martedì 31 maggio 2016

LA NOSTAGLIA (ARTISTICA) DELLA LIRA E GLI STATI UNITI D'EUROPA CHE NON VI SARANNO MAI.


1. Oggi ho ricevuto, al mio indirizzo mail più "privato", questa una mail con questo contenuto:


2. Il mittente risulta essere questo:
"Storia d'Italia (dem@iperjob.com)"Cioè un operatore che, nella sua attività, utilizza una peculiare (ed "efficace") tecnica promozionale "personalizzata" che tende ad assumere una veste tale da evitare di essere relegata in "spam", come mera pubblicità (sottolineo che le parti in neretto non sono una mia aggiunta, tranne il passaggio sulla "forma di comunicazione personalizzata" e quello sul rischio di "essere considerata spam"):
"DEM è l’acronimo di Direct Email Marketing, un’efficace tecnica comunicativa e pubblicitaria che utilizza messaggi di posta elettronica per diffondere in modo capillare un messaggio commerciale.
Il testo dei messaggi è accompagnato da immagini del prodotto o del servizio pubblicizzato e, nella maggior parte dei casi, da collegamenti che portano direttamente al sito del soggetto promotore.
Il Direct Email Marketing, essendo una forma di comunicazione personalizzata che raggiunge il potenziale cliente nella sua casella di posta elettronica, non è soggetto a concorrenza diretta, al contrario di quanto avviene, ad esempio, nelle campagne di keyword advertising, dove il messaggio pubblicitario appare spesso vicino a quello di aziende concorrenti.
Tra le forme di Direct Marketing, quella operata via e-mail è senza dubbio una delle più moderne ed efficaci, e garantisce molti vantaggi in termini di creatività, di impatto (grazie all’invio di e-mail su indirizzi privati, ovviamente autorizzati alla ricezione) e di contenimento dei costi.
E’ inoltre una forma pubblicitaria che permette di avere riscontri in tempi rapidi, e viene sempre più apprezzata, perché garantisce ottimi ritorni di investimento (ROI) a fronte di costi di esecuzione contenuti.
Anche relativamente alle forme di DEM è necessario in ogni caso porre particolare attenzione alla pianificazione e messa in opera della campagna promozionale: una comunicazione sbagliata, troppo aggressiva o mal realizzata rischia di essere considerata spam dal ricevente (o addirittura dal suo client di posta elettronica), con il rischio di vedere vanificato il proprio investimento".

3. Seguendo le indicazioni sullo schema di funzionamento illustrate qui sopra, apro perciò il "collegamento" contenuto nella mail "personalizzata" che mi porta a questo risultato (nella parte essenziale e riproducibile senza particolari accorgimenti, pur nei limiti di formato consentiti dalla piattaforma):

Richiedi informazioni sulla Lira, il GIORNALE della LIRA in OMAGGIO per te!

IL GIORNALE
DELLA LIRA

La storia della Lira attraverso un collage di notizie dalle prime pagine dei quotidiani dal 1945 al 2000: un appassionante viaggio nella memoria raccontato ammirando la finezza artistica e tecnologica delle banconote e delle monete più famose di quegli anni.

Scopri le nostre collezioni dedicate alla Lira: riconiazioni degli esemplari più belli della Lira e le prime Banconote Coniate mai realizzate al mondo.



4. Molto bene, tutto appare abbastanza chiaro: nell'ambito di una promozione "personalizzata" di un prodotto come la "Storia della lira", Editalia- Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, ritiene che esso, appunto, possa interessare a me e proprio a me. Per di più "in omaggio"; anche se, devo confessare, non avendo attivato la finestra di "richiesta" o il numero verde che compaiono accanto all'advertisement sul sito linkato dalla mail, non posso sapere se sia un omaggio vero e proprio o piuttosto collegato all'abbonamento a una diversa forma di pubblicazione ovvero all'acquisto di altra opera storico-monografica.

Editalia, infatti, un'impresa che nasce nel 1952, "è un’azienda leader in Italia nel campo dei multipli d’arte, della medaglistica e dell’editoria di pregio. Le sue opere nascono dal sapiente incontro, tutto italiano, tra artisti, artigiani e istituzioni, grazie alla valorizzazione del patrimonio del “saper fare” di botteghe e laboratori tradizionali, alla diffusione presso collezionisti privati e imprese, alla collaborazione con la Zecca dello Stato e la Scuola dell’Arte della Medaglia.

L’azienda di oggi ha raggiunto un alto livello d’eccellenza in quanto ha saputo valorizzare al massimo le esperienze della sua storia precedente. Editalia nasce infatti nel 1952 come casa editrice specializzata in libri d’arte, spesso in collaborazione con la Galleria Nazionale d’Arte Moderna per cui ha curato la pubblicazione dei cataloghi di mostre d’avanguardia, le prime in Italia di artisti come Burri, Capogrossi, Accardi. Ha anche una galleria d’arte in cui espone opere uniche e stampe dei maggiori artisti italiani del ’900. Pubblica per molti anni la rivista “Qui arte contemporanea”, che Editalia ha voluto celebrare in una mostra alla GNAM nel 2012, in occasione dei 60 anni di attività dell’azienda. La mostra ha decretato il successo del Progetto Arte, che oggi affianca al catalogo storico una serie di multipli e libri d’artista realizzati in diverse tecniche artigianali ad opera di artisti del calibro di Carla Accardi, Mimmo Paladino, Jannis Kounellis, Joe Tilson, Emilio Isgrò, Giosetta Fioroni.

Nel 1991 Editalia entra a far parte del Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato. Amplia quindi la sua attività (grazie anche all’acquisizione nel 2005 della società Sipleda), ad altri settori della produzione artistica, quali la grafica d’arte, la scultura e gli smalti. Soprattutto inaugura il fiorente filone della medaglistica e della riconiazione di monete, con il progetto Storia della Lira, recentemente arricchito dall’invenzione delle originalissime banconote coniate, ispirate ai modelli della Banca d’Italia.

Nel 2007 è cominciata una speciale partnership con Ferrari, di cui Editalia è licenziataria esclusiva a livello mondiale per la creazione di opere artistiche ed editoria di pregio ispirate al marchio automobilistico.

Nel 2015 Editalia ha aggiunto nel suo portfolio un’altra collaborazione istituzionale. Con la Soprintendenza del Castello Sforzesco di Milano ha realizzato, in scala ridotta e in tiratura limitata, la riproduzione della Pietà Rondanini di Michelangelo, scelta come icona del patrimonio artistico di Milano in occasione dell’Expo".

5. Veniamo all'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato come "capogruppo" cui pare appartenere Editalia. Sul suo sito, si autopresenta nei termini indicati al "chi siamo" nella homepage del suo sito.
Alcuni dati essenziali: l'Istituto è stato trasformato in s.p.a. nel 2002, cioè allorché la materiale circolazione dell'euro è divenuta corrente in Italia, ed ha come "unico azionista il Ministero dell'economia e delle finanze".

C'è anche da dire che  il d.lgs. 21 aprile 1999, n.116, ha stabilito l’avvio di un processo di ristrutturazione industriale e di privatizzazione dell’istituto. Pare però, per quanto dato di ricostruire, che questa privatizzazione non sia stata ancora realizzata. Le ultime notizie al riguardo che ho reperito sono del 2007:
 -"Se prima erano solo rumors o indiscrezioni senza fondamento, ora, essendo prevista dalla programmazione del Dpef, la cosa acquista consistenza. Certo non e' un progetto di breve periodo ma richiedera' anni".
Il presidente dell'Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (Ipzs), Mario Murri, commenta cosi' la novita' contenuta nel Dpef 2008-2011 che parla di cessione di quote dell'Istituto di piazza Giuseppe Verdi, detenuto al 100% dal Tesoro. 
"L'ho appreso dai giornali - afferma Murri - perche' ancora non ho avuto modo di leggere il Dpef". A ogni modo, prosegue il presidente della Zecca di Stato, "si e' scelto di seguire un percorso che oramai e' comune a tutta Europa. Anche in altri Paesi - spiega - i Poligrafici sono stati ceduti a privati". Sul tipo di strada che potrebbe essere scelta dal Tesoro per la privatizzazione Murri afferma che quote potrebbero essere cedute "a privati o a fondi di private equity".

6. Insomma, l'azionista unico (attuale) MEF, attraverso i suoi rappresentanti amministratori, nella catena di controllo che arriva fino a dem@iperjob.com, mi vuole omaggiare de "Il Giornale della Lira", ritenendomi "personalmente", un possibile interessato particolare a compiere, tra l'altro, "un appassionante viaggio nella memoria raccontato ammirando la finezza artistica e tecnologica delle banconote e delle monete più famose di quegli anni".
Ora, questa finezza artistica e, per di più "tecnologica", tutta "nazionale" evidentemente, sarebbe apprezzabile (solo) in termini di "viaggio nella memoria".  
Una memoria, si deve supporre, che serve a riscontrare quanto abbiamo perduto sul piano della "finezza artistica e tecnologica". Ma mi domando: solo questo? 
Non è che forse, involontariamente, partendo da questa perdita, oggettivamente enunciata nella promozione di tale prodotto editoriale, si alluda ad una perdita molto più estesa e sostanziale?L'unico dubbio è che si tratti di un messaggio "personalizzato". Cioè destinato a soddisfare la particolare curiosità e tendenza di una nicchia di "nostalgici" un po' bizzarri, in fondo in fondo: e sempre, dunque, sfruttabili se non altro a fini commerciali. Come se gli venisse dato uno "zuccherino" consolatorio ad una memoria un po' fuori dal tempo ma comunque rispondente a un segmento di mercato. Ma è "l'omaggio" che mi lascia un po' interdetto.In verità non oso approfondire, per quella strana diffidenza che gli "omaggi" pubblicitari suscitano ormai in chi se li vede recapitare.Chissà se qualcun altro di voi ha ricevuto la stessa "proposta di omaggio" e sa dirmi qualcosa di più.  7. In fondo, si tratta pur sempre di un "omaggio" dello Stato italiano, nella sostanza: non è leggermente contraddittorio incentivare in modo così evidente la "nostalgia" della lira, quando sappiamo che l'euro è una "scelta irreversibile"? Lo dice Draghi, anzitutto, come ben sappiamo: "Provate a digitare su un motore di ricerca, ad esempio Google, la scritta “Draghi l’euro è irreversibile”. Ebbene, nelle prime due posizioni troverete due diversi articoli entrambi tratti da Il Sole 24 Ore e con titoli simili: il primo è “Draghi: l’euro è irreversibile, l’Unione non esploderà” ed il secondo “Draghi: l’euro è irreversibile. L’uscita non è prevista dai trattati”.Nel 2012, "bacchettava":"...coloro che prefigurano una esplosione della moneta unica dicendo che costoro mal conoscono il capitale politico che i nostri dirigenti hanno investito in questa unione”. Aggiungendo: “...qualsiasi movimento verso un’unione finanziaria, di bilancio e politica é inevitabile e condurrà alla creazione di nuove entità sovranazionali”.Nel 2015 ribadisce:“Lasciatemi sottolineare che l’irreversibilità dell’euro ha fatto parte dell’architettura dell’Unione europea fin dal Trattato di Maastricht”. E “come ho affermato ripetutamente anche di fronte al parlamento europeo, il ritiro di uno Stato membro dall’euro non è previsto dai trattati”.    Il nostro Presidente della Repubblica, per altro senza menzionare la moneta unica, il 26 aprile 2016 (traiamo dalla stessa fonte),  precisa:"Intervenendo sul numero speciale della rivista di Massimo D’Alema “Italianieuropei”, pubblicato in occasione dell’anniversario del 25 Aprile,  Mattarella scrive L’Europa è il nostro destino e la nostra opportunità”. 
  8. La difficoltà insormontabile, sia alla irreversibilità dell'euro, in quanto per essere sostenibile dovrebbe condurre alla ben nota "unione politica e di bilancio" comune a tutti gli Stati membri (qui, p.VI.3, sub n.2 ), cioè federali, come negli Stati Uniti, (e in omaggio alla ormai celebre teoria delle aree valutarie ottimali), sia al "movimento verso un'unione finanziaria, di bilancio e politica", che è evidentemente strettamente connesso all'euro, viene però da fonti molto ufficiali delle massime istituzioni europee:Il conte Hermann Van Rompuy, da presidente pro-tempore del Consiglio europeo, ha infatti dichiarato, con dovizia di spiegazioni, che "l'Unione europea non diventerà mai gli "Stati Uniti d'Europa"Per parte sua, in pieno 2015, il Presidente della Commissione europea Juncker, a sua volta, ha dichiarato "Non avremo mai gli Stati Uniti d'Europa". E l'attuale presidente dello stesso Consiglio europeo, Donald Tusk, ribadisce: "Dobbiamo farci guidare dal senso della ragione e del tempismo. Non dalla utopia di un'Europa senza Stati nazionali".
Ora qualche domanda mi pare legittima: Draghi, conosce queste posizioni? E quali conclusioni ne trae rispetto alla sua asserzione, così sicura, circa l'inevitabilità di un'unione politica e di bilancio? E ancora: in concreto, il Presidente della Repubblica immagina, nei suoi effetti pratici, sociali ed economici, quale destino costituirebbe, per noi italiani, un'Europa in cui di ineluttabile, secondo risultanze politiche "europee" ufficiali e non prudentemente ignorabili, ci sono la mera irreversibilità dell'euro unita alla certezza che non vi sarà mai una diversa unione politica e la messa in comune di un bilancio federale?  Perché qui stiamo parlando, allo stato, di un'unione economica e monetaria: non considerare questa (dura) realtà economica e monetaria, espressa nei trattati e nella esclusività degli effetti di tale tipologia sulle vite dei cittadini coinvolti,  pone dei naturali problemi etici: cioè fino a che punto scelte economiche e monetarie debbano e possano lecitamente determinare il destino di comunità sociali fatte di persone e delle loro speranze di "dignità" del lavoro, di benessere e di eguaglianza di fatto, di soddisfacenti legami familiari, di rapporti comunitari solidali? Questi problemi etici non si possono nascondere dietro idee utopistiche che non hanno mai trovato riscontro nella realtà dei trattati e che, anzi, la realtà applicativa, passata e attuale, contraddice apertamente: la stessa Corte costituzionale aveva evidenziato che il limite di accettabilità degli effetti dei trattati europei era nel loro non riflettersi sui rapporti etico-sociali e politici: una conclusione già al tempo molto discutibile, come abbiamo ampiamente illustrato. Ma che oggi, risulta addirittura miope e inadeguata; anzi "inattendibile". 11. Questi problemi etici sono quelli che la nostra Costituzione aveva posto al vertice dei principi e dei valori enunciati come inderogabili. Questa lezione dei Costituenti è forse divenuta irrilevante e, pur essa, obsoleta? Eppure questi interrogativi esigono una risposta, nel passato (recente) come nel presente: più che mai.Le soluzioni uniche, i destini ineluttabili, d'altra parte non sono accettati neppure nelle scelte economiche, secondo la più "normale" (ovvero "mainstream") teoria scientifica (cioè persino microeconomica). Perché, e in ragione di quali valori effettivamente realizzati, lo dovrebbero diventare solo perché sono in tal modo interpretati dei trattati soggetti all'art.11 della Costituzione? 

domenica 29 maggio 2016

DA KEYNES A GRAMSCI: IL FILO DELLA PACE IMPOSSIBILE NELL'INTERNAZIONALISMO DEI MERCATI **


Nozioni elementari, un tempo note e oggi del tutto dimenticate (nell'insegnamento scolastico e specialmente nelle Università):
 http://www.piazzadelgrano.org/wp-content/uploads/2011/10/Pag.-8-Keynes.jpghttp://images.slideplayer.it/2/577678/slides/slide_2.jpg

http://www.gliscritti.it/blog/images/2015-07/gramsci.jpg

1. C'è un articolo di Keynes assurto ormai a rinnovata fama, almeno nel recente, e non casuale, dibattito attuale legato a globalizzazione e federalismo liberoscambista imperniato sull'euro: "National Self-Sufficiency", originato da una conferenza tenutasi all'Università di Dublino il 19 aprile 1933, e pubblicato in varie riviste economiche anglosassoni e anche italiane (in Italia, nel 1933 e nel 1936, con il titolo "aggiustato" di "Autarchia economica", non si sa se dovuto al traduttore o alla "diplomazia" dello stesso Keynes; cfr; la ripubblicazione dell'articolo stesso nel libro J.M.Keynes "Come uscire dalla crisi", raccolta di scritti a cura di Pierluigi Sabbatini, pagg.93 e seguenti; sul punto del titolo italianizzato, v.nota * alla stessa pag.93). 
L'articolo non risulta disponibile in rete nella sua versione integrale e per la citazione di vari ulteriori brani rinviamo, ex multis, a questa fonte.

2. Il pensiero di Keynes, al tempo largamente anticipatorio, è particolarmente ricco di spunti non solo ricostruttivi delle differenze del capitalismo (primo)novecentesco rispetto a quello del secolo precedente, ma anche di indicazioni ancora attualissime sugli elevati "costi" del liberoscambismo internazionale in termini di convenienza socio-economica e di pace nell'ordine internazionale, e sulle soluzioni che si potrebbero adottare con politiche di adeguamento della "struttura della capacità produttiva  alla struttura della domanda" (per usare la, non casuale, formula di Caffè) all'interno degli Stati nazionali (il punto è a lungo trattato, in termini generali alla pag.98 dell'op. cit., ma con varie delicate, anche col senno di poi, implicazioni relative a paesi come l'Italia, la Germania e la Russia).
Per porre nella giusta prospettiva i vari, e spesso illuminanti, passaggi di Keynes, occorre però, a nostro parere, farne precedere l'esposizione da alcune informazioni storico-economiche e storico-politiche

3. Sul piano storico-economico perché Keynes non poteva logicamente disporre, nel 1933, di dati comparativi tra la "crescita" che si supponeva fosse stata promossa dal liberoscambismo che vide come primario protagonista lo stesso Impero britannico e quella legata al periodo successivo alla seconda guerra mondiale, nel trentennio d'oro di (sia pur faticosa) applicazione del sistema di Bretton Woods. O meglio: dell'applicazione, tendenzialmente diffusa a livello mondiale, delle teorie politico-economico originate dal suo pensiero.
Per altro verso, sul piano storico-politico, l'integrazione delle informazioni, poi, va fatta, anzitutto, per via della premessa che egli stesso compie con grande onestà, già nell'incipit dell'articolo: "Come la maggior parte degli inglesi, sono stato allevato nel rispetto del libero commercio, considerato non soltanto come una dottrina economica, che una persona razionale ed istruita non poteva mettere in dubbio, ma anche come parte della legge morale" (pag.93, op. cit.).  Un certo riflesso di questo atteggiamento lo riproduce nel corso dell'esposizione, pur dopo aver iniziato a manifestare la sua critica verso il liberoscambio; ad es. a già a pag.94: "Cosa credevano di fare i liberoscambisti del XIX secolo, che erano i più idealisti e disinteressati tra gli uomini?". 
A questa prospettiva di intellettuale, anzi, a rigore, di aristocratico inglese, in quanto tale difficile da abbandonare del tutto, sul piano psicologico personale, mediante un imparziale distacco (che egli in fondo non reclama come suo), va aggiunto anche il fattore storico: egli, nel 1933, non poteva sapere quali sviluppi avrebbe avuto il conflitto, che già allora si preannunciava, tra le potenze europee e mondiali (in particolare il Giappone, pressocchè l'unico Stato asiatico non assoggettato a una qualche forma di controllo coloniale) "escluse" dall'accesso ai mercati mondiali delle materie prime e gli imperi colonialisti e (vetero)liberoscambisti. Liberoscambisti quantomeno all'interno delle loro sfere di influenza territorial-militare, serbando un simmetrico protezionismo, cioè una preferenza di accesso e di sfruttamento, rispetto a tali altre potenze, considerate avversarie senza alcuna possibilità di mediazione: almeno nel corso della cruciale prima parte del '900, quando appunto, il protezionismo "conflittuale", guerrafondaio, è quello ascrivibile agli imperi coloniali e, per riflesso, ai grandi Stati europei loro "contendenti" sul piano globale, e non certo quello dei minori Stati nazionali, europei in particolare.

4. Sul primo aspetto, storico-economico, richiamiamo i dati sulla crescita mondiale già riportati in un precedente post:
Al riguardo, ci basterà rammentare i dati, nudi e crudi, che si offre Ha-Joon Chang, in "Bad Samaritans" (capitolo 1, "The real history of globalization", pagg.6-14).
Ebbene, già al tempo dei "misfatti" dell'Impero inglese, - che pur ammessi non portano gli storici ad ammettere altrettanto la realtà economica conseguente e induce anzi a continuare a lodare gli effetti positivi "per tutti i paesi coinvolti" della globalizzazione "imperialista" dell'800-, l'Asia, che prima dei trattati aveva paesi al vertice dei PIL mondiali (tipicamente la Cina nella prima parte del secolo) crebbe solamente dello 0,4% all'anno tra il 1870 e il 1913. L'Africa, il più vantato esempio di civilizzazione e progresso free-trade colonialista, crebbe, nello stesso periodo, dello 0,6%. Europa e USA crebbero invece, rispettivamente, dell'1,3 e dell1,8% in media negli stessi anni. Notare che i paesi dell'America Latina, che nello stesso periodo recuperarono autonomia tariffaria e di politica economica, crebbero allo stesso livello degli USA! (Tralasciamo gli eventi susseguenti alla crisi del '29, quando i free-traders dominanti, abbandonarono il gold-standard e aumentarono sensibilmente le tariffe alle importazioni, prima nei settori dell'agricoltura e poi in generale nell'industria manifatturiera)


Che accadde nel dopoguerra del 1945, quando si verificò il progressivo smantellamento del colonialismo e l'adozione degli Stati interventisti praticamente in tutto il mondo, sviluppato (e in ricostruzione) o in "via di sviluppo" (col tanto deprecato neo-protezionismo, da incentivazione pubblica all'industria nazionale e alla ricerca)? Riassuntivamente: nei deprecati anni del protezionismo, rigettato come Satana dai vari governatori di tutte le banche centrali del mondo divenute indipendenti, in specie negli anni '60 e '70, i paesi in via di sviluppo che adottarono le "politiche "sbagliate" del protezionismo, crebbero del 3% in media all'anno: questo dato, sottolinea Chang, è il migliore che, tutt'ora, abbiano mai accumulato. Ma gli stessi "paesi sviluppati" crebbero, negli stessi decenni, al ritmo di 3,2% medio all'anno.


Poi intervengono le liberalizzazioni alla circolazione dei capitali e gli accordi tariffari: i paesi sviluppati, già negli anni '80 vedono la crescita media annuale abbattersi al 2,1%. Anche questi facevano le riforme, e infatti gli effetti di deflazione  e rallentamento della crescita si vedono (finanziarizzazione e redistribuzione verso l'alto del reddito crescono a scapito delle invecchiate democrazie sociali). Ma le riforme più intense, sono imposte proprio ai paesi in via di sviluppo, tramite il solito FMI: è qui che si registra il calo della crescita più marcato.

I paesi emergenti, infatti, debitamente "riformati" e "aperti" nelle loro economie, vedono la crescita praticamente dimezzarsi dal 3% a circa la metà, negli anni '80-'90, cioè all'1,7 medio annuo.

Ma attenzione: la decrescita "infelice", cioè l'impoverimento neo-colonizzatore, sarebbero ancora più marcati se si escludessero Cina e India. Infatti, nota Chang, questi paesi si imposero progressivamente alla crescita, realizzando un 30% del prodotto globale dei paesi in via di sviluppo già nel 2000 (dal 12% degli anni '80): ma India e Cina rifiutarono il Washington Consensus e le "riforme" stile "golden straitjacket" tanto propugnate dal noto Thomas Friedman (che abbiamo già incontrato in questo specifico post).
5. Questi dati, lungi dallo smentire Keynes, rafforzano la sua critica ai liberoscambisti, relativa al fatto che pensassero, almeno quelli del XIX secolo, "di essere persone perfettamente ragionevoli", che "credevano di risolvere il problema della povertà, e di risolverlo in tutto il mondo, utilizzando al meglio, come una buona massaia, le risorse e le capacità presenti sulla Terra". 
L'ironia di Keynes, col riferimento alla "buona massaia", appare a posteriori una critica troppo tiepida, almeno in quanto, in tutto lo scritto, si tende a non negare una certa qual buona fede nelle intenzioni ("Essi pensavano inoltre di garantire non solamente la sopravvivenza di ciò che è più opportuno dal punto di vista economico ma, battendosi contro le forze del privilegio, del monopolio e dell'arretratezza, ritenevano anche di servire la grande causa della libertà, libertà dell'iniziativa e del talento individuale, nonché la causa della creatività artistica...Erano convinti infine di essere gli amici e i garanti della pace, della concordia internazionale, della giustizia economica tra le nazioni e i propagatori dei benefici del progresso"; pag.95). 

6. E qui possiamo andare invece ai dati storico-politici, che consentono una diversa visione una volta che, fuoriuscendo nella stessa limitazione che auto-indica Keynes (cioè quella di un inglese "allevato nel rispetto del libero commercio"), si veda la questione dal punto di vista culturale dei paesi che subirono il liberoscambismo imperialista.
Sappiamo infatti che, proprio sul piano delle intenzioni e della supposta buona fede, i liberoscambisti del XIX secolo, non potessero certo dirsi esenti dal ricercare i privilegi e il monopolio, secondo una convenienza che era giustificata dall'utile individuale e, quindi dalla superiore razionalità della "mano invisibile" (delle leggi del mercato), senza alcuna preoccupazione morale sul conservare e, anzi, determinare la povertà e l'immiserimento dei popoli interessati. 
Ne abbiamo una, non l'unica, delle riprove, in quello che fu il più grande affare di arricchimento colonialista, apertamente teorizzato come liberoscambista, del XIX secolo: il traffico dell'oppio (vicende analoghe, si svolsero, sempre in chiave di libero mercato che non doveva trovare ostacoli nei "confini" all'affermazione delle sue leggi naturali di "benessere", rispetto ai business del legno di tek o alla coltivazione intensiva dell'albero della gomma). 

7. Il traffico dell'oppio, comunque lo si voglia contestualizzare, coinvolse, in diverse forme e fasi di aggressione politico-territoriale, e quindi militare, i più grandi paesi di quella e della nostra stessa epoca, Cina e India:

"La Compagnia (britannica) delle Indie Orientali (ne esistettero anche una francese e una olandese, che ebbero la peggio nello scontro, per il dominio colonial-mercantilista, con la prima),  aveva stabilito che la coltivazione dell'oppio in India, e in particolare nel Bengala (ma non solo), dovesse divenire il suo "core business". 
[ADDE: e questo, si noti, in regime produttivo, e di vendita all'ingrosso, caratterizzato da monopolio: il processo di distribuzione e commercializzazione "a valle", peraltro, risultò poi liberoscambista "guerrafondaio", nel senso che non si ammise neppure un'eccezione normativa alla importazione, da parte della Cina, fondata su fondamentali interessi pubblici sanitari, nemmeno applicando la reciprocità di diritto internazionale, cioè riconoscendo ai cinesi di poter introdurre lo stesso standard normativo di divieto praticato sul territorio dell'Impero britannico. 
In ultima analisi, così come oggi, il liberoscambismo tende ad affermare, tramite quella che, come vedremo, Keyens definisce la "specializzazione internazionale", cioè gli effetti dei c.d. "vantaggi comparati", delle gerarchie che, - in qualsiasi regime politico sia esso propugnato, incluso il federalismo (unificatore sul piano "politico", cioè l'UE), ovvero il super-trattato per grandi aree politiche congiunte, (il TTIP)- sono gerarchie tra comunità umane, che vengono plasmate e ricondotte a diversi gradi strutturali di benessere e di prospettive di sviluppo. Chi viene posto in condizione recessiva, nella graduazione delle produzioni meno convenienti, dovrà rimanervi per sempre. La sanzione morale per qualsiasi tipo di resistenza a questo asservimento e impoverimento "relativo" (sia alla condizione precedente, sia rispetto ai paesi dominanti nella gerarchia) è oggi l'accusa di nazionalismo e populismo che "mette in pericolo la pace".
Dell'instaurarsi di tali gerarchie, considerate inevitabili e, anzi, auspicabili, i fautori dell'euro e del TTIP, (che tendenzialmente coincidono, trattandosi dell'allargamento di un unico paradigma politico-economico), non parlano mai: si tratta di un problema che i media orwelliani non trattano, se non in modo del tutto indiretto: cioè, per colpevolizzare i vari popoli circa la loro inadeguatezza "competitiva" che sarebbe la soluzione per crescere  fondandosi (solo) sulla domanda estera, celando pervicacemente che, in realtà, si mira solo a imporre riforme strutturali, del mercato del lavoro, che favoriranno, inevitabilmente, i futuri controllori esteri dell'economia degradata, all'interno della gerarchia perseguita ].
L'Inghilterra, infatti, si trovava nella scomoda posizione di essere in costante deficit degli scambi con la Cina, che produceva merci pregiate che erano effettivamente molto, troppo, richieste nel resto dei territori dell'Impero britannico.
Per non depauperare le proprie risorse finanziarie, dato che, adottando il gold standard, non poteva permettersi un costante saldo negativo (equivalente a un'emorragia di oro verso il paese creditore commerciale) con la più importante economia mondiale del tempo (appunto la Cina), stabilì di incrementare al massimo possibile la coltivazione e la lavorazione dell'oppio. Con conseguenze socio-economiche distruttive per i territori indiani sotto il loro dominio.
Tra queste conseguenze, la sistematica deportazione (oggi diremmo "arrivo di migranti"), a Sri-Lanka e nelle Mauritius - e servendosi delle navi già utilizzate per il traffico degli schiavi-, della manodopera agricola divenuta eccedente, una volta instaurata una monocultura con obbligo di una produttività "minima". Infatti,  accadeva che, ove non fosse raggiunta la quantità di prodotto prestabilita, e pagata a prezzi irrisori, all'agricoltore indiano venisse sottratta la proprietà del terreno, mediante una rapida escussione della garanzia del debito contratto forzatamente con la Compagnia. 
L'esecuzione forzata era assicurata sotto il controllo di giudici inglesi, che erano sostanzialmente dei dipendenti della Compagnia delle Indie, (dato che esercitava anche le funzioni sovrane di amministrazione di giustizia e ordine pubblico sui territori indiani). 
La Compagnia in tal modo estendeva notevolmente la diretta proprietà dei terreni utili e dediti alla coltivazione e, agendo da monopolista, tendeva a ridurre i salari e la stessa capacità di sopravvivenza dei contadini bengalesi (già resa critica dall'esistenza di una monocultura forzata). Da cui l'ulteriore ampliamento dell'ondata di deportazioni, ben controllata dal funzionamento strutturale dell'economia nel paese di partenza, e che doveva apparire come un evento quasi meteorologico nelle terre di arrivo...
L'oppio raccolto dai produttori veniva quindi raffinato nei giganteschi stabilimenti di proprietà della Compagnia e poi venduto in apposite aste a "liberi mercanti" inglesi, americani, olandesi e anche indiani; in particolare appartenenti all'etnia "parsi" (antichi mercanti persiani, ancora seguaci del culto di Zoroastro, trasferitisi, tra l'altro, nei territori indiani, in particolare nella zona di Calcutta)
I liberi mercanti erano anche armatori di navi che arrivavano principalmente a Canton (unico approdo ove era consentito il commercio in entrata dalle autorità imperiali cinesi e, tradizionalmente, un polo commerciale con "l'occidente" sviluppatosi per millenni)".

8. Ritornando all'articolo di Keynes, egli si interroga sulla efficacia dell'internazionalismo economico relativamente all'ottenimento della pace (sempre nei limiti di contesto, punto di osservazione, e di momento storico, fin qui tratteggiati; cfr; pagg.95-98): 
"...al momento attuale non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate da una grande concentrazione degli sforzi nazionali per conquistare i mercati esteri, dalla penetrazione, da parte delle risorse e dell'influenza di capitali stranieri, nella struttura economica di un paese e dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di paesi stranieri.
Alla luce dell'esperienza e della prudenza, è più facile arguire proprio il contrario
La protezione degli attuali interessi stranieri di un paese, la conquista di nuovi mercati, il progresso dell'imperialismo economico, sono una parte difficilmente evitabile di un sistema che punta al massimo di specializzazione internazionale e di diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla residenza del suo proprietario.
...Ma quando lo stesso principio (ndr; di scissione tra proprietà "azionaria" del capitale e gestione dell'impresa multinazionale, cioè che investe all'estero) è applicato su scala internazionale, esso è, in periodi di difficoltà, intollerabile: io non sono responsabile di ciò che posseggo e coloro che gestiscono non sono responsabili verso la mia proprietà non sono responsabili nei miei confronti. Vi può essere qualche calcolo finanziario che mostra i vantaggi di investire i miei risparmi in qualche parte della Terra, mettendo in evidenza la più elevata efficienza marginale del capitale o il più elevato daggio d'interesse ch eposso ricavare. Ma l'esperienza dimostra sempre di più che quando si considerino le relazioni tra gli uomini, il distacco tra proprietà e gestione è un male, e che esso quasi sicuramente, nel lungo periodo, provocherà tensioni e antagonismi, facendo fallire il calcolo finanziario."

9. Sulla scorta di questa premessa previsionale, relativa a "tensioni e antagonismi" che, col senno di poi, paiono un understatement rispetto agli eventi che si produrrano sulla scena mondiale, Keynes azzarda una ricetta, applicando la quale per tempo si sarebbe potuto evitare il disastro
I paesi colonizzati, in questo schema, avrebbero avuto un necessario grado di autonomia politica per poter sviluppare, con un ragionevole protezionismo (qui, p.6), l'infant capitalism (ben prima della fase del trentennio d'oro), i mostri del nazi-fascismo sarebbero stati (forse) in gran parte ridimensionati, sul piano delle stesse motivazioni sovrastrutturali che li animavano, dalla riapertura dei giochi (specie sulle materie prime,) e delle conseguenti "gerarchie" che erano la giustificazione per la conservazione degli imperi coloniali europei; la stessa tendenza al gold-strandard e alle politiche di bilancio austere in caso di crisi, incentrate sul riequilibrio naturale dei prezzi e dei salari, avulse dalla politica delle bilance di pagamento in attivo (o del loro equilibrio raggiunto a scapito della permanente dipendenza economica delle aree coloniali), avrebbero perso gran parte della loro implicita ragione politica (molto più forte, già allora, di quella economico-scientifica, essendo in corso già le conseguenze della crisi del '29).

10. In conclusione, a complemento del discorso svolto da Keynes, ci pare opportuno riportare l'analisi di Gramsci (citata da Francesco), che con la sua consueta nitidezza, tratteggia, in raccordo alle stesse intuizioni keynesiane, una cornice storico-economica che, oggi, risulta più che mai attuale; la visione gramsciana, infatti, appare capace di descrivere le analoghe tensioni a cui sono esposte, sempre a causa dell'ordine internazionale dei mercati come paradigma che si deve affermare a qualsiasi costo, la pace e il democratico benessere dei popoli:
"Lontani anni luce da Gramsci che non si era fatto attrarre da tali sirene, consapevole della vocazione globale del capitalismo mercataro e del falso mito dell’internazionalismo: “Tutta la tradizione liberale è contro lo Stato. [...] La concorrenza è la nemica più accerrima dello stato. La stessa idea dell'Internazionale è di origine liberale; Marx la assunse dalla scuola di Cobden e dalla propaganda per il libero scambio, ma criticamente” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, 1919-1920, Torino, 1954, 380).
E sulla “globalizzazione”, diversamente da rapporti inter-nazionali tra Stati sovrani come concepita, già allora scriveva: “Il mito della guerra - l'unità del mondo nella Società delle Nazioni - si è realizzato nei modi e nella forma che poteva realizzarsi in regime di proprietà privata e nazionale: nel monopolio del globo esercitato e sfruttato dagli anglosassoni. La vita economica e politica degli Stati è controllata strettamente dal capitalismo angloamericano. [...] Lo Stato nazionale è morto, diventando una sfera di influenza, un monopolio in mano a stranieri. Il mondo è "unificato" nel senso che si è creata una gerarchia mondiale che tutto il mondo disciplina e controlla autoritariamente; è avvenuta la concentrazione massima della proprietà privata, tutto il mondo è un trust in mano di qualche decina di banchieri, armatori e industriali anglosassoni” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, cit. 227-28).

Le conseguenze sono quelle descritte nel post, ovvero: “L'Italia è diventata un mercato di sfruttamento coloniale, una sfera di influenza, un dominion, una terra di capitolazioni, tutto fuorchè uno stato indipendente e sovrano. [...] Quanto più la CLASSE DIRIGENTE ha precipitato in basso la nazione italiana, tanto più aspro sacrificio deve sostenere il proletariato per ricreare alla nazione UNA PERSONALITA' STORICA INDIPENDENTE” (A. Gramsci, L'Ordine nuovo, cit., 262-263).

venerdì 27 maggio 2016

LA "PROFEZIA" TINA DELL'ITALIA: LA GRANDE EQUALIZZAZIONE


ETTEPAREVA...
https://i.ytimg.com/vi/l-TOMOOfr-M/hqdefault.jpg

AVVERTENZA: CHI TROVASSE FATICOSO  SEGUIRE LA LETTURA DELL'INTERO POST, PUO' ANDARE DIRETTAMENTE AL PUNTO 5 E SERVIRSI DELLE PREMESSE SOLO PER VERIFICARE ALCUNI PASSAGGI DELLE CONCLUSIONI.
1. Abbiamo più volte parlato del problema demografico che, come ognun ormai saprà, si collega a quello dell'emigrazione: noi come italiani siamo nel "nord" del mondo, si dice, perciò vecchi-vecchi e incapaci di darci da fare, sicché, abituandoci nuovamente alla durezza del vivere, avremo, si deve supporre, i mezzi culturali e, specialmente, politici per uscire dall'irreversibile declino.
Per capire i rationalia di questo ragionamento, - che ovviamente non coinvolge solo l'Italia, ma che agli italiani viene proposto con dovizia di particolari sostanzialmente colpevolizzanti e con prospettive di salvifica inevitabilità- basti leggere questo lungo studio.

2. Ne traggo un paio di passaggi a titolo esemplificativo delle conclusioni:
"Dagli anni ’90 del Novecento è iniziata nel Nord del mondo quella che alcuni demografi definiscono una “seconda transizione demografica” (ben diversa dalla seconda fase della prima transizione, descritta sopra), che caratterizzerà il XXI secolo. Essa consiste in un ulteriore declino sia della mortalità sia, soprattutto, della fecondità e della natalità, che dovrebbe avere come conseguenze, nei prossimi decenni:
a) un calo della popolazione, più o meno intenso e rapido nei diversi paesi del Nord; b) un intenso e “devastante” mutamento della loro struttura per età, con un forte invecchiamento della popolazione.
Ciò accade perché nel Nord del mondo, che aveva completato negli anni ’70 del Novecento la prima transizione demografica, il tasso di fecondità (e di conseguenza la natalità) ha proseguito a calare, ben al di sotto della media di due figli per donna che assicura il ricambio generazionale (cioè appunto la “crescita 0”, la stabilità della popolazione). Questo fenomeno, che non ha precedenti nella storia, iniziò in alcuni paesi come l’Italia e il Giappone, che sono infatti i paesi più “vecchi” del mondo, con un numero medio di figli per donna compreso tra 1,2 e 1,3; ma si è poi esteso alla maggior parte dei paesi sviluppati.
Nel Sud del mondo, sempre dagli anni ‘90, è emersa una differenza rilevante tra due situazioni (vedi tab.2):
il tasso di fecondità è calato sensibilmente, e continua ad abbassarsi verso o sotto i due figli per donna, nei cosiddetti “paesi emergenti”: la Cina, il resto dell’Asia orientale e l’America Latina;
il tasso di fecondità rimane molto alto, e cala più lentamente, in un altro gruppo di paesi localizzati nell’Asia sud-occidentale e, soprattutto, nell’Africa subsahariana: i cosiddetti “paesi “a sviluppo minimo”.

Tab.2 I tassi di fecondità, presenti e futuri, nelle diverse aree del mondo
[da A.Golini, 2011, p. 52]
Numero medio di figli per donna nel quinquennio 2000-05 Numero medio di figli per donna previsti nel 2045-50
1,6 nei paesi sviluppati (di cui: Giappone 1,3; Europa occ. 1,4; Russia, Europa or. e balcanica, Canada, Oceania 1,6; Usa 2);
2,9 nei paesi in via di sviluppo (di cui: Cina; 1,7; resto dell’Asia orientale 1,9; America Latina 2,5; Asia meridionale 3,2; Asia occidentale 3,5; Africa 5,0)
1,8 in tutti i paesi sviluppati, con oscillazioni minime (0,1) tra di essi;
2,1 nell’insieme dei paesi in via di sviluppo, ma con rilevanti differenze: America Latina, Asia orientale e meridionale 1,9; Asia occidentale 2,0; Africa 2,5.
Questa evoluzione induce i demografi a sostituire alla distinzione Nord-Sud del mondo una tripartizione fra:
A. paesi economicamente sviluppati, che si trovano ormai nella seconda transizione demografica;
B. paesi “emergenti”, che sono nella seconda fase della prima transizione demografica;
C. paesi “a sviluppo minimo”, quasi tutti nell’Africa subsahariana, che sono ancora nella prima fase della prima transizione demografica, con alti tassi di fecondità e perciò un forte aumento della popolazione.
Nella prima metà del Duemila, questi tre gruppi di paesi hanno problemi demografici molto diversi, a causa delle grandi differenze nella composizione della popolazione per fasce di età tra giovani (sotto i 15 anni), adulti in età lavorativa (15-65 anni), e anziani (oltre i 65 anni), come si vede nella tabella 3.


Tab. 3 Popolazione mondiale nel 2005 e nel 2050 (in milioni e in %) per fasce d’età e per aree
[da A.Golini 2011 su dati Onu 2007]

aree paesi “sviluppati” paesi “emergenti” paesi “a sviluppo minimo” Mondo
fasce età < 15 15-65 > 65 < 15 15-65 > 65 < 15 15-65 > 65 totale:
Nel 2005 207 823 186 1323 2941 267 318 423 25 6516
Nel 2050 189 731 325 1147 4008 1048 491 1131 120 9191 (¹)
Incremento -18 – 92 +139 -176 +1067 +781 173 +708 +95 +2675
Increm.% -0,8 -11 +75 – 13 +36 +290 +54 +167 +380 +40
2005/tot.(²) 17% 31% 15% 29% 65% 6% 41% 55% 3%
2050/tot.(²) 15% 21% 26% 18% 64% 17% 28% 65% 7%
...
Per effetto di questi mutamenti, si prevede che nella prima parte del XXI secolo:
a) la popolazione giovane (sotto i 15 anni) calerà nel mondo di circa 15 milioni, come esito combinato di: un leggero calo nei paesi progrediti (nei quali è già calata moltissimo); un forte calo (176 milioni= -13%) nei paesi emergenti; un forte aumento (173 milioni= +54%) nei paesi a sviluppo minimo.
b) la popolazione in età lavorativa aumenterà di quasi 1,7 miliardi, con fortissime differenze nelle tre aree: -92 milioni nei paesi progrediti; +1067 milioni nei paesi emergenti; +708 milioni nei paesi a sviluppo minimo: si pensi che per impiegare il 70% di questi 1,7 miliardi di lavoratori, servirebbero 1250 milioni di nuovi posti di lavoro!
c) la popolazione anziana (oltre i 65 anni) crescerà nel mondo di 1 miliardo: 140 milioni nei paesi avanzati, nei quali rappresenteranno ben il 26% del totale della popolazione; 877 milioni nei paesi degli altri due gruppi presi insieme, ove costituiranno solo il 15% della popolazione, ma con un incremento del 300%.
Per motivi diversi, perciò, saranno messi a dura prova i sistemi pensionistici e sanitari (è da ricordare che la spesa sanitaria in Italia riguarda per l’80% la popolazione di questa fascia di età): nel Nord per l’altissimo numero di anziani; nel Sud per la debolezza (o quasi assenza) di tali sistemi.

Planisfero con tassi di aumento della popolazione per aree


3. Dunque illustrazione "ONU-standard del problema", come riassunto in apertura, con la conclusione che dovremo mettere una pietra sopra ai sistemi pensionistici e sanitari (di cui non si dice se siano pubblici o meno, naturalmente: la differenza non è poca, in termini di correlazione tra le aspettative di vita e andamento demografico, come ci insegna la comparazione tra USA e Europa: almeno prima che sia completata la transizione verso l'€uropa del TTIP o altra analoga "soluzione finale"). 
Da qui il secondo passaggio "significativo" che vi riporto (sempre invitando all'integrale, per quanto faticosa, lettura):
"Una globalizzazione parziale, e i paradossi delle migrazioni attuali
Pertanto, a differenza della mondializzazione ottocentesca, l’attuale globalizzazione è parziale, nel senso che favorisce molto di più gli spostamenti di merci, capitali e informazioni, ma non quelli di persone. Mentre l’Europa d’inizio Novecento poté scaricare verso le Americhe il 20% del proprio surplus demografico, l’emigrazione dal Sud di fine Novecento e inizio Duemila è molto più contenuta, per effetto delle politiche restrittive dei paesi del Nord: consiste di circa 3 milioni di emigranti l’anno, cioè solo il 3% del surplus demografico del Sud. L’Europa occidentale aveva “esportato” tra il 1870 e il 1913 circa 15 milioni di persone: è lo stesso numero di immigrati che essa ha assorbito dal 1960 al 2000, ma con una popolazione europea più che raddoppiata. Il Nord America accoglieva un milione di immigrati all’anno nel decennio precedente la Prima guerra mondiale, e ne accoglie lo stesso numero oggi, benché la popolazione americana sia triplicata.
Nonostante la percezione comune, secondo cui l’Occidente sta per essere travolto da un’ondata migratoria, l’immigrazione recente e attuale è dunque relativamente modesta. Essa è destinata ad aumentare a causa dei due fenomeni che abbiamo visto, entrambi senza precedenti nella storia mondiale: la forte crescita della popolazione nel Sud del mondo (in particolare dell’Africa) e – soprattutto – il declino demografico del Nord del mondo, in particolare dell’Europa, dove la bassa fecondità rende inevitabili le immigrazioni, quasi come “adozioni a distanza ritardate”, secondo un’ ironica definizione del demografo Livi Bacci.
Ne discende una duplice conseguenza, molto dura da accettare e paradossale per il senso comune:
1) le emigrazioni, oggi e nel prossimo futuro, non possono in alcun modo risolvere i problemi demografici del Sud del mondo, perché la loro entità è trascurabile, rispetto all’aumento naturale delle popolazioni (a differenza di quanto accadde all’Europa nel “lungo Ottocento”);
2) le immigrazioni sono, viceversa, necessarie – e in misura ben più consistente dei loro ritmi attuali – per gran parte dei paesi del Nord, in primo luogo per quelli dell’Europa mediterranea, Italia in testa.
"

4. Rassegnatevi: è per il vostro bene. Non basta che, chissa poi perché, molti italiani emigrino per risolvere il problema demografico e di mantenimento del benessere; ci vogliono proprio più emigrati, sempre di più e proprio nel Mediterraneo, anzi "Italia in testa". E' scienza, mica si può contestare.

Un altra voce scientifica ci dice che "Il catastrofismo è un problema mal posto" e ci spiega perché, ricorrendo (anch'egli) a qualche citazione di Malthus...temperata:
"Per Malthus (1766-1834), che, oltre che economista, era anche un parroco della Chiesa d’Inghilterra, la conseguenza di questa contraddizione, oltre a dover essere affrontata sul piano di un concezione morigerata dei costumi e dei consumi, si sarebbe risolta attraverso l’alternarsi di condizioni di penuria, e quindi di privazioni e pestilenze – per non parlare delle guerre – che avrebbero rallentato gli sviluppi demografici. La tesi di Malthus era stata espressa anche da altri, in precedenza e in termini consimili.

In effetti “soluzioni” del genere, anche se non a livelli globali ma certamente in ambiti geopolitici specifici, si sono verificate e si verificano tuttora, come del resto è ampiamente noto. Queste “soluzioni” non sono state sufficienti per eliminare alla radice la contraddizione individuata da Malthus e solo la crescente produttività dell’attività agroalimentare e le rivoluzioni agricole che si sono verificate, ad esempio a meta dell’800 con le prassi dell’utilizzo dei fertilizzanti, ha consentito di evitare soluzioni più drastiche di quanto in realtà si sia comunque verificato. Tuttavia anche queste innovazioni non sono state tali da eliminare l’origine della questione; anche perché secondo altri economisti quella questione era connessa a un altro processo e in particolare al fatto che le retribuzioni del lavoro erano tenute ai livelli di sussistenza, per cui appena venivano conquistati livelli retributivi migliori si accresceva la domanda alimentare con conseguente crescita dei prezzi e riduzione delle disponibilità. (...!!!)

La questione della contraddizione demografica solleva tuttora preoccupazioni e induce anche atteggiamenti e attese drammatiche, trovando inoltre appoggio negli atteggiamenti di critica verso il consumismo e gli sprechi, sino agli scenari e alle ipotesi della “decrescita felice”, una definizione che sembra promettere romantiche condizioni di beata soluzione finale.

Non c’è dubbio che se gli andamenti demografici fossero sempre quelli che allarmarono Malthus, anche supponendo aumenti della produttività agroalimentare eccezionali, la contraddizione prima o poi scoppierebbe e, quindi, le varie considerazione connesse a questa ipotesi dovrebbero essere attentamente valutate ai livelli della più alta responsabilità.

Sembra tuttavia che ci sia ormai in queste posizioni variamente allarmate, o una componente di tipo masochista o anche di tipo metafisico-idealistico, o anche solo consolatorie rispetto al fallimento di altre ipotesi di crisi del sistema economico, sino a posizioni reazionario e classiste. Questo perché è da alcuni decenni che gli studi e le rilevazioni in materia di andamenti attuali della popolazione mondiale indicano non più curve esponenziali ma un andamento asintotico verso valori di equilibrio intorno ai nove-dieci miliardi di persone (vedi grafico 1)

con andamenti della variazione percentuale annua che tende verso lo zero o anche oltre (vedi grafico 2)

e con la possibilità, quindi, di una riduzione dei valori assoluti oggi previsti. 
Naturalmente tutto questo senza ipotizzare stragi o epidemie, ma anzi, prendendo atto che, in parallelo, l’aumento della produttività anche in campo agroalimentare assicurato dallo sviluppo delle varie tecnologie, compreso l’eliminazione di vari errori connessi in questo campo, ha garantito una potenzialità produttiva di prodotti alimentari in grado di soddisfare la domanda globale. Se di fatto si assiste ancora a situazioni di gravi carenze alimentari la causa va ricercata nella cattiva distribuzione delle risorse, non nella loro scarsità.
...

Uno scenario demografico di equilibrio non è solo una novità di evidente rilievo ma pone questioni non tutte facilmente individuabili, prevedibili o valutabili. Anche perché questa “novità” si inserisce in un contesto storico e politico dove si muovono anche altre “novità”. Basti pensare al processo della globalizzazione nella sua attuale versione planetaria; o al forte allungamento della durata media della vita, con la prospettiva di un welfare che dovrebbe, alle condizioni attuali, prevedere alcuni decenni di attesa inerte, poco confacenti con un qualche criterio, appunto, di welfare; o alle capacità del sistema delle biotecnologie e delle tecnologie agroalimentari di essere uno dei grandi attori dell’attuale processo di sviluppo; o alle rivoluzioni tecnologiche che possono prevedere la possibilità di produrre con la metà o un terzo del fattore lavoro attuale quanto necessario per soddisfare una domanda a sua volta tutta da ricomporre in base ad altre trasformazioni sociali, ambientali e culturali...

5. Insomma, riassumendo: la tecnologia ci salverà, grazie alla globalizzazione. Ma anche la redistribuzione planetaria della popolazione, sia pure ad andamento asintotico, cioè tendente ad aumentare in modo decrescente fino a un punto di tendenziale stabilizzazione, e quindi una benvenuta e ragionevole, immigrazione sud-nord, ci salverà: grazie, sempre, alla globalizzazione.

Siccome le contraddizioni di queste varie versioni sono evidenti, almeno sotto il profilo della vaghezza delle effettive e concrete soluzioni proposte (sì, ci dicono che la soluzione complessiva di tutti i problemi concomitanti è difficile, ma pure che l'immigrazione è inevitabile e bella: TINA. Punto), provo a riempire un po' i vuoti relativi. Ma in (relativa) sintesi.

6. Dunque:
a) di qui al 2050 ci sarà l'immigrazione di massa specialmente dalle aree a più alta natalità verso l'€uropa: ma non perché lì, secondo le tendenze rilevabili, ci sia un "eccesso di nascite" (come abbiamo visto): no, piuttosto perché da noi, chissà perché (a parte, la pseudo-spiegazione c'è tanta "grisi" economica, dovuta agli eccessi pensionistici e del debito pubblico, v. parte finale in crescendo) i gggiovani, disoccupati ma anche un po' "fannulloni" non escono di casa, specialmente in Italia, e non mettono su famiglia. Anzi emigrano, ma-non-è-una-soluzione; v. sempre prima fonte linkata dove in apposito box, number 5, ci viene rimproverata la chiusura in noi stessi e di viene additata la Germania come modello ideale di soluzione, così, senza esitazioni: "E l’altra “grande anziana” d’Europa, la Germania? Sta da anni rimediando al problema con il ritorno a politiche tese a favorire l’immigrazione qualificata, tanto da essere diventata oggi il secondo paese al mondo, dopo gli Stati Uniti, per numero di immigrati".

b) Non solo, dunque gli immigrati non vengono a causa delle "troppe" nascite ma, sempre, per farci un piacere, vengono semmai per accettare, volenterosi, i nostri lavori meno qualificati; e questo nonostante che risulti, uno "stereotipo (illusorio o strumentale che sia, poco importa) quello secondo cui “gli immigrati arrivano a causa della povertà e del sottosviluppo dei loro paesi, perciò per aiutarli a non avere bisogno di emigrare il rimedio è di favorire lo sviluppo interno dei paesi del Sud”. (infatti v. box 2: "Si possono individuare stadi diversi nella propensione a emigrare. I paesi molto poveri, e in qualche modo esclusi dai processi di globalizzazione, hanno scarse possibilità e propensione all’emigrazione, benché i benefici attesi possano essere molto considerevoli; infatti il “costo di entrata” nelle correnti migratorie è elevato, perché mancano la conoscenza e le risorse per competere con correnti già esistenti, preferite dai paesi di destinazione. Potrebbe così spiegarsi il caso dei paesi subsahariani che, nonostante la povertà estrema, hanno tardato a sviluppare consistenti flussi di emigrazione verso i paesi ricchi. Poi, quando lo sviluppo si mette in moto, il costo relativo di “entrata” nei flussi migratori relativamente ai benefici diminuisce (maggiore istruzione, capacità di affrontare il costo di spostamento ecc.). Così si spiega il paradosso dell’Asia, dove i paesi più poveri (Afghanistan, Laos, Vietnam, Cambogia) sono rimasti esclusi dalle correnti internazionali, mentre paesi in forte sviluppo (Indonesia, Malesia, Corea del Sud, Thailandia) hanno contribuito ai grandi flussi migratori verso i paesi asiatici occidentali produttori di petrolio. In uno stadio successivo, durante il quale si raggiungono più alti livelli di istruzione, moderati livelli di benessere, aspettative di ulteriore crescita, il costo relativo di abbandono del proprio paese comincia ad aumentare per cui la propensione a migrare decresce. Si spiegano così, in larga parte, l’esaurirsi dei flussi dall’Europa mediterranea verso l’Europa più ricca durante gli anni ’70 (....? E allora come mai sono ripresi? ndr.); il mancato avverarsi delle previsioni di esodo verso occidente delle popolazioni coinvolte nel crollo dell’Urss (ndr; ma davvero rumeni non vengono in Italia, polacchi non vanno in Germania e in UK e...poi: gli ungheresi non dovrebbero stare in fuga di massa dalla dittatura antieuropea di Orban?); la debole mobilità interna all’Unione Europea nonostante il permanere di forti sperequazioni di reddito". Ndr.: "Debole" mobilità interna? Chiedere a greci, portoghesi e spagnoli e magari pure ai "baltici", p.4: dove li hanno presi i dati e come stimano tale debolezza in rapporto alla percezione sociale e culturale degli interessati?);

c) nonostante le rassicurazioni, del "non" ricorso di eventi malthusiani (guerre, carestie e epidemie), tuttavia ci raccontano ogni giorno a reti unificate che i "migranti" (come gli uccelli e gli zebù, non come "persone") vengono dalla povertà e dalla disperazione. Che possano mai mentirci? Naaa...
Si mettano d'accordo a livello scientifico: magari non cambieranno i numeri, che sono in crescita e non si stanno rivelando, come "lamentato", affatto modesti, in rapporto alla disoccupazione strutturale dell'eurozona e, certamente italiana. E neppure cambierà le qualificazioni lavorative di chi arriva che non risultano essere eccelse (almeno considerando che la maggioranza degli "accolti" sosta, sussidiato a carico dell'odiata spesa pubblica, per anni in alberghi riadattati e non sente questa ineludibile esigenza di applicare queste professionalità) e che, per di più, data l'affermata povertà e disperazione, neppure si riscontra che NON si tratti di persone che arrivano da aree "escluse dai processi di globalizzazione" (infatti, arrivano dalla Libia, ma il loro viaggio non parte dalla Libia, cioè non si tratta di libici, ma di popolazioni sub-sahariane e dell'Africa equatoriale...);

d) risulta peraltro alquanto elusivo il concetto di "aree escluse dai processi di globalizzazione" per un'Africa e un Medioriente che risultano ben avvinti tra politiche economiche imposte da FMI e da World Bank, con apposite classifiche "mondializzate" delle riforme, e guerre generate da squilibri innescati da interferenze alquanto internazionalistiche: esportazioni di democrazia e "primavere" varie, che, guarda caso, hanno condotto proprio allo smantellamento dei precedenti Stati, che, pure, erano dotati di ampi sistemi di welfare e di intervento pubblico, accuratamente sconsigliati dalle autorità sovranazionali ai nuovi governanti..."neo-democratici" (cfr; p.4);

https://blognomos.files.wordpress.com/2014/03/20140310-212751.jpg

e) ma torniamo al mercato del lavoro imposto in €uropa con le riforme incessanti: infatti, da noi, ad es; manca ancora la prevalenza della contrattazione aziendale e la sterilizzazione di quella collettiva nazionale, come va ripetendo la Commissione UE (qui, p.16) e come ci consiglia, imperterrito, anche il FMI. Dunque, tutte le teorie che precedono accolgono l'idea che
e1) l'arrivo di nuova forza lavoro, necessariamente dequalificata, non nuoccia al mercato del lavoro italiano e ai suoi crescenti livelli di disoccupazione e sotto-occupazione precaria. Attestati, anche dall'ultimo rapporto INPS, come in acutizzazione
e2) che tra il protrarsi di questa ultradecennale situazione di precarizzazione, che mostra evidenti limiti sistemici sul livello decrescente di popolazione attiva e sulle rilevazioni dell'effettiva disoccupazione, non abbia alcuna influenza sul calo demografico "autoctono" (a parte la spiegazioni dell'eccessivo peso pensionistico e del debito pubblico brutto-che-fren-la-crescita); un calo che, invece, si manifesta evidente non appena si attuano in Italia le politiche monetariste-deflazionistiche di cui parlava, oltre 30 anni fa, Federico Caffè. Ben confermato dall'andamento demografico italiano, guarda caso, successivo all'introduzione dello SME e del divorzio tesoro-bankitalia;

http://images.tuttitalia.it/grafici/italia/grafico-censimenti-popolazione-italia.png

f) ne discende che chi non conosca il paradigma economico mondialista, - e lo dico così perché cerchiamo di fare una sintesi e per approfondire abbiamo messo a disposizione una gran mole di materiale e di dati- e cioè il combinato disposto della legge di Say e della teoria dei vantaggi comparati, semplicemente non è in grado di descrivere che dati estrinseci, cioè effetti slegati da qualsiasi diagnosi attendibile, e neppure di individuare le tendenze reali future, ignorando i decisivi elementi istituzionali dei fenomeni. Vale a dire, si ignora totalmente come trattati internazionali, dettati dal diritto internazionale privatizzato, in esecuzione di un disegno ben delineato da decenni, abbiano predisposto che un quadro vincolante in modo che le cose dovessero andare in questo modo, continuando a imporre agli Stati di legiferare, secondo dettagli curati in ogni minimo particolare per suscitare uno "stato di eccezione", sì da assecondare le tendenze a cui la pretesa "migrazione" indispensabile sarebbe di rimedio. 
Non c'è alcun fenomeno inevitabile di tipo naturalistico e spontaneo nello sviluppo demografico e diseguale del mondo intero.

7. Alla fine concludiamo illustrando un semplice meccanismo: dai paesi di provenienza, per via autonoma sottoposti alle "riforme" indispensabilissime dettate da FMI, WB e rivoluzioni democratiche, arrivano persone umane, sradicate dalla loro comunità, per via del fatto che gli si prospetta, in base ad una propaganda in situ accuratamente finanziata, che avranno comunque migliori prospettive in €uropa, dove il welfare è un bengodi di cui potranno facilmente fruire; intanto, "stranamente", gli "autoctoni" vengono privati di questo stesso welfare...il che accelera il processo di denatalità e di sostituzione "inevitabile" e accorcia le aspettative di vita. Pensa un po'. 
Ma i migranti non rimarranno a bocca asciutta: al più potranno comunque fruire di un "welfare" di accoglienza, più o meno prolungato, e già in atto, che li ammorbidisca circa le future pretese lavorative e li renda comunque consapevoli che, seppure volessero tornare indietro, staranno pur sempre un po' meno peggio.
Ma questo solo in attesa che la loro situazione e specialmente quella dei loro figli nati all'estero, con l'applicazione delle politiche di pareggio di bilancio, diventi praticamente di indifferenza: ma nel frattempo, loro e i loro figli si saranno radicati e rassegnati, con qualche concessione legislativa di active action per l'accesso ai diritti politici. Naturalmente, diritti acquisiti in progressiva sostituzione dei calanti autoctoni destinati a estinzione: quest'ultima, peraltro, accelerata dal declinare delle aspettative di vita dovuto agli inevitabili tagli dei precedenti livelli delle prestazioni pensionistiche e sanitarie publiche (già abbondantemente in atto). Perfetta coordinazione: as simple as that. Non ci vuole un genio per capirlo.

8. Nel mezzo di questo piano di perfetta creazione di uno stato di equalizzazione di condizione civile tra paesi di provenienza e paesi di accoglienza, c'è ovviamente il grande guadagno di un aumento della produttività del lavoro, dovuto al suo progressivo minor costo costantemente realizzato. 
Ma come, direte, anche in Italia dove a differenza che in Germania, non stiamo cercando di prendere i lavoratori effettivamente qualificati (magari dagli altri paesi europei, essendo anche noi, semmai, fra i cessionari - alla Germania et UK- di competenze e qualificazione)? 
Beh, se si fa questa obiezione, ci si dimentica dell'effetto programmatico di lungo periodo dei "vantaggi comparati": in Italia devono rimanere:
- "fabbriche cacciavite" per manifatturiero a crescente intensità di impeigo di forza lavoro, passando in mani estere (con depredazione o chiusura) le filiere ad alto valore aggiunto=>; quindi, operai non particolarmente specializzati (con ampia utilizzabilità della forza lavoro immigrata);
- "turismo" in mani progressivamente di investitori altrettanto esteri (al più le nostre tasse, finchè saremo i n grado di sostenerle serviranno a finanziare le infrastrutture a favore di tali investitori esteri)=>; quindi, lavoranti stagionali con altrettanta impiegabilità di immigrati e, al massimo, degli italiani più fortunati e volenterosi, camerieri e bagnini per vocazione (secondo buona parte della nostra classe di espertoni commentatori);
- "agricoltura" per qualche coltivazione con impiego di manodopera intensiva a costo bassissimo o su culture particolari "di nicchia"; anch'esse, se ritenute sviluppabili, in chiave liberoscambista, in crescente controllo estero (vedi alla voce "vino", "dolciario" e, magari, tra un po', prosciutto e parmigiano)=>; quindi, senz'altro, manodopera di immigrazione che non si tira indietro di fronte ai paghe e orari in crescente peggioramento.  

9. Nel corso di tutto questo bel processo TINA ci starebbe pure un certo pericolo di terrorismo e di inquietudine politico-sociale: ma, niente paura, per questo basta smettere, al momento opportuno, di finanziare i relativi "motori" ideologici e operativi, attualmente incentivati e sospinti perché facciano il loro compitino di destabilizzazione delle aree di provenienza e di creazione di "stato di eccezione" nei paesi di accoglienza. Niente che non si possa riassorbire al momento ritenuto di ultimazione della "grande opera", stando, nel frattempo, dentro a aree appositamente fortificate e presidiate.
Al massimo potranno essere in pericolo, al cessare di questi compiti così "delicati", i dipendenti delle ONLUS-ONG (espertoni e agit-prop del mondialismo e della neo-lingua della neo-democrazia): ma probabilmente verranno premiati in altro modo.
Lo Stato minimo mondialista, infatti, non avrà strutture burocratiche e tutto sarà privatizzato: cosa c'è di meglio di ONLUS-ONG "mondiali", riconvertite a funzioni privatizzate di gestione dei "beni comuni" (ma solo se sarete buoni e vi meriterete questa privatizzazione così...democraticamente partecipata)?