionali esistenti nell'Unione, partecipando allo sviluppo e all'adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo nonchè alla riconversione delle regioni industriali in declino" (art.176 TFUE).

4. E qui già si possono segnalare rilevanti aspetti di politica economica indotti dall'adesione all'UE che ben rendono legittimo per l'Italia ridiscutere i fondi strutturali, senza che si possa oggettivamente negare il legame dei loro obiettivi (riequilibrare le differenze strutturali tra aree economiche di diversi paesi in funzione di una coesione sociale complessivamente intesa come obiettivo fondante dell'Unione) con la enorme rilevanza che l'immigrazione ha sul mercato del lavoro e sulla conseguente crescita economica, che ne viene inevitabilmente influenzata sotto molteplici aspetti, demografici, deflattivo-salariali, di spesa fiscale, di sostenibilità del suo immediato impatto sociale e finanziario (come ben sa la Merkel nei suoi disegni quantomeno iniziali):

a) la Polonia è fuori dall'area euro e perciò può fruire di una flessibilità del cambio che, in termini di crescita e di sviluppo, ha consentito di registrare risultati ben diversi da quelli italiani, ponendo drammaticamente un'assoluta priorità di riequilibrio proprio delle aree svantaggiate del sud d'Italia. Un riequilibrio che può essere realizzato SOLO  attraverso politiche strutturali autonomamente adottate dallo Stato italiano, nell'ambito di doveri che sono sanciti dalla stessa Costituzione, ma che sono precluse sia dal sistema fiscale imposto dall''€uropa sia, in aggiunta, dai saldi (svantaggiosi e in forte passivo) rigidamente stabiliti dal sistema stesso dei fondi europei;
b) la  Polonia, pur fruendo dell'enorme vantaggio della maggior elasticità valutaria e fiscale che deriva dalla mancata adesione alla moneta unica e avendo registrato progressi nello sviluppo e nel risanamento strutturale, a differenza dell'Italia (afflitta, a seguito del consolidamento fiscale e poi dell'austerità, imposte dall'UE-UEM dai problemi esattamente opposti), è un contribuente passivo ai vari fondi derivanti dal bilancio dell'UE, mentre l'Italia è un forte contribuente netto.

5. Ergo, la solidarietà, una volta ricostruiti (per sommi capi) i fatti salienti che caratterizzano la situazione economico-fiscale dei vari paesi, dovrebbe logicamente agire in senso esattamente opposto a quello richiamato dal ministro polacco. E proprio nell'ambito di quel coordinamento delle poltiche economiche e sociali che i fondi europei e, più in generale il trattato, impongono ai vari Stati aderenti: chi ha registrato più crescita e più sviluppo dovrebbe venire incontro ha chi incontra difficoltà, come l'Italia, e per di più proprio in quanto rimane nel quadro delle regole europee (anche se la Commissione ne adotta, solo nei confronti dell'Italia, una interpretazione rigidissima e distruttiva di ogni futura possibilità di crescita)

6. Ma più ancora, e qui torniamo al tema del libro, una volta correttamente posta la questione in termini di dovuto coordinamento delle politiche economiche al fine di non acuire gli squilibri, la Commissione UE ha ritenuto che la condizionalità legata ai fondi- cioè l'insieme delle regole di adeguamento imposte ai percettori degli stessi, SPECIE SE PERCETTORI NETTI COME LA POLONIA, se il principio solidaristico e l'equità sostanziale hanno un senso all'interno dei trattati- non è solo "interna" (cioè connessa all'insieme degli obiettivi e delle modalità di impiego dei fondi) ma anche esterna, cioè, e questo è una delle rivelazioni più significative elaborate nel libro, apportatrice di obblighi di adeguamento relativi alle politiche economico-fiscali generali dei paesi aderenti all'UE.

7. Vi riporto perciò il passaggio del libro dove ciò viene chiarito sviluppandone poi una serie di conseguenze e corollari (economico-normativi) che gettano una luce "inquietante" sulla conservazione della sovranità e, specie per un paese come l'Italia che sia un forte contribuente netto (cioè che dà all'UE molto più di quanto possa mai ricevere), sulla legittimità costituzionale di un sistema di "solidarietà" che funziona, per l'Italia, solo in "uscita" e verso gli altri, pur essendo l'Italia sottoposta a condizionalità così incisive e che ne limitano la crescita e lo sviluppo oltre qualsiasi metro di ragionevolezza.
Le "condizionalità" sui fondi europei cui è parso alludere il premier italiano, in questo quadro, appaiono obiettivamente più che legittime e previste dalla disciplina derivante dai trattati. Certo, riuscire da attuare questo indirizzo dipende dalla forza politica e dalla capacità di "ascolto", da parte delle istituzioni UE, di chi le propone...ma non pare consentito parlare di ricatto: a meno che anche l'Italia non possa invocare questa terminologia rispetto al tipo di condizionalità che qui di seguito è illustrata:
"paragrafo 7.2.
...tra le condizionalità vi è anche quella che attiene al coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri e al rispetto dei parametri macroeconomici e di finanza pubblica previsti nell’ambito della governance economica[1]...

Infatti la Commissione europea, può chiedere a uno Stato membro di rivedere l’accordo di partenariato[1] e i relativi programmi operativi, ove necessario per renderlo coerente con i documenti strutturali del Semestre europeo, ossia il programma nazionale di riforma (PNR), il Programma di stabilità e di convergenza, l’Analisi annuale della crescita, la Relazione sul meccanismo di allerta e le Raccomandazioni specifiche per Paese (CSR - Country Specific Recommendations) adottate dal Consiglio sulla base dei medesimi programmi e rivolte a orientarne la politica economica in coerenza con gli indirizzi europei sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici (ad esempio con riferimento al patto di stabilità e agli impegni sulla riduzione del deficit di bilancio), o finalizzata a massimizzare l'impatto dei Fondi SIE sulla crescita e sulla competitività.
............
Tali Raccomandazioni, che hanno la propria base giuridica negli artt. 121 e 148 del TFUE (per quanto attiene rispettivamente alla rispondenza delle politiche economiche degli Stati membri agli indirizzi di massima elaborati dal Consiglio e agli orientamenti cui attenersi in materia di occupazione), rappresentano l'atto conclusivo del Semestre europeo e un elemento fondamentale del coordinamento e della sorveglianza delle politiche macroeconomiche degli Stati membri in cui consiste il c.d. "braccio preventivo" del Patto di stabilità............... 
...mentre con il sistema delle osservazioni agli accordi di partenariato (di cui si dirà) l’UE finisce per richiamare gli Stati affinché si attengano strettamente agli obiettivi fissati soprattutto nel QSC, attraverso le raccomandazioni finiscono per imporre l’inserimento del raggiungimento di finalità ben più ampie nell’ambito dei programmi relativi ai finanziamenti comunitari.
Sostanzialmente, attraverso le raccomandazioni, l’UE impone modifiche strutturali al sistema normativo e amministrativo interno dello Stato membro (lavoro, pensioni, istruzione, organizzazione della pubblica amministrazione ecc) e a garanzia del rispetto delle stesse; i contratti di partenariato finiscono per esserne influenzati e condizionati tanto da prevedere la sospensione e/o la revoca dei finanziamenti in caso di mancata esecuzione delle raccomandazioni."




[1] Regolamento (UE) n. 1303/2013, art. 23, comma 1. È interessante osservare il permanere della dizione «contratto», laddove tutto il Regolamento ricorre, nel testo italiano, al termine «accordo». Probabilmente una svista di traduzione.


[1] Regolamento (UE) 1303/2013, art. 23.

Paragrafo 7.3.

Le condizionalità strettamente intese entrano a pieno titolo nel campo dei fondi strutturali a partire dal processo di riforma della governance promosso dal «Rapporto Barca»[1], delle quali costituiscono uno dei 10 pilastri su cui si articola la proposta di lavoro. L’apporto dei Fondi è ricondotto a un approccio place-based di tipo «contrattuale» fra Commissione e singoli Stati membri.
Da un lato, si disegna un insieme di condizionalità ex ante, rivolte a garantire che gli Stati membri/le istituzioni beneficiarie locali dispongano di risorse normative e organizzative tali da garantire piena adesione alla strategia della UE ed effettiva realizzabilità degli investimenti sostenuti dai Fondi.
Gli attori sono dunque vincolati a una analisi preventiva dello stato delle condizioni richieste e, in caso di non conformità, alla assunzione di obbligazioni rivolte al loro allineamento.
Dall’altro lato, una quota di risorse è assegnata attraverso un meccanismo di natura premiale, a fronte del dimostrato raggiungimento di determinati obiettivi di programmazione.
…………..
La Commissione ‹‹valuta la coerenza e l'adeguatezza delle informazioni fornite dallo Stato membro sull'applicabilità delle condizionalità ex ante e sull'adempimento di dette condizionalità nell'ambito della sua valutazione dei programmi e, se del caso, dell'accordo di partenariato››[2].
………….
In linea teorica le condizionalità non si dovrebbero tradurre in prescrizioni, ma in valutazioni oggettive. Eppure lo stesso sistema sanzionatorio previsto in caso di mancato raggiungimento comporta che non si possa che trattare di prescrizioni vincolanti.
…………….
A contrario, qualora la verifica dimostri che ‹‹vi è stata una grave carenza nel conseguire i target intermedi di detta priorità inerenti esclusivamente a indicatori finanziari e di output, nonché alle fasi di attuazione principali stabilite nel quadro di riferimento dell'efficacia dell'attuazione››, la Commissione può sospendere del tutto[3] o in parte un pagamento intermedio relativo a una priorità di un programma[4], sino alla soppressione del programma stesso, secondo la procedura di cui alle norme specifiche di ciascun Fondo.
……………
Fino ad arrivare al sistema di condizionalità su visto del 2013 altrettanto fumoso, da cui non possono che nascere alcune considerazioni: l’UE, consapevole – sulla base delle esperienze pregresse – di non riuscire a fornire alcuna giustificazione in merito al mancato raggiungimento degli obiettivi fissati prima a livello di QFP e poi QSC (anzi, le Relazioni del periodo 2007-2013 su viste finiscono per essere la totale ammissione del fallimento delle politiche europee di cui, il sistema di finanziamenti comunitari, è solo uno strumento), sia per l’insufficienza del bilancio europeo sia per l’inadeguatezza del sistema dei finanziamenti, ha finito per spostare l’onere della dimostrazione del raggiungimento degli obiettivi direttamente sugli Stati.
Attraverso il sistema di condizionalità, se risulta che gli obiettivi non sono raggiungibili o non sono stati raggiunti, la «colpa» non potrà più essere attribuita alle politiche europee, al sistema di bilancio europeo, all’inadeguatezza del sistema di apparenti trasferimenti operati con i fondi comunitari, ma sarà ricondotta agli Stati e alle inefficienze di questi.






[1] Barca F. (2009), An Agenda for a Reformed Cohesion Policy. A place-based approach to meeting European Union challenges and expectations, Independent Report prepared at the request of Danuta Hübner, Commissioner for Regional Policy, working document
[2] Regolamento (UE) n. 1303/2013, art. 15, comma 3.
[3]Reg. UE 1303/2013 art. 142 prevede la sospensione nel caso in cui «non siano portate a termine azioni volte a soddisfare una condizionalità ex ante secondo le condizioni fissate all'articolo 19».
[4] Regolamento (UE) n. 1303/2013, art. 15, comma 5.

mercoledì 24 febbraio 2016

"IL SEGNALE" E LA SOPRAVVIVENZA: IL RIPIEGAMENTO ANTI-AUSTERITA' E' GIA' DISPERATAMENTE INIZIATO


https://ilmalpaese.files.wordpress.com/2016/01/10931554_10152690919972903_2483055322693906559_n.jpg?w=600

1. Vorrei partire da questa notizia; ovvero, da chi e "come" l'ha data (le notizie sono i fatti per come interpretati dai media: prima di tutto sulla loro rilevanza e poi con riguardo al risalto e al contesto in cui porli in evidenza. Frame e spin dominano e non lasciano alcuno scampo ai "fatti" intesi come dati della realtà storicamente oggettivi, comunque inevitabilmente selezionati):

Questa "notizia" è la conseguenza naturale di un frame spinnato senza risparmio a livello "sovranazionale" (ma probabilmente ben alimentato dall'interno, da forze nazionali disparate ma mosse da convergenti interessi): 
Ci sono segnali che ci dicono che la pazienza dell’Italia con la Ue e la Germania, in particolare, si sta esaurendo il primo ministro Matteo Renzi ha attaccato apertamente le politiche della Ue in materia di energia, sulla Russia, sul deficit di bilancio e sul dominio tedesco dell’intero apparato. Non è solo la crisi dell’euro che ha portato l’Italia sull’orlo di mettere in discussione la sua posizione nell’Eurozona. Si tratta di una combinazione di più crisi ed è probabile che crescerà dal dibattito sulla Brexit”.
Si tratta di un modo tortuoso, tipicamente neo-liberista, di esporre il problema (Munchau si aggira sull'euro sempre per criticarlo a metà: l'inadeguatezza dei PIGS non è mai in discussione veramente).

2. "The Economist", il grande inquisitore a cui la sinistra italiana affida il proprio specchiarsi nell'approvazione internazionalista di cui si fanno vanto (quando c'è), aveva iniziato molto prima:

Saltando gli attacchi "intermedi", oggi lo stesso intensifica lo spin:

In quest'ultima occasione, il succo,  è questo: uno slogan rituale, applicabile a qualsiasi governo italiano che volesse anche solo sopravvivere elettoralmente: 
"But Italy’s tremendous national debt leaves it little credibility to demand the freedom to spend more and tax less. And apart from Mr Renzi’s vague calls for a “more socially oriented Europe”, his alternative to the current EU remains frustratingly unclear.").

3. In tutte queste "evidenze", la proposta-risposta italiana viene progressivamente ricalibrata
Infatti, alle posizioni iniziali, riportate qui sotto (relative a bad-bank e fondi aggiuntivi per la Turchia, perchè sappiamo come, in entrambi casi sia andata a finire):

consegue, come abbiamo visto, un duplice arretramento: alquanto inglorioso e significativo del velleitarismo di iniziative improntate all'autonomia della linea politica italiana, anche quando ne vanno di mezzo i più importanti e sensibili interessi nazionali (cioè la possibilità di evitare il tracollo sistemico del sistema bancario ed economico nonché di evitare una destabilizzazione sociale da immigrazione, in situazione di economia stagnante o sull'orlo di un riacutizzarsi della recessione).

3.1. Si va quindi a questa "mossa", più o meno ufficiale, che manifesta un'intenzione italiana, rigorosamente unilaterale, di aprire un ampio negoziato (successivo a quello sulla Brexit; questa, a sua volta, a effetti fantomatici e inconcludenti): 
"...La questione numero uno è l’Unione bancaria. L’entrata in vigore del «bail-in», ovvero l’obbligo di far pagare il fallimento delle banche a chi ne è azionista o (ricco) correntista, è in linea di principio è una buona idea: attenua i rischi di domino finanziario, e il legame fra rischio sovrano e rischio bancario. Ma può funzionare se nel frattempo da Berlino parte la richiesta di porre un limite al possesso di titoli statali nei bilanci delle banche e si rimanda al 2028 l’istituzione di una garanzia comune sui depositi? «Per i tedeschi ognuno dovrebbe agire per conto suo: i depositi tedeschi garantiti dai tedeschi, gli italiani dagli italiani», diceva Padoan in una intervista alla Stampa poco prima di Natale. «Ma se non si condividono i rischi nel lungo termine non sopravvivrebbe nemmeno l’unione monetaria». Di recente il governatore della Bundesbank Jens Weidmann e il suo collega francese hanno proposto l’istituzione di un ministro del Tesoro europeo con forti poteri di controllo sui bilanci nazionali.  
«Per fare quel mestiere c’è già la Commissione», sottolinea una fonte del Tesoro. Il governo considera quella posizione la classica fuga in avanti di chi vuol farsi dire no
Il documento formula una proposta diversa: una figura al quale dare il potere di gestire risorse comuni, assicurare la stabilità finanziaria ed evitare gli squilibri macroeconomici fra i Paesi dell’Unione. Si scrive squilibri, si legge Germania: da tempo l’Italia (ma lo ha fatto ufficialmente anche la Commissione) lamenta l’enorme surplus commerciale di Berlino. 
La Germania esporta più di quanto venda in patria, limitando di fatto le opportunità di crescita e occupazione fuori dei suoi confini. I chiodi fissi di Padoan sono crescita e occupazione, impossibili da ottenere oggi senza un aumento degli investimenti pubblici.  
Il documento non può dire che il piano Juncker è un flop, ma chiede un passo avanti: l’introduzione dei project bond, titoli di debito europei per finanziare infrastrutture comuni. 
Infine c’è il tassello della libertà di movimento: senza Scenghen, e senza un sussidio di disoccupazione europeo, finirà per venir meno. La proposta italiana prevede un sostegno di almeno sei mesi pari al 40 per cento del salario percepito. «Bisogna convincere i cittadini che l’Europa non è il problema ma è parte della soluzione», dice spesso Padoan. Un vasto programma, di questi tempi.

4. Ci si potrebbe chiedere che risposta abbia avuto questa proposta che, tra l'altro, non intende, esplicitamente, modificare i trattati
Eccola qui la risposta, in termini molto pratici, al 23 febbraio 2016. Cioè un chiaro "intanto che fate i compiti, le regole non si toccano":
"Il Country report sull'Italia che sarà diffuso mercoledì evidenzia che la spending review è stata poco efficace e fare business è più difficile che altrove a causa di inefficienze e corruzione (!!!). Risultato: "La debolezza strutturale della Penisola potrebbe avere conseguenze sulle altre economie europee".
"Sono, secondo le anticipazioni de La Stampa, alcuni dei punti principali del Country report della Commissione Ue sull’Italia che sarà inviato a Roma mercoledì, due giorni prima del vertice tra il premier Matteo Renzi e il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker."
5. E dunque? 
Ebbene, appare più utile, per comprendere, tornare alla notizia iniziale sulle risatine della stampa estera...
Se la bad bank è sfociata in un compromesso al ribasso a imposizione €uropea, e non decolla ancora (ma tanto non è realmente risolutiva, incidendo su una parte degli effetti e lasciando inalterate le cause), se la politica aperturista verso il finanziamento aggiuntivo del "tappo turco" all'emigrazione dei rifugiati, risulta una mossa a dir poco improvvida, se la "grande riforma" ad iniziativa italiana non sposta di un millimetro la Commissione e, prevedibilmente, il Consiglio UE, dalla consueta litania su debito, inefficiene e corruzione...che si fa
Ebbene, si ricorre alle ulteriori riforme
Le più complete e avanzate possibili che possano risultare gradite agli USA che, nonostante wikileaks, rimangono il "protettore" di ultima istanza che ha la forza di impedire (o di non innescare) il ripetersi del trattamento Berlusconi; col ripetersi di un "piano Geithner" come nel 2011 e la Germania, più ancora che la Francia, esecutrice: occorre rammentarlo.
6. Ecco allora, il segnale, opportunamente posto in risalto proprio sulla stessa fonte che spinna le "risatine"; un segnale che appare riferirsi agli uomini ma in realtà allude ai "programmi":
Non è infatti difficile esplicitare gli sviluppi di questi temi programmatici.
La legge sulla rappresentanza sindacale allude alla riforma d'imperio (cioè promossa dal governo bypassando le parti sociali) della contrattazione collettiva e all'introduzione di quella decentrata a livello aziendale; essa trova il suo naturale complemento, deflattivo, nel salario minimo, cioè nel livello di fondo che prescinde dalle qualifiche e dalle progressioni della ex-contrattazione collettiva, e che pone dunque un tetto solo alla caduta dei salari che la disarticolazione sindacale di categoria implica naturalmente. 
7. Cioè, l'occupazione neo-ordo-liberista è quella che porta a una strisciante riduzione dell'occupazione "buona" (quella capace di attenuare la crescita esponenziale dei working poors e la caduta della domanda interna), accentua la deindustrializzazione e la perdita delle competenze, come si addice a un'area coloniale.
La riforma del fisco, in questa ottica di "obbedienza" (ormai rassegnata), è un modo, all'interno dell'0vvio linguaggio della "illusione finanziaria" di predisporre una manovra super-correttiva in funzione degli obiettivi intermedi (già programmati) di pareggio strutturale di bilancio: si tratterebbe dell'aumento dell'IVA, della drastica riduzione di detrazioni e deduzioni fiscali e della riforma del catasto per aumentare le basi imponibili dell'imposizione patrimoniale.
Il tutto già programmato, appunto, nel Def dell'aprile dello scorso anno e in parziale stand-by per quest'anno, in attesa di un responso sulla "flessibilità" €uropea che sembra ormai, nella visione ridivenuta pragmatica del governo, un discorso chiuso,
8. Gli USA vogliono l'UE, vogliono l'euro - magari in cambio di una mano sugli esiti potenzialmente disastrosi dell'Unione bancaria, attraverso la longa manus del "clemente" Draghi, forse indotto a "nuove tipologie di acquisti" nell'ambito del QE- e ammettono solo esecutori "efficienti" (appunto non come Berlusconi nel mirino nel 2011) delle inevitabili riforme.
Altrimenti, altro che risatine! 
Salviamo il salvabile, dai...

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lunedì 22 febbraio 2016

L'EURO-CONTINUITA' LIBERISTA: DETERMINISMO ATTIVAMENTE NICHILISTA IN QUANTO COSTRUTTIVISTA

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Questo post di Bazaar è complesso e va riletto più volte (comprese le note a piè di pagina, che ho in parte integrato per una migliore comprensione di chi volesse approfondire). Ma ne vale la pena. 
Non credo abbia bisogno, il post, di ulteriori commenti introduttivi: tratta di temi che, in questo blog, ricorrono continuamente e cerca di farne il punto. Teorico ma anche molto pratico. 
La "continuità" dell'aspirazione strutturale neo-liberista è un processo in evoluzione, ma costante nei suoi principi informatori: questi implicano un'idea riduzionistica dell'Uomo che tendono a realizzare "ad ogni costo": da qui il costruttivismo che caratterizza i suoi esiti totalitaristici conformi alle sue irrinunciabili premesse.
Perciò, calato nella Storia, assume forme (sovrastrutturali) solo apparentemente nuove, sicché nulla è più fuorviante, - e genera l'incapacità delle democrazie di impedire "che tutto questo si ripeta"-, che combattere, o stigmatizzare ritualmente, le sue forme "vecchie" (precedenti) come fossero una deviazione, peggio ancora se vista come irrazionalismo inspiegabile
Nei meccanismi che contraddistinguoo il liberismo, si tende irresistibilmente a raggiungere sempre lo stesso "equilibrio allocativo", proiettato su dimensioni crescenti - ovvero, oggi, mondialiste-, e a riprodurre la stessa natura gerarchica che disconosce l'eguaglianza sostanziale; cioè nega, implicitamente ma necessariamente, il valore della vita dei singoli individui (esseri umani in quanto tali), in favore dell'eguaglianza formale, che è solo un altro modo, socialmente accettabile (e solo in certe fasi) per denominare la gerarchia anti-umanitaria.
(Le parti in campo giallo corrispondono alle variazioni dell'ultima versione rielaborata da Bazaar).




1 – Le scienze sociali: struttura e sovrastruttura.

« Se c'è qualcosa di certo, è che io non sono marxista », Karl Marx, 1882

Si è visto come rispetto a qualsiasi “maschera indossata” per confondere gli avversari nel conflitto distributivo (streghe, untori, “politici corrotti”, ebrei, musulmani, rettiliani, ecc.) la società gerarchizzata vede impersonalmente un conflitto permanente in cui l'identità di classe, la coordinazione e – in definitiva – la coscienza sociale non sono diffuse equamente. Ovvero esiste una determinante asimmetria informativa tra la classe dominante e quelle subalterne.

Se esiste una classe sociale dominante – che politicamente “cospira” per definizione, indipendentemente dalle Istituzioni contestuali al momento storico – esiste anche una gerarchia sociale che tendenzialmente manipola cultura e informazione in modo più o meno marcato: in un regime totalitario, ovviamente, il “marcato” diventa totale.

Braudel sosteneva che: «Quando vogliamo spiegare una cosa, dobbiamo diffidare ad ogni istante della eccessiva semplicità delle nostre suddivisioni. Non dimentichiamo che la vita è un tutto unico, che anche la storia deve esserlo e che non bisogna perdere di vista in nessuna occasione, neppure per un attimo, l’intrecciarsi infinito delle cause e delle conseguenze. […] Noi studiamo la società e al nostro studio, in quanto tale, non possono bastare i mezzi di ogni singola scienza presa separatamente»

Ovvero la complessità sociale vuole un approccio multidisciplinare[1].

Affinché questo “tutto unico” possa essere analizzato negli aspetti principali in cui si declina, è necessario utilizzare una qualche forma di riduzionismo; ovvero ridurre la varietà dei criteri ad un unico modello semplificato.

«La vita è fatta di correnti che scorrono a velocità diverse: alcune […] mutano di giorno in giorno, altre di anno in anno, altre di secolo in secolo. [] geografia, civiltà, razza, struttura sociale, economia e politica. Tale classificazione si basa sulla velocità, più o meno grande, che caratterizza le diverse storie: all’inizio della serie, al massimo livello di profondità, le più lente, le meno condizionabili dall’intervento dell’uomo; alla fine, quelle che sono maggiormente influenzate, ovvero l’economia e la politica.»

La storia delle civiltà può essere quindi analizzata con diverse metodologie come la geopolitica, l'approccio etnico – di cui la teoria delle razze è la sua variante “estrema” – il liberalismo o il marxismo. Anche le religioni propongono propri modelli riduzionisti.

Liberalismo e marxismo riducono le dinamiche storiche all'economia: quella che, prendendo in prestito gli strumenti cognitivi messi a disposizione da Marx[2], viene definita struttura: l'organizzazione della società gerarchizzata in funzione del modo di produzione. Ovvero «l’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale»

Il modo di produzione «condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita».

Con sovrastruttura si intendono «tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato» così come le ideologie, condizionanti la percezione del reale e con funzione anestetizzante rispetto la dissonanza cognitiva degli individui e dei gruppi sociali che le subiscono passivamente. L'ideologia introiettata diviene falsa coscienza.

Hayek non si è inventato niente, ha solo ricordato ciò che è sempre stato pacifico sia tra i liberali – esotericamente – sia tra i marxisti, essotericamente[3].

Ovvero, anche tra i liberali – con buona pace di Popper – è comunemente accettato il “materialismo storico” (che di base nulla ha a che fare con l'ateismo, a differenza di ciò che credono alcuni “tradizionalisti”: mentre ha molto a che fare con le istituzioni religiose).

Questa convergenza economicistica tanto liberale quanto marxiana illumina anche il motivo per cui la nostra Costituzione trova la sue norme fondanti a tutela dei diritti fondamentali proprio nella cosiddetta costituzione economica.

Il ciclo retroattivo struttura, sovrastruttura e coscienza inquadra ancora perfettamente, ai giorni nostri, il fenomeno mediatico.

Chi controlla la struttura economica, controlla i mezzi di informazione e «ciò per cui gli uomini  debbano credere e per cui si debbano affannare»: controlla le ideologie dominanti, ovvero il sistema di valori e la coscienza della comunità sociale.

Poiché questo processo ha una retroazione - come era già chiaro ai socialisti di fine '800, e, “ingegnerizzato” nel mondo liberale da maestri della propaganda come Bernays e Lippmann –  tanto la sovrastruttura politica, quanto la propaganda ideologica manipolatrice delle coscienze, potevano cambiare fino a rivoluzionare la struttura economica.

Bene, così è più chiaro perché la propaganda ci incita a fare le “riforme”... strutturali.[4]


2 – Chi non comprende la Storia è destinata a riviverla: coscienza storica è coscienza politica.

«Fu soltanto durante la guerra, dopo che le conquiste nell’est europeo avevano reso possibili i campi di sterminio e messo a disposizione enormi masse umane, che la Germania fu in grado di instaurare un regime veramente totalitario […] Il regime totalitario è infatti possibile soltanto dove c’è sovrabbondanza di masse umane sacrificabili senza disastrosi effetti demografici» H. Arendt, Le origini del Totalitarismo, pp. 430-431.

Si è già nominato in precedenza il  totalitarismo rovesciato e verrà meglio focalizzato in seguito: a proposito Chris Hedges e Joe Sacco  (in “Days of Destruction, Days of Revolt.”, 2012), sostengono che in questo regime:

a) ogni risorsa naturale ed ogni essere umano è mercificato e sfruttato all'estremo;
b) i cittadini sono espropriati della loro libertà e della loro partecipazione politica tramite l'eccesso di consumismo e di sensazionalismo.

Il sensazionalismo può essere a suo volta considerato “consumismo applicato alle informazioni” – informazioni come “beni di consumo di massa” – e il consumismo stesso come mera sovrastruttura volta al controllo della fase keynesiana dello sviluppo capitalistico. Ovvero, il consumismo non ha sostanzialmente nulla a che fare con la struttura economica “keynesiana” e con il consumo di massa identificato con la domanda aggregata.

La propaganda, la manipolazione dell'informazione, della cognizione e della coscienza diventano strumenti per creare – insieme a modi di produzione nuovi – un utopico (o distopico...) “uomo nuovo”.

Un “uomo” palingeneticamente trasformato tanto nella psicologia quanto, per vie eugenetiche, biologicamente: Simona Forti elabora questo pensiero di Hannah Arendt: « “la vera natura del totalitarismo” sembra infatti corrispondere a un'esplosiva combinazione di determinismo e costruttivismo[5] razionalistico. La volontaristica asserzione per cui tutto è possibile, anche trasformare "la condizione umana", si farebbe forte del richiamo alle irresistibili e inarrestabili leggi della Natura e della Storia, e si invererebbe nel tentativo di generare, per la prima volta, una nuova natura dell'uomo. Grazie al deserto prodotto dal terrore, da una parte, e alla ferrea logica deduttiva dell'ideologia, dall'altra, il totalitarismo riesce in ciò che per la metafisica era rimasto sempre e soltanto un sogno, un'ipostasi del pensiero: la realizzazione di un'unica Umanità, indistinguibile nei suoi molteplici appartenenti. Nei campi di concentramento gli esseri umani ridotti a esemplari seriali di una stessa specie animale perdono completamente quell'unicità e quella differenza che sono la conseguenza del fatto che "non l'Uomo, ma gli uomini abitano la terra"[6]»

Al di là della imprescindibile distinzione che la stessa Arendt farà in seguito per l'esperienza stalinista che, da “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, distinguerà nettamente dal totalitarismo nazifascista per motivi etici relegandola ad una forma classica di autoritarismo, la differenza da aggiungere – e magari correlare – sono le differenze di carattere strutturale ben rimarcate da Kalecki rispetto agli «ignoranti» che equiparano l'interventismo statalista del nazifascismo a quello sovietico.

Il “nazifascismo”, a differenza di ciò che viene comunemente condiviso dai “nostalgici” nonostante le strabordanti evidenze storiche, proponeva sì una certa propaganda anticapitalista (a cui però veniva sovrapposto l'antisemitismo) ma, appunto, costruiva una goebbelsiana sovrastruttura elevata sopra la struttura di un sistema capitalistico eticamente sfrenato che cercava di internazionalizzarsi finanziando cinicamente una folle politica imperialista.

D'altronde, l'adattabilità del liberismo economico in funzione del contesto geostorico ha dimostrato anche nella storia moderna di usare strumentalmente lo Stato come Leviatano funzionalmente alla libertà del capitale e al contestuale asservimento del lavoro: dal neoliberismo imposto con la violenza nel Cile di Pinochet, all'ordoliberismo che, insieme alla retorica dell'irenismo kantiano del federalismo, è stato progettato per servirsi di un autoritario Stato burocratizzato volto all'instaurazione di un mercato libero da finalità sociali.[7]

Dato il disgusto morale (o, forse, “estetico”) per le sovrastrutture ideologiche promosse dal nazifascismo, pare che a Friburgo l'élite abbia studiato una soluzione diversa e più correct; ma i fini sono strutturalmente i medesimi: la liberalizzazione dei capitali con ogni mezzo e l'asservimento dei lavoratori.

Le proposizioni nell'ordoliberismo sono usate come fossero complementari – ad es. “libero mercato” E “giustizia sociale”, “stabilità monetaria” E “piena occupazione”[8] – mentre, per motivi strutturali, qualsiasi sovrastruttura giuridica non potrà obbligare gli organi di governo ad eseguire entrambi gli obiettivi, essendo per motivi “tecnici” mutuamente esclusivi. Poiché il capitale è naturalmente più forte del lavoro, la spoliticizzazione del governo delle comunità sociali permette di relativizzare l'ordine giuridico in funzione degli interessi del capitale del Paese dominante.

Questo spiega anche in breve il funzionamento dell'Unione Europea.


3 – Il totalitarismo liberale.

«Finché tutti gli uomini non sono resi egualmente superflui - il che, finora, è avvenuto solo nei campi di concentramento, l’ideale del dominio totale non è raggiunto»,  Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, Ed. di Comunità, Milano 1996, p. 626

Date queste premesse, si propone che il totalitarismo non è altro che la fase assoluta a cui tende il sistema capitalistico liberale – senza freni e limiti – nel momento in cui viene mercificato e monopolisticamente prezzato qualsiasi oggetto sensibile, da qualsiasi risorsa naturale, all'uomo, dalle norme morali, ai sentimenti.

Sheldon Wolin, il grande teorico politico americano recentemente scomparso, all'inizio degli anni 2000, analizzando la proiezione degli Stati Uniti sul mondo, propose la definizione di “totalitarismo rovesciato”,  secondo le più accettate nozioni del concetto sviluppato inizialmente nell'Italia fascista da Giovanni Amendola, da Sturzo, da un giovanissimo Lelio Basso (che ha coniato il neologismo) e, in seguito, da Carl Schmitt durante la Germania nazista. Fino ai politologi dei giorni nostri.

Vediamo ad esempio C. Friedrich e Z. Brzeziński (1956) sul significato storico di totalitarismo, proponendo già alcuni spunti di riflessione tra parentesi quadre:

a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità; [tipo il “mondialismo”?]
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso;
[tipo il “PUDE”, il “PUO” o il partito unico liberale con a capo il Grande Fratello, ovvero il Mercato?]
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la
costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia.
[Possiamo chiamare anche questo “monopolio” di un mercato massimamente concentrato che pianifica produzione e fissa i prezzi?].

Ovvero, secondo Simona Forti
«Il totalitarismo è messo in moto e tenuto in vita da un terrore che, a differenza della normale violenza politica, non mira a ottenere semplicemente la sottomissione. Se appare “assurdo” e “delirante” è perché non sembra rispondere a nessun tipo di necessità razionale, ma alla volontà di rendere superflue intere categorie di persone che con la loro semplice presenza disturbano il compimento del progetto totalitario (v. Maffesoli, 1979; v. Ferry e Pisier-Kouchner, 1985). Tale terrore si dimostra pertanto inscindibile dall'ideologia. Vero e proprio principio politico del regime, il progetto ideologico si pone l'obbiettivo di una destrutturazione radicale del presente e di una sua ricostruzione finalizzata all'edificazione della nuova storia, della nuova società e del nuovo uomo

E la seguente proposizione potrebbe essere anche presa come didascalia all'ordoliberalismo e al diritto internazionale subordinato ai trattati liberoscambisti:

«[..]il regime totalitario fa convivere una preoccupazione formalistica per il rispetto del diritto positivo con una sostanziale negligenza della legge scritta».

Il totalitarismo è volto «all'annientamento dell'identità psicofisica individuale

E sull'identità, che sia di classe o nazionale (o di genere?), ci si ritornerà (v. nota 5).


4 – Democrazia controllata e totalitarismo rovesciato.


Le differenze che trova Sheldon Wolin in forma di attributi di segno inverso nell'attuale totalitarismo sono principalmente tre:

1 – Le grandi imprese sostituiscono lo Stato come principale attore economico e, tramite attività di lobbying, controllano il governo senza che ciò sia ritenuto corruzione;

2 – Non viene più ricercata una costante mobilitazione di massa, ma la popolazione viene tenuta in uno stato perenne di apatia politica;[9]


L'unico momento in cui vengono coinvolti i lavoratori è al momento delle elezioni, in cui il parossismo mediatico raggiunge il suo culmine e l'ordinamento formalmente democratico permette di far accettare “idraulicamente” il programma imposto dall'élite.

Avendo noi rudimenti economici tali da poter strutturalmente analizzare questo pensiero al di là del dato meramente politologico, sociologico e storico, possiamo agevolmente proporre che “il totalitarismo nazifascista” sia stato una contingenza storica fondata su un imperialismo basato sul nazionalismo statualista in quanto peculiare ad una struttura socioeconomica espressione, a sua volta, di un capitale non ancora sufficientemente internazionalizzato.

La famosa reductio ad Hitlerum di Leo Strauss è da considerarsi nefasta non semplicemente come fallacia logica introdotta per un uso “eristico”, (cioè dedito ad argomentazioni sottili e speciose), nella dialettica di chi non ha argomenti, ma per motivi esattamente opposti a quelli portati avanti dagli educatori “liberal[10] che hanno incominciato ad ingrossare le file dei socialisti dopo la seconda guerra mondiale: infatti, oltre ad innumerevoli storici, attentissimi teorici politici come la Arendt hanno giustamente osservato che stigmatizzare etica, pensieri ed idee riconducibili agli orrori della seconda guerra mondiale (in breve “ad Hitler”), poteva servire ad evitare che certe aberrazioni ideologiche fossero di nuovo funzionali ad un nuovo Olocausto.

Ma perché questa comune argomentazione abbia senso, è necessario affermare – come alcuni storici hanno fatto – che le responsabilità dell'Olocausto sia da attribuire nella sostanza ad Hitler e alla sovrastruttura ideologica del nazifascismo.

Usando noi l'analisi economica come metodo scientifico volto all'ermeneutica delle sovrastrutture giuridiche, politiche ed ideologiche, possiamo quindi altrettanto stigmatizzare come fallace questa posizione: si attribuisce alla struttura storica una genesi sostanzialmente sovrastrutturale, che – come abbiamo postulato inizialmente – dovrebbe solo in termine “retroattivi” conformare le dinamiche storiche, ovvero in termini di retroazione della coscienza sociale  sui modi di produzione da cui è stata sostanzialmente creata.

Questa “retroazione” ha avuto come accidente Hitler e la sovrastruttura ideologica antisemita, producendo l'apparente incomprensibile orrore della Shoah; resta fondamentale a supporto la dimostrazione empirica a sostegno della metodologia analitica qui proposta: John Maynard Keynes ne “Le conseguenze economiche della pace” predice la sostanza delle imposizioni economiche del Trattato di Versailles.

Non poteva prevedere qualitativamente cosa sarebbe successo, essendo – appunto – ancora da verificarsi l'ascesa al potere di Hitler: ma l'analisi di profilo economicistico, nonostante errori e approssimazioni, permise di anticiparne con largo anticipo la sostanza tragica.
   
Ridurre tutti i fenomeni ad Hitler – al di là della fallacia logica e dell'uso propagandistico – significa non aver compreso le fondamenta strutturali della società capitalistica moderna.

Significa – paradossalmente rispetto alle preoccupazioni espresse da studiosi come la Arendt – non contribuire a produrre la coscienza necessaria affinché questo genere di orrori non si ripeta mai più.

Il capitalismo pare essere “funzionale” soltanto fino a che è funzionale al capitale: il concentrazionismo potrebbe essere la sua naturale evoluzione.

« Arbeit macht frei” [...] “Il lavoro rende liberi”. […] Tradotta in linguaggio esplicito, [la scritta] avrebbe dovuto suonare press’a poco così: “il lavoro è umiliazione e sofferenza, e si addice non a noi, [Ubermenschen], [razza] di signori e di eroi, ma a voi [Untermenchen]. La libertà che vi aspetta è la morte”.
In realtà, e nonostante alcune contrarie apparenze, il disconoscimento, il vilipendio del valore morale del lavoro era ed è essenziale al mito fascista in tutte le sue forme. Sotto ogni militarismo, colonialismo, corporativismo sta la volontà precisa, da parte di una classe, di sfruttare il lavoro altrui, e ad un tempo di negargli ogni valore umano. [...]
Questa volontà appare già chiara nell’aspetto antioperaio che il fascismo italiano assume fin dai primi anni, e va affermandosi con sempre maggior precisione nella evoluzione del fascismo nella sua versione tedesca, fino alle massicce deportazioni in Germania di lavoratori provenienti da tutti i paesi occupati, ma trova il suo coronamento, ed insieme la sua riduzione all’assurdo, nell’universo concentrazionario.
Il carattere sperimentale dei Lager è oggi evidente, e suscita un intenso orrore retrospettivo. Oggi sappiamo che i Lager tedeschi, sia quelli di lavoro che quelli di sterminio, non erano, per così dire, un sottoprodotto di condizioni nazionali di emergenza (la rivoluzione nazista prima, la guerra poi); non erano una triste necessità transitoria, bensì i primi, precoci germogli dell’Ordine Nuovo. Nell’Ordine Nuovo, alcune razze umane [...] sarebbero state spente; altre [...] sarebbero state asservite e sottoposte ad un regime di degradazione biologica accuratamente studiato, onde trasformarne gli individui in buoni animali da fatica, analfabeti, privi di qualsiasi iniziativa, incapaci di ribellione e di critica.
I Lager furono dunque, in sostanza «impianti piloti» anticipazioni del futuro assegnato all’Europa nei piani nazisti. Alla luce di queste considerazioni, frasi come quella di Auschwitz, «Il lavoro rende liberi», o come quella di Buchenwald, «Ad ognuno il suo», assumono un significato preciso e sinistro. Sono, a loro volta, anticipazioni delle nuove tavole della Legge, dettata dal padrone allo schiavo, e valida solo per quest’ultimo.
»[11] Primo Levi, in «Triangolo Rosso», Aned, novembre 1959.


ADDENDUM: le obiezioni storiche e logiche di Arturo, che trovate nei suoi primi due commenti, sono correttamente fondate sulla completa considerazione di fatti di indubbia rilevanza economica e sociale.
Certamente, e in questa sede lo abbiamo evidenziato, la seconda guerra mondiale si accompagna alle conseguenze della crisi del 1929, ma questa crisi può essere vista, a sua volta, - senza che occorra rimproverare a Keynes di (non) essere un "veggente", prima ancora che uno scienziato di straordinaria intelligenza-, come il sussulto dell'ostinazione ad aderire al paradigma marshalliano e al connesso (se non altro sul piano storico-politico) gold-standard.  
  
Il fascismo e, come per molti versi evidenzia Bazaar, il nazismo, sono figli, partoriti nel "panico" (di perdere il "controllo": ciò che costituisce la negazione stessa del liberalismo), dell'equilibrio della sottoccupazione.
Un fenomeno, quest'ultimo, che, solo più tardi (rispetto alle "conseguenze economiche della pace"), Keynes avrà evidenziato: certo non poteva spettargli di poter predire le "conseguenze" politico-ideologiche concretamente innescate, per l'autoconservazione del paradigma (cioè Bruning e la sua follia, innescante una controfollia già contenuta, però, in quel paradigma), in conseguenza della incurabilità sociale e politica di tale ipotetico equilibrio. 
Ma quell'autoritarismo è un fenomeno insito nelle premesse scientifico-politiche del liberismo, una volta che il capitalismo (l'oligarchia) si trovasse, inevitabilmente, a dover sottrarre ciò che aveva concesso, a causa della sua capacità automatica di produrre crisi economico-finanziarie.

Di fronte alla consequenzialità della crisi del '29 dall'assetto socio-politico neo-classico (che è la scienza del tardo '800, come ci conferma Ruini in Costituente), possiamo ritrovare nella pace di Versailles una continuità sintomatica, cioè un  antecedente significativamente omogeneo (l'imperialismo free-trade produce la guerra e la guerra implica l'eliminazione possibilmente definitiva del concorrente, senza pensare a effetti geopolitici, che non rientrano nel calcolo del mercantilista imperiale).
Ma altrettanto questa omogeneità si ritrova negli  sviluppi successivi alla crisi, in Germania come in ogni altro Stato "occidentale": usando il "metro" di Bazaar, vogliamo parlare di una dialettica interna al paradigma, geograficamente differenziata quanto alla sovrastruttura?
 
Cioè, nella "reazione" alla crisi stessa, i paesi non di (lunga) tradizione imperialista seguono una via di socializzazione che è evidentemente strumentale e contingente; vale a dire, funzionale a ripristinare al più presto, su basi geopolitiche più estese, i principi dell'equilibrio neo-classico (lo stesso potremmo dire dei paesi imperialistico-coloniali tradizionali, ma in forme che matureranno molto più tardi: e solo dopo che la vittoria militare avrà consentito di prendere tempo rispetto al problema "principale" che, comunque, poneva il socialismo reale sovietico).
In buona sostanza, se sono riuscito a spiegarmi, il problema non è tanto individuare fatti storici eclatanti che possano costituire, sul piano del nesso causale, i fattori strutturali decisivi a spiegare il totalitarismo e la seconda guerra mondiale (e la loro comune genesi della crisi del '29), quanto individuare l'elemento strutturale che ne costituisce il tratto comune, complessivamente intesi: cioè dall'imperialismo colonialista, al gold standard, alla prima guerra mondiale, alla pace di Versailles, al fascismo, alla crisi del '29, alle strategie strumentali che variamente ne conseguirono, fino alla seconda guerra mondiale.

Da questo punto di vista, mi pare eloquente questa sintesi di George Bernard Shaw:


   



[1]      [1]Un esempio per  “ingegneri”: i decisori delle classi dominati che prendono le decisioni politiche si trovano a far delle “derivate” per comprendere come “spingere la Storia”, chi è escluso dal processo decisionale e vede la Storia “dall'esterno” (ovvero “la subisce”), si ritrova a far degli “integrali”...
[2]      “Per la critica dell’economia politica”, K. Marx, 1859
[3]      Mentre nel marxismo viene esplicitato come l'economia sia da ritenere minimo comun denominatore di tutti i fenomeni sociali, nel liberalismo questo viene lasciato implicito
[4]      Lo si diceva che “l'unico ad aver letto e capito Marx sono stati i banchieri”....
[5]      TINA: “There is no alternative”, non esiste alternativa: un determinismo storico, attivamente nichilista in quanto “costruttivista”, alla base delle passate esperienza di totalitarismo.
[6]      Si potrebbero fare una moltitudine di considerazioni, in particolare sul virgolettato finale il cui concetto ha già ispirato alcune sintetiche riflessioni: l'ingiustizia sociale porta naturalmente al relativismo morale.
        Invertendo la proposizione arendtiana, si può parlare di Uomo se e solo se tutte le persone sono eguali nella sostanza. Ovvero non esiste una pluralità di uomini formalmente differenti se la loro esistenza non ha nella sostanza pari dignità.
        Un altro spunto di riflessione sul principio per cui “l'uguaglianza formale” distrugge l'identità, cristallizza il funzionalismo sociale – e l'immobilità tra classi che questo comporta –  è che rende moralmente accettabili le politiche di controllo sociale di carattere malthusiano.
        Si può quindi proporre  che il principio esposto per cui “insistere sull'uguaglianza formale, produce maggiore disuguaglianza sostanziale”, sarebbe stato rinvenibile nell'art.3 Cost. nel momento in cui non fosse stato enunciato il secondo comma: ovvero si può supporre che si sarebbe progressivamente sviluppata quella logica antidemocratica su cui sono stati fondati gli ordini liberali come quello USA e che ora vengono presi a modello per l'unificazione europea.
[7]      Giusto un promemoria: il liberista thatcheriano, hayekiano, friedmaniano, einaudiano, ecc., che sproloquia di “concorrenza perfetta” e  “Stato minimo”, si scorda che il liberismo (o meglio i suoi corollari, come le privatizzazioni...) è il passaggio  ultimo dopo che sono stati imposti i trattati di libero scambio. (Anche la Germania nazista stava costruendo la sua area di free trade con moneta unica, il Lebensraum). Quindi nei processi di liberalizzazione esiste un'asincronia tra libero scambio e laissez-faire. Il paradiso dei liberali, però, si tradurrà a livello globale, con un centro comunque fortemente burocratizzato e una periferia con, effettivamente, uno “Stato minimo”, tipo lo Zimbabwe (che ovviamente “non ha fatto le riforme” perché non c'è nulla “da riformare”...).
          Lo Stato può essere storicamente visto come semplice albero di trasmissione del potere: dove serve, quando serve... in funzione delle esigenze di chi lo controlla.
[8]      Si insiste sull'uguaglianza formale tra capitale e lavoro nonostante i fattori della produzione siano sostanzialmente diversi.
[9]      Cfr. con “The crisis of democracy”.
[10]     Si potrebbero fare riflessioni interessanti sull'evoluzione del trotzkijsmo o su come la Scuola di Francoforte e la tradizionale critica socialista si siano lentamente spostate dalla critica alla “struttura” alla critica delle “sovrastrutture”...
[11]     Grazie a Winston Smith per la segnalazione sulle riflessioni del nostro Primo Levi.