giovedì 24 settembre 2015

TTIP, DIESEL E STRUTTURA OLIGOPOLISTICA NEI MERCATI GLOBALIZZATI

http://image.slidesharecdn.com/lezione8-100319143639-phpapp02/95/lezione-8-6-728.jpg?cb=1269009573
Sulle "esternalità" derivanti dalla inefficienza del mercato...

1. Un breve "memento" argomentato sulla questione "emissioni" delle auto diesel e lo scoppio, in USA, della questione VW.
Lo spunto, (non sorprendentemente), ce lo fornisce questo commento di Arturo:
"Stavo leggendo un articolo su NachDenkSeiten sulla truffa della VW: a quanto pare si tratterebbe solo della punta di un iceberg di pratiche diffuse in tutto il settore automobilistico (c'è perfino il link a un articolo di una specie di 4 Ruote tedesco che aveva già segnalato truffe simili da parte della BMW). Le conseguenze sono potenzialmente devastanti.
L'autore osserva però che le più severe norme americane sulle emissioni sparirebbero da un giorno all'altro solo che...si firmasse il TTIP! E qui, come diceva il tale, la domanda sorge spontanea
..." 
"Non posso che dire LOL!
E ti pare che dovendosi mettere sul tavolo del negoziato una miriade di standards ambientali, primi il fracking (per dire) e gli OGM, ci mettiamo a sottilizzare sulle colpe del principale alleato - e unico con prospettive di sopravvivere- della grande "sorpresina" TTIP?
"

2. Per rammentare alcune essenziali informazioni di contesto andiamo un attimo a ritroso.
Questo è lo sfondo globalizzato dei (macro)trattati liberoscambisti "atlantico" e "pacifico" (in senso geografico, attenzione):

"Oggi si stanno lamentando della crisi dei BRICS che porrebbe in pericolo il meraviglioso mondo della crescita "tumultuosa e maravigliosa" ottenibile, a quanto pare solo con la "globalizzazione"
Almeno così leggiamo: naturalmente, riponendosi somma fiducia nel paradigma liberoscambista - (liberalizzazione dei capitali, accordi tariffari e sulle barriere non tariffarie, adozione del complementare modello "universale" di banca e, naturalmente, banche centrali indipendenti dai governi eletti, si spera, democraticamente)-, si auspica che nei BRICS si facciano più "riforme". E cioè si apra ulteriormente al commercio estero (leggi importazioni in cambio di materie prime), favorendo gli investimenti esteri (leggi mercato del lavoro totalmente liberalizzato e precarizzato e privatizzazioni delle industrie e assets pubblici degli stessi BRICS).
E tutto questo, appunto, affinchè riprenda...la crescita, nei paesi emergenti come anche, appunto, grazie alle esportazioni, nei paesi dell'eurozona e in quelli esportatori di capitali a vario titolo: gli USA, infatti, fanno un gioco a sè, pur essendo importatori di ultima istanza per tutto il mondo

Che, però, ora, vorrebbero legare a sè, e più esattamente al dollaro, attraverso i trattati "ultraoceanici" - TPP e TTIP+ TISA-, che servono essenzialmente a creare una dipendenza finanziaria delle intere aree coinvolte dal dollaro e dalla invasione a tappeto dei grandi istituti finanziari USA sui settori da liberalizzare, lasciando la specializzazione manifatturiera di Giappone e Germania in posizione di preminenza, mentre tutto il resto dei paesi coinvolti sarebbero grosso modo colonizzati, finanziariamente e industrialmente."

3. Questo poi è lo sfondo del mercato oligopolistico che tende a prevalere, nel caso di liberalizzazione della circolazione dei capitali- sistemativa delocalizzazione produttiva- creazione dimercato globale, con un ovvio rafforzamento dei suoi meccanismi tipici e praticamente inevitabili:
"Hermann Levy, uno storico economico tedesco ha evidenziato  come, nell'industria moderna, si sia passati da una fase in cui sono prevalse piccole formazioni monopolistiche, ad uno stadio concorrenziale, ad una fase in cui si è affermata la concentrazione industriale e in cui sono prevalsi grandi formazioni produttive con situazioni di monopolio/oligopolio. Queste formazioni monopolistiche al di là dei casi in cui si sono formate per effetto di specifiche politiche statali, soprattutto negli ultimi anni si sono formate ad opera di potenti coalizioni d'interessi economici privati (non è un caso che si siano formati anche in paesi molto diversi tra loro e perfino in paesi che avevano antiche tradizioni liberistiche, a dimostrazione che non si tratta di trasformazioni accidentali, bensì, di un processo).

Levy ha spiegato le ragioni per cui si è arrivati a tali concentrazioni (progresso tecnologico, incremento dei mezzi di trasporto, aumento del volume di capitale minimo necessario per avviare la produzione ecc) ed ha  chiarito che quando in molte industrie la concentrazione tecnica e quella economica sono divenute molto elevate, sono sorte le premesse per la concentrazione finanziaria, non solo fra imprese dello stesso ramo, ma anche fra imprese di rami diversi, con collegamenti che necessariamente comportano un coordinamento nella politica dei prezzi e degli investimenti delle diverse imprese.

E’ importante anche evidenziare che quando la concentrazione, in un determinato ramo produttivo, ha raggiunto un livello molto elevato, importa poco stabilire se essa sia andata aumentando o diminuendo: se le imprese grandissime, da quattro che erano in un certo momento, diventano tre, ovvero cinque, la situazione e la forma del mercato in sostanza non mutano: in esso praticamente si e raggiunto il limite della concentrazione.

L'oligopolio, dunque, non appare come un caso teorico particolare, ma come la forma di mercato più frequente, se pure variamente configurata, nella moderna realtà economica.

In particolare è l’oligopolio concentrato a rappresentare la nuova forma di mercato e sebbene questo si presenta soprattutto nell'industria manifatturiera, nei paesi evoluti, nel periodo più recente, si è verificato pure nel commercio-distribuzione di prodotti di largo consumo (grazie anche allo sviluppo dei mezzi di pubblicità).

L’Oligopolio, quindi, vede la presenza di un numero assai limitato di imprese, ciascuna delle quali controlla una quantità considerevole di produzione, di vendita di consumo di un bene (imprese petrolifere, automobilistiche, aeronautiche, assicurative, telefoniche, informatiche).

La concentrazione su pochi soggetti porta a un significativo potere di mercato con ampia capacità di determinazione o influenza sul prezzo, spesso espresso dall’impresa considerata leader; il contesto economico può essere considerato calmierabile solo parzialmente in virtù della possibile concorrenza da parte di altre imprese già presenti o comunque desiderose di entrare nel lucroso mercato. Ma la strategia seguita da queste imprese per controllare la concorrenza (o mantenerla all’interno della cerchia degli oligopolisti presenti e non accrescerne il numero) è quella di concordare tra gli interessati, in modo collusivo, un prezzo superiore a quello marginale in danno del consumatore.
L’oligopolio tende quindi a trasformarsi in una forma di "cartello", che equivale, negli effetti economici, alla più insidiosa forma di monopolio: quello ragginto attraverso intese occultate ai consumatori."

4. Lo schema generale della struttura di mercato liberoscambista globalizzata, dunque, si può riassumere nella formula "COLLUSIONE IMPLICITA", che tende ad assumere le forme più svariate di connessione tra operatori "dominanti" onde trasmettersi reciprocamente informazioni su processi di produzione e innovazioni-caratteristiche dei prodotti (vedremo "non differenzianti").
Ad esempio; bollettini di associazione di categoria, spesso formalmente nazionali, ma riprodotti omogeneamente a livello internazionale, con illustrazione di "tendenze" commerciali, produttive e tecnologiche, apparentemente rivolte al pubblico ma "decodificabili" dagli interessati, ovvero, simultaneamente, circolazione dei top-executives e managers tra i vertici di imprese in apparente concorrenza tra loro. (Questo fenomeno "strutturale", lo abbiamo visto sintetizzato così nell'immagine di apertura di questo post).



5. Capite bene che è improbabile che una strategia di riduzione dei costi - estranei rispetto alla fase di differenziazione estrinseca del prodotto-, sia adottata unilateralmente da una sola impresa global-oligopolistica e mantenuta come vantaggio concorrenziale per un tempo indefinito e, per di più, senza reazioni di "allineamento" da parte degli altri operatori.
Naturalmente, la differenziazione di prodotto finale (nel caso l'auto) è un fatto essenziale, ma rimane compatibile con l'allineamento di costi e tecnologie riguardanti le caratteristiche e i processi produttivi non differenzianti, proprio perchè, spesso, rispondenti a quel criterio di omogeneizzazione derivante dagli standards normativi (tipici quelli "ambientali"). 
Cioè la instabilità delle "collusioni", che pure si registra in forme "cicliche"di accentuata concorrenzialità, tende a essere mitigata proprio sul terreno condiviso del nemico "comune", cioè la regolazione pubblicistica di un'autorità che tenda a conformare la produzione per ridurne le c.d. "esternalità" in danno della comunità sociale (dei cittadini, prima ancora che degli utenti, com'è evidente nel caso considerato).

Questo, spero ora sia più chiaro, spiega il contenuto dell'articolo citato nel commento di Arturo come pure la miglior comprensibilità della faccenda nel contesto delle strategie che spingono verso la conclusione del TTIP.
Non dimentichiamo che esso muove, dichiaratamente, dall'esigenza di abbattimento delle "barriere non tariffarie", come principale materia di agevolazione del "libero scambio", sicchè deve necessariamente risultare conveniente proprio nella forma dell'allineamento degli standards normativi, specialmente quelli in materia di concomitanti "interessi pubblici" che questi standards, teoricamente, dovrebbero considerare (ambientali, appunto, relativi alla salute pubblica o alla pubblica sicurezza, di tutela del lavoro, ecc.). 
L'allineamento tra gli ordinamenti coinvolti, per risultare "agevolativo" tenderà naturalmente a convergere sullo standard meno "elevato", cioè più favorevole all'abbassamento dei costi, comunque considerati, della "impresa globale". 
D'altra parte la concorrenza tra "sistemi", nel senso della efficienza supply side è già intrinsecamente la filosofia che ispira il trattato di Maastricht e che spiega  slogan  come "limitare il perimetro dello Stato", "deregulation" e "fortemente competitivo" ...
 

2 commenti:

  1. Il presente post insieme con il seguente

    http://orizzonte48.blogspot.it/2013/08/vi-sottopongo-tradotto-da-sofia-un.html

    descrivono un quadro sintetico e accurato della congenita e assoluta pericolosità di affidare la produzione mondiale all'impresa privata. Più l'impresa privata è grossa e maggiore è il rischio (e la dimostrazione c'è già stata con le banche).

    Speriamo che si metta a parlare di concetti del genere anche qualcuno che abbia chances di essere preso in considerazione ai più alti livelli accademici ... (le banche sono tabù ma la VW?)

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    1. Concordo con la pericolosità, direi ormai congenita, di affidare la produzione all'impresa privata.
      Come è possibile conciliare due cose, responsabilità sociate vs ambiente e profitto, che sono incompatibili? Vecchio tema, ma dicotomia mai risolta.
      Il potere raggiunto dai gruppi multinazionali ( bancari/finanziari e produttivi ) è qualcosa di reale, concreto e visibile,e viene spesso dagli stessi per imporre i loro modelli culturali egemonici, appunto vedi i tpp,tisa e ttip,la ue, il sistema euro ( elenco lungo e noioso ).
      Il paradosso dei liberisti, ma quelli inconsapevoli e del mercato belloefficienteecc., è che tutte le deregolamentazioni effettuate ed effettuabili, vanno nella distruzione del loro "dio mercato", perché prima o poi l'effetto endogeno in molti di essi ( dei mercati ) finirà col fagocitare e annichilire ogni supposta concorrenza tra imprese. Le grandi distruggeranno quelle piccole, ovvero una inevitabile nemesi storica.
      Poveri noi.

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