martedì 30 settembre 2014

WELFARE NUOVO, RECESSIONE VECCHIA (MA SEMPRE DI MODA)

 

No, non vi parlerò nuovamente dell'art.18: la memoria degli italiani è ormai condizionata troppo "a breve" per rammentare che si tratta di una conseguenza diretta della "estorsione", cioè di un ordine diretto, - e corredato da minacce esclusivamente dirette ad un'Italia governata da imbelli privi di qualunque senso dell'interesse nazionale-, provenienti dalla Trojka; questa va intesa come momento di saldo tra spinte liberiste USA (con annessi investitori esteri della più predatoria matrice finanziaria) e ordoliberismo mercantilista germanico (che predica bene a casa propria e razzola malissimo, altrettanto impunito, a danno degli altri).

Mi basterà dirvi che non è la disciplina dei licenziamenti con reintegra la posta in gioco, essendo stati sostanzialmente disciplinati già dalla precedente riforma Fornero ed in termini pressocchè identici, - salvo qualche dettaglio mal interpretato-, a quelli di cui oggi si discute (nella totale ignoranza del concreto stato della legislazione già vigente): no, la posta in gioco è la realizzazione del nuovo welfare che andrebbe accompagnato ai diversi "stadi" e fonti di disoccupazione che il sistema, orgogliosamente coatto nell'adempiere agli ordini sovranazionali, stabilizza ed incentiva.
Questo nuovo welfare, infatti, restringerebbe la cassa integrazione nelle sue forme attuali, allargherebbe la platea dei legittimati al sussidio di disoccupazione, includendovi lavoratori precari (in tipologie non ancora ben definite), mentre, in piena frenesia "cosmetica", riconoscerebbe sostegni economici di maternità anche alle lavoratrici "autonome" e via dicendo. Non c'è limite all'indoramento della pillola.


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Comunque, fermo restando che il nuovo "sussidio universale" innesca automaticamente la corsa al ribasso accelerato dei livelli salariali sui (presunti) nuovi lavori - che semmai si collocherebbero nel settore degli oligopoli gestori della distribuzione e dei servizi nonchè nelle fabbriche cacciavite a proprietà estera cui si sta riducendo progressivamente il manifatturiero-, cerchiamo di capire quanto costerebbe.

Qui siamo nel più irresponsabile e demagogico (non sia mai ci fossero elezioni in vista) marasma: per quanto riguarda il sussidio di disoccupazione, oggi definito ASPI, "il costo della misura è tra 8 e 18 miliardi. Ma stime attendibili bisogna aspettare di sapere in cosa consiste l’estensione, per quanto tempo e in che misura sarò prevista (oggi l’Aspi è intorno all’80% e dura da 12 a 18 mesi)."

A questa improvvisazione, che certamente non può essere indifferente sul destino di milioni di lavoratori, occorre aggiungere "una sorta di piano industriale per i singoli settori» (energie alternative, chimica verde, beni culturali…) sfruttando l’innovazione applicata alla ricerca e le potenzialità dei distretti tecnologici «che possono unire la capacità di investire sulle nuove generazioni con l’esperienza, la saggezza e la bellezza dei più grandi»." 
Non credo che questo programma possa essere attuato con zero risorse pubbliche: quantomeno dovrebbe essere innescato da misure di agevolazione fiscale se non crediti d'imposta e sgravi contributivi. E non sarebbe praticabile se non avesse un costo di "X" miliardi, allo stato attuale. 
Vedrete che tireranno fuori il mitico piano Juncker di investimenti e i fondi UE da "confinanziare" magari al 25% anzicchè al 50% (adempiuta la riforma strutturale deflattiva del lavoro si spera in questo).

Niente paura: si tratta di somme che o saranno oggetto di pesanti condizionalità sul raggiungimento degli obiettivi di indebitamento e di riduzione del debito pubblico dettati dal Fiscal compact, o si tratta di briciole e di risorse assolutamente inadeguate. E comunque a carico pubblico nella gran parte dello sforzo effettivo per innescare il (sempre) presunto "effetto leva" tra fondi pubblici e privati che darebbe luogo al totale "ipotizzato" dall'altrettanto mitico Juncker.

Draghi Juncker

Il problema è che in tale dimensione finanziaria di intervento, tra neo-welfare e piani "industriali" di rilancio- e ci aggiungiamo l'inevitabile ritorno alla carica della "riduzione del cuneo fiscale" (o estensione a regime degli 80 "euri" fate voi)-, potremmo fare un calcoluccio ad occhio ed a spanne (l'improvvisazione attuale non lascia adito ad altro criterio): diciamo una decina di miliardi per il solo "grande-ASPI", un qualche centinaio di milioni per la maternità delle lavoratrici autonome, un'altra decina di miliardi per qualche forma di taglio del cuneo fiscale, qualche miliardo per cofinanziare i "piano industriali di settore". 
Facciamo, con la dovuta cautela, un 25 miliardi?

Aspettate, come nel caso del decreto "sblocca-Italia, in cui le risorse aggiuntive sono risultate alla fine di 200 milioni, essendo il resto il reimpiego di fondi già stanziati e sottratti ad altri capitoli di spesa, si provvederà mediante tagli da altre parti, nella spesa pubblica, - e scommetto su pensioni e sanità- e nel più che sicuro piano di attuazione del taglio delle deduzioni e detrazioni ai fini tributari. E magari nella vista accelerazione della revisione delle rendite catastali: con gli effetti che sappiamo.
Ma questi tagli, per essere "credibili" dovranno pure essere rispettosi degli obiettivi di medio termine nella riduzione del deficit pubblico (su cui i vari Schauble e Katainen e gerarchi eurocrati hanno già preannunziato "tolleranza zero"): cioè imporre, per il 2014, una drastica riduzione dell'indebitamento.

Non mi ripeterò su come tutto ciò sia affetto da miopia suicida nel considerare l'effetto del moltiplicatore fiscale e la insostenibilità dell'euro (guarda un po' "dove" se ne stanno accorgendo!)
 
Diciamo solo che qualunque minima realizzazione di questi obiettivi tra loro del tutto inconciliabili si potrà solo misurare in diverse misure percentuali di (grave) recessione (e disoccupazione acuita) che deriveranno dall'esito della "grande manovra" (preelettorale?) che ci attende.


domenica 28 settembre 2014

PRO-MEMORIA: MANTENERE LA TEORIA E CAMBIARE I FATTI

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Sofia ci manda un pro-memoria che focalizza il "trend" della pseudo-informazione. Il mainstream non è mai stato così compatto e sfacciato nelle sue interpretazioni. A proposito, come mai con una svalutazione dell'euro sul dollaro, da inizio anno, già stimata in circa il 7,5%, - e che, secondo gli espertologi italici, corrisponderebbe invariabilmente ad un'inflazione nella stessa misura-  siamo alle prese con la deflazione?



L’Euro è un artifizio che sta determinando solo distruzione  e le giustificazioni fornite ai presunti vantaggi che l’euro determinerebbe sono un insulto all’intelligenza di tutti quei cittadini che versano in uno stato di povertà sempre più diffuso, dei giovani che vedono dissolversi ogni prospettiva dietro i dati, sconcertanti, della disoccupazione, di quelli che si sono rassegnati ad una diminuzione costante e continua dei servizi pubblici e non hanno abbastanza sicurezze economiche da permettersi (laddove è possibile almeno sostituire un servizio pubblico con uno privato) le assicurazioni private.

Come ha evidenziato  in questo articolo Stiglitz "Se i fatti non corrispondono alla teoria, cambia la teoria". Ma quello che è incredibile è che qui si mantiene  la teoria e si cambiano i fatti, anche se questi  continuano a negare la realtà.
Come in una sorta di gioco delle tre carte scambiano continuamente le cause con gli effetti e viceversa se ci va bene, perché arrivano anche a dare agli effetti cause diverse, ed effetti diversi alle cause.

Ne è un esempio l’imposizione reiterata ed ingannevole di limitazioni  della SOVRANITA’. Ma questo  è solo l’effetto. Qual è la causa?  Niente di più semplice, l’incapacità di autogestirsi del nostro Paese. Qualcuno ha scritto:” Negli ultimi dieci anni l’economia italiana ha inevitabilmente avuto più vantaggi che svantaggi dell’euro. In virtù della perdita della sovranità monetaria, Roma ha guadagnato in termini di credibilità. Adottando una politica monetaria comune, cioè quella basata sui dogmi della Bundesbank tedesca, ha controbilanciato le diverse svalutazioni competitive che hanno reso la lira una moneta poco credibile nel contesto internazionale. Non solo. Fra i benefici dell’euro possiamo trovare anche la riduzione dei costi di transazione, elemento che ha facilitato gli scambi all’interno dell’eurozona, e l’abolizione del rischio di cambio. Infine, nonostante i detrattori della moneta unica dicano il contrario, è aumentata la trasparenza sui prezzi. Con il cambio fissato a 1.936,27 lire per un’euro, l’economia italiana ha potuto quindi giovarsi di un assetto più grande di quello che avrebbe mai potuto sperare. In sostanza, L’euro ha ridato una direzione a un Paese che era troppo indisciplinato”.
E non è che voci più autorevoli non si siano associate:  L’euro è un meccanismo per forzarci a decidere se rimanere uniti al tavolo geopolitico o no per i prossimi 100 anni. E sta facendo bene il suo mestiere, mettendoci davanti alle nostre contraddizioni, le nostre diversità e le nostre essenziali peculiarità nazionali senza mitragliatrici o bombe. Sta a noi ora decidere se uscirne o rilanciare”

Altro effetto sono le politiche di AUSTERITA’ e la causa il debito pubblico eccessivo e gli sprechi. Eppure nonostante le politiche di austerità abbiano fallito, (dice Stiglitz) i suoi sostenitori la difendono  con le più deboli delle prove: se l'economia non è ancora crollata, allora  questo vuol dire che l’austerità sta funzionando.
Poco importa poi l’entità dei danni medio tempore prodotti dal perdurare della crisi (stagnazione, tripla-recessione, disoccupazione persistente a livelli record e reale, PIL in molti paesi al di sotto dei livelli pre-recessione) o il fatto che le soluzioni in pillole personalizzate per ciascun paese non abbiano alcun senso.


 "Attesi?"
Ma...ooops!

Avanzo primario e tasso di risparmio

Risparmio delle famiglie: il lungo crollo

In  Francia (sostiene Stiglitz) si è applicata una politica di aumento delle tasse per i ricchi e obiettivi di spesa per i poveri che dovrebbe stimolare l'economia con un moltiplicatore particolarmente elevato. Ma il governo francese sta abbassando le imposte sulle società e tagliando le spese - una ricetta quasi garantita per indebolire l'economia.  La speranza che le imposte più basse sulle società possano  stimolare gli investimenti è pura assurdità. Ciò che frena gli investimenti (sia negli Stati Uniti e in Europa) è la mancanza di domanda, non le tasse elevate. Infatti, dato che la maggior parte degli investimenti è finanziata dal debito, e che i pagamenti di interessi sono deducibili dalle tasse, il livello di tassazione delle imprese ha poco effetto sugli investimenti. 

In Italia si incoraggia la riforma delle pensioni e del lavoro, e la privatizzazione accelerata nonostante l’esperienza dica che bisogna andare in una direzione esattamente opposta. La privatizzazione delle pensioni, per esempio, si è rivelato costoso in quei paesi che hanno provato l'esperimento e  il sistema sanitario privato americano è il meno efficiente del mondo. 

Chi insiste caparbiamente nel dire che il male dell’Europa (la causa) è l’INFLAZIONE è soltanto chi si ostina a dire che la deflazione (l’effetto) non esiste. 
Eppure alcuni degli effetti del basso livello d’inflazione in Europa li spiega bene Krugman in questo post e anche in questo. Mentre per anni l’obiettivo di inflazione al 2% pareva un giusto compromesso, adesso la crisi finanziaria globale e le sue conseguenze, indicano che le economie avanzate sono molto più suscettibili di raggiungere il limite inferiore dello zero di quello che si credeva in precedenza, e che i costi economici di tale limitazione sulla politica monetaria convenzionale sono assai maggiori di quello che non ritenesse il senso comune prima della crisi.  
Tra questi, la rigidità verso il basso dei salari nominali non è un condizionamento così duro come quello dei tassi di interesse al limite inferiore dello zero, ma ci sono ora molte prove che i tagli ai salari nominali hanno luogo solo in condizioni eccezionali, il che significa che la correzione reale o relativa dei salari diventa più difficile con la bassa inflazione. Inoltre, abbiamo ora ragione di credere che la necessità di ampi mutamenti nei salari relativi intervenga più di frequente di quanto non si immaginasse in precedenza, particolarmente in una unione monetaria imperfettamente integrata come l’area euro, e che tali correzioni siano molto più facili in un contesto di inflazione moderata che di deflazione o di bassa inflazione…ci sono prove crescenti che le economie che entrano in un dura recessione con una bassa inflazione possono anche troppo facilmente restare bloccate in una trappola economica e politica, nella quale c’è un circolo vizioso che si autoperpetua tra debolezza economica e bassa inflazione. Sfuggire a questo circolo vizioso sembra richiedere politiche economiche più radicali di quelle che sono probabilmente in arrivo. Di conseguenza, un obbiettivo di inflazione relativamente alto in tempi normali può essere una forma di assicurazione fondamentale, un modo per ipotecare la possibilità di esiti davvero negativi.

E si arriva infine perfino a negare il collegamento tra causa ed effetto, per cui non esiste la curva di Phillips, e quindi non esiste alcun collegamento tra il controllo della inflazione e il crollo dell’occupazione, non esiste il moltiplicatore e quindi non vi è alcun collegamento tra politiche di austerità e decrescita del Pil o tra decrescita del PIL e diminuzione delle entrate fiscali. Non esiste neppure il vincolo di bilancio messo in costituzione e quindi non vi è alcun collegamento tra questo e la mancanza di fondi per investimenti pubblici, nonostante (come Stiglitz ribadisce) sia evidente la necessità di politiche industriali che favoriscano la crescita della produttività nei paesi più deboli. Le aziende continuano a chiudere e aumentano i fallimenti? È colpa del sistema inefficiente delle PMI italiane e della corruzione (e non ci scordiamo poi le colpe dell’inefficienza della giustizia e della magistratura).

Insomma l’effetto sarà pure che l'economia non è ancora crollata, ma la causa non è affatto che l’austerità sta funzionando, ma che gli italiani, illusi, raggirati, beffati, defraudati dei propri diritti e della propria dignità non abbiano compreso il valore e l’attualità dei diritti e delle regole stabilite nella  Carta Costituzionale, non abbiano ancora riscoperto il “diritto di resistenza”, non abbiano ancora riscoperto la forza e la capacità di rialzarsi una volta che si è toccato veramente il fondo.

sabato 27 settembre 2014

STIGLITZ SULL'EURO: IL MINIMO SINDACALE...SULLA TRAGICA VERITA'

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Se qualcuno avesse dei dubbi sull'effetto combinato di flessibilità in uscita e sussidio di disoccupazione nel determinare la deflazione salariale, ovvero lo stabile impoverimento della quota di ricchezza del lavoro, anche allorquando questi strumenti siano inseriti in una ripresa effettiva della crescita del PIL - e non è il caso dell'eurozona- cosa c'è di meglio del mercato del lavoro "ideale", almeno per i nostri smemorati e  confindustriali vari, cioè quello degli Stati Uniti?
Adottando tale modello in concomitanza con il mantenimento di quello bancario-finanziario post Glass-Steagall Act (e che il Frank-Dodd non corregge in modo sostanziale e, specialmente, tempestivo), questa è la realtà emergente dalle vicende del post-crisi. 
Ne emerge il reale effetto redistributivo (verso l'alto) che, provoca (persino) una politica di deficit spending ciclicamente circoscritta all'emergenza - e al welfare bancario- e poi subito sedata dal deficit-cap imposto dai tea-party. E ovviamente, questi gli effetti di una politica espansiva lasciata poi quasi esclusivamente al Quantitative easing e quindi a interventi monetari della banca centrale. Quand'anche non indipendente "pura" e collocata in un'area valutaria "ottimale" (come ci rammenta Stiglitz). 
E questo ci spiega perchè non basta superare la follia conclamata dell'austerità fiscale UEM, che follia è  perchè è uno strumento che serve esclusivamente al fine "supremo" di mantenere la moneta unica "disfunzionale", e dunque è una scelta politico-sociale camuffata da soluzione di una crisi...deliberatamente provocata.

 
Dalla dura realtà degli Stati Uniti, infatti, emerge che il modello attuale di gestione delle crisi economiche, basato sul duplice e connesso binario del limitato intervento pubblico (cioè solo emergenziale, supply side, e con pronto pentimento di governi incalzati dai "mercati" finanziari, come è "costretto" a notare Blanchard), nonchè della piena flessibilità salariale verso il basso, non possa portare altro che a "stagnazione secolare" (sempre Stiglitz, quando però si occupa degli USA. Tanto che anche di fronte al nostro Senato "ha...affermato che la flessibilità nel mercato del lavoro non evita la disoccupazione e non porta occupazione e come esempio ha portato quello degli Stati Uniti che nonostante avessero un mercato del lavoro flessibile in seguito alla crisi del 2008 hanno raggiunto una disoccupazione del 10%.".) 
E, difatti, gli effetti sono quelli che vedremo nell'inchiesta i cui risultati vi riportiamo di seguito:

"A new survey (inchiesta) della Rutgers University’s (John J. Heldrich Center for Workforce Development), ha evidenziato che un quinto dei lavoratori -ovvero quasi 30 milioni di persone-  riportano di essere stati licenziati da un posto di lavoro negli ultimi 5 anni, "risalendo, cioè, alla fine della recessione, datandola al giugno 2009".
Quasi il 40% di questi lavoratori licenziati ha detto di aver cercato lavoro per più di 7 mesi prima di trovarne un altro; il 20% dei licenziati negli ultimi 5 anni non ha mai trovato un altro lavoro.

E i lavori trovati dai fortunati spesso erano peggiori di quelli perduti. Circa il 44% ha detto che il nuovo posto è risultato inferiore a quello perso, un riflesso della ripresa economica in cui il lavoro "impiegatizio" di medio reddito, è scomparso dopo il collasso finanziario, poichè come l'economia ha ripreso vigore, i nuovi posti sono venuti prevalentemente dal settore dei servizi a bassa retribuzione.





Anche tra coloro che sono riusciti a mantenere il posto, più del 25% ha detto che la recessione ha condotto a un grande cambiamento dello standard di vita. Un terzo di coloro che sono considerati disoccupati di lungo termine, dichiarano che le loro finanze sono state "devastate" con un "notevole e permanente cambiamento nello stile di vita", con molti non in grado di pagare i mutui e i canoni di affitto, e costretti a prendere in prestito da amici e parenti, nonchè a vendere le proprietà per raccogliere liquidità.

Per tutti gli Americani, quelli che hanno mantenuto come quelli che hanno perso il lavoro, più del 40% ha detto di avere meno reddito e risparmio adesso rispetto a 5 anni fa. Solo il 30% ha dichiarato di averne di più. Molti dati raccolti dall'inchiesta indicano una generale mancanza di fiducia, estesa a circa la metà degli intervistati, circa la prospettiva di avere mai un miglioramento della propria situazione economico-finanziaria. 
Cosa pensano gli intervistati su chi dovrebbe guidarli fuori da questa situazione?
Circa il 45% ha detto che il governo dovrebbe agire piuttosto che attendere le iniziative del settore privato; e ciò sia attravero l'allentamento delle restrizioni sui prelievi utilizzati per programmi di retraining e di formazione (sebbene sia discutibile la saggezza del prelevare dal fondo pensioni), sia offrendo crediti di imposta ai datori per creare lavoro.
E' interessante vedere come solo un terzo sia in favore di un più alto e più duraturo sussidio di disoccupazione, sebbene la percentuale di approvazione di tale misura di sostegno salga sopra la metà degli intervistati che avevano potuto contare su tali benefici."
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giovedì 25 settembre 2014

IL DUALISMO. IL R€DDITO DI CITTADINANZA E IL R€DDITO MINIMO. L'EGUAGLIANZA COME APPIATTIMENTO

 (naturalmente il motto di v.H vale solo per i soggetti di diritto "degni": i proprietari-operatori economici, non per gli "zotici").

Perdonatemi se ci ritorno: ma ESSI ci ritornano talmente tanto che sviluppare tutti gli aspetti del problema non può far male. Agli esseri umani ancora rimasti in circolazione, almeno.

Allora vediamo un po'. Indubbiamente il dualismo del mercato del lavoro c'è.
Abbiamo:
1) I precarizzati: tendenzialmente a bassa qualifica, visto che la stessa previsione legale della liceità della loro esistenza, induce a preferire l'investimento in attività ad alto impiego di lavoro piuttosto che di capitale-tecnologia, o comunque con una combinazione di fattori che favorisca il primo. Tra l'altro, come attestano tutti gli studi seri in materia, questa impostazione del mercato del lavoro diminuisce l'efficienza e cioè l'innovazione tecnologica di processo e di prodotto, e quindi la stessa produttività. A ruota della quale arriva (si invoca e si ottiene) la diminuzione delle retribuzioni reali e la strutturazione della dequalificazione della forza lavoro (da cui la stessa diminuzione degli investimenti in ricerca, in formazione e, in generale, della stessa utilità della scolarizzazione di livello superiore).
Precisiamo subito che la "colpa" dell'eccesso di giovani  in condizione di precari non va ricercata nel fatto che sarebbero "illicenziabili", sempre per la vigenza del famoso art.18, i lavoratori a tempo indeterminato.
Questa ormai dilagante versione, si appunta sull'effetto piuttosto che sulla causa del fenomeno: è chiaro che se è normativamente consentito, anzi non più vietato, ricorrere diffusamente a lavoratori che, non avendo un rapporto stabile, hanno potere contrattuale praticamente nullo, - e dunque posso imporgli retribuzioni sottratte (o quasi) all'applicazione di qualsiasi limite retributivo o contratto nazionale di lavoro-, SCEGLIERO', NON SOLO, SEMPRE L'OPZIONE MENO COSTOSA, MA CERCHERO' ANCHE DI SOSTITUIRE PIU' DIPENDENTI POSSIBILE, SOGGETTI ALLA PRECEDENTE DISCIPLINA SUL LAVORO A TEMPO INDETERMINATO, con neo-assunti precarizzati (dalla "nuova" legge). 

Dunque, se si volesse ragionare correttamente, il protrarsi della condizione di precario dipende dal fatto che LA LEGGE, cioè la disciplina del lavoro introdotta dalle riforme Treu e poi "Biagi", ammette ciò che, vigendo la precedente legislazione, sarebbe stato colpito da nullità per frode alla legge, cioè la dissimulazione illecita di una rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, sotto le vesti di un contratto a termine (fuori dai casi particolari in precedenza ammessi, es; lavoro stagionale nel turismo), o quelle di un falso contratto d'opera (cioè di lavoro autonomo).
Vigendo la disciplina legale precedente a queste riforme qualsiasi giudice avrebbe dichiarato la sussistenza del contratto dissimulato e condannato il datore a corrispondere le differenze retributive e contributive, nonchè a regolarizzare il rapporto con un contratto a tempo indeterminato caratterizzato da stabilità (coperta dall'art.18 a seconda se l'impresa avesse più o meno di 15 dipendenti).


2) I "sindacalizzati a esaurimento", che fruiscono dell'art.18 (se presso aziende con più di 15 dipendenti), e che per tutte le ragioni sopradette sono inevitabilmente in diminuzione crescente.
Aggiungiamo che, nonostante le stucchevoli rampogne e polemiche di questi giorni, questa categoria è puramente teorica ormai. Perchè? Ma perchè l'art.18 E' STATO GIA' MODIFICATO E GIA' HA PRATICAMENTE TOLTO DI MEZZO LA FAMOSA ILLICENZIABILITA', come pure la stessa pretesa eccessiva rigidità delle mansioni (eliminata in gran parte per effetto delle inevitabili ricadute del nuovo art.18, attualmente vigente). 
Su questo, cioè sugli inevitabili effetti pratici dell'art.18 così come riformato dalla Fornero, rinvio a questo post.

Ora il ragionamento che si svolge, e che è intrinsecamente fuorviante, è che il "dualismo" vada corretto mediante la parificazione di tutti i lavoratori nel non poter più fruire della reintegra (che è GIA' limitata a casi residui e marginali, rispetto alla situazione vigente con l'originario art.18). 
Insomma, prima la legge (cioè la politica: del governo che la propone e del Parlamento che la vota) introduce una distorsione, - consistente nel consentire per la generalità dei nuovi assunti ciò che era considerato un negozio in frode alla legge, espungendo dalle tutele possibili ai sensi degli artt.1,3 4, e 36 Cost. la conversione del rapporto di lavoro a termine e del contratto di lavoro autonomo in assunzione a tempo indeterminato-, poi per correggere questa distorsione si arriva a "rivedere" come instabili tutti gli altri contratti di lavoro conclusi sotto la precedente disciplina.

In pratica, ciò vuol dire che I "DIRITTI" SONO PRIMA SOPPRESSI PER IL FUTURO E POI RETROATTIVAMENTE SOTTRATTI, cioè PER IL PASSATO, IN NOME DI UNA PRESUNTA CORREZIONE DI UNA DISUGUAGLIANZA CHE E' SOLO IL FRUTTO DI UN'INIZIALE DISAPPLICAZIONE DI REGOLE COSTITUZIONALI COROLLARIO DEL PRINCIPIO FONDAMENTALE LAVORISTICO DEL 1948.

Infine: per i disoccupati (precari ma non solo, vedremo) occorre allora stabilire, preferibilmente, un salario di cittadinanza
In questa situazione, infatti, è un complemento indispensabile: la precarietà fa sì che la stabilizzazione sia minima (si aggira ora intorno a 1/3) e giunga, quando arriva, molto tardi nella vita lavorativa. Dunque, il precario non accumula scatti di anzianità e opportunità di far valere la propria formazione nell'acquisizione di qualifiche superiori. Nel re-iniziare un rapporto a termine, infatti, viene riassunto sempre tendenzialmente dal punto"zero" (o ad esso vicino) delle qualfiche e relative retribuzioni.
Col reddito di cittadinanza, o analoga formula di sussidio generalizzato di "disoccupazione", non gli viene più perdonata la "volontarietà" della stessa determinata dal peggioramento retributivo e persino di qualifica, dato che non può rifiutare (choosy!) un qualsiasi lavoro che sia comunque retribuito ad un livello inevitabilmente prossimo allo stesso sussidio (o al "qualsiasi" livello che la legge può stabilire)
Che, poi, come abbiamo più volte detto, essendo quest'ultimo "spesa pubblica" sarà soggetto ad una tendenziale progressiva attenuazione del suo livello, per superiori ed ormai indiscutibili esigenze €uropee di pareggio di bilancio
Un elemento, il "pareggio" (costituzionalizzato, quindi molto strutturale) che, dato il calo della domanda che implica (se non addirittura la deflazione che stiamo constatando), fa sì che le risorse originariamente poste a copertura, saranno sempre e solo strutturalmente decrescenti sul calo della base imponibile, e quindi delle "entrate" previste, appunto, a copertura dell'onere per il suddetto reddito di cittadinanza. Salva una copertura successiva "aggiuntiva", per l'onere crescente determinato dallo stabilizzarsi se non dall'aumento della disoccupazione strutturale (ergo:con diminuzione delle entrate fiscali), mediante l'inevitabile (qua è tutto inevitabile e non trovo termine più appropriato), TAGLIO DELLA SPESA PUBBLICA per altre prestazioni sociali: in particolare delle pensioni e della sanità, intesa come prestazione pubblica universale.

Dunque, il reddito di cittadinanza, o qualunque provvidenza analoga, segna automaticamente il destino del welfare previsto in Costituzione, insieme con, abbiamo visto, la legalizzazione della deflazione salariale, in un mercato del lavoro che non intacchi il principio legislativo della precarizzazione. 
Questo almeno in un mondo dove esistano l'euro, cioè il mercantilismo che basa la crescita esclusivamente sull'esportazione e quindi sulla deflazione interna, e i connessi limiti di bilancio fiscale, che servono, sia chiaro, a obbligare alla svalutazione interna, cioè a correggere questi tassi di cambio reale da cui dipende l'aggiustamento della competitività di prezzo per le esportazioni. Perchè, poi, in assenza di queste condizioni, avendo cioè rispettato l'idea di lavoro contenuta in Costituzione, del reddito di cittadinanza non ci sarebbe alcun bisogno, dato che la disoccupazione involontaria e quella "frizionale" sarebbero state contenute, - com'è sempre accaduto in Italia in assenza di vincolo esterno-, in misura ridotta, ed un cittadino poteva comunque sperare in prestazioni di welfare soddisfacenti, per il sostentamento personale e familiare, e in  accettabilmente rapide occasioni di reimpiego.

Veniamo poi al reddito minimo: questo serve eccome per completare il vincolo (esterno) alla deflazione salariale. 
Chi perde il lavoro, ed era soggetto ad un inquadramento di un certo tipo, - magari dopo anni di formazione ed esperienza (ancorchè maturate in anni di lavoro precarizzato)- , in base a questo meccanismo, per non perdere il sussidio universale, ovvero, quand'anche quest'ultimo non fosse ancora istituito, le attuali provvidenze di cassa integrazione e contratti di solidarietà, sarà così costretto ad accettare un lavoro ancor meno retribuito purchè rispettoso del minimo legale. 
Quest'ultimo, evidentemente, sarà (e normalmente "è") stabilito in misura "one size fits for all", in modo da garantire, anche nei meccanismi sanzionatori a carico del choosy disoccupato, un (inevitabile) appiattimento verso le retribuzioni comunque tarate sulle qualifiche più basse e sui livelli iniziali di anzianità di lavoro.
Sfido chiunque a trovare al mondo un sistema di reddito minimo che non aggiri i contratti collettivi di lavoro (laddove ancora esistano) e che, comunque, non sia tarato su questi due riferimenti (bench-mark) di "appiattimento verso il basso".


mercoledì 24 settembre 2014

RASSEGNA SULL'ART.18. "MAPPE COGNITIVE" E "LINEE INTERPRETATIVE". LOTTA DI CLASSE: CHE CAFONATA!

 

Costretta dai "vincoli" della sala d'attesa di un aeroporto, Sofia ci manda una rassegna stampa "monografica", nascente dalla lettura del Fatto Quotidiano. 
Una sorta di panorama sistematico che lumeggia un atteggiamento di fondo: si può dubitare della bontà o meno della riforma dell'art.18, ma non della "colpa di popolo", irredimibile, che, chissà perchè, attinge gli italiani più di qualsiasi altro paese UEM (che, pure, ha problemini economico-fiscali ben più gravi).

Con l'art.18 usano il solito metodo: distogliere l'attenzione dalle cose importanti, come la recessione, che ci sta regalando ogni giorno dati significativi, e nello stesso tempo  dare tante, troppe informazioni, perchè cosî non ci si capisca niente.
Sul Fatto quotidiano di oggi pare non si parli d'altro. 
 
Tutta la pag 5, parla della riforma del lavoro e delle guerre interne al PD, del peso politico dei bersaniani sulla riforma del lavoro e sulla introduzione del job act.
Oscar Farinetti (il signor Eataly): "dell'art. 18 il problema è il concetto di "giusta causa" che giustifica il licenziamento e quello dei magistrati che lo interpretano nel senso sbagliato visto che dispongono il reintegro nel 90% dei casi"
Insomma art 18 non va modificato, va abolito. 
Al coro si unisce De Benedetti che ritiene la norma superata per i tempi e per la situazione che l'Italia sta affrontando.
 
Cesare Damiano (presidente della commissione lavoro della Camera) rilancia il contratto a tutele crescenti al quale andrebbe applicato un monitoraggio di tre anni per verificarne gli affetti.
E cosa si aspettano di poter verificare al termine di questi tre anni? Pensano che la situazione drammatica della disoccupazione si risolva o che vi siano risultati positivi in tre anni solo perchè liberalizzerebbero il mercato del lavoro in uscita, senza agire sulla domanda? 
Comunque, indipendentemente dai risultati, al termine del triennio il datore di lavoro può licenziare senza alcun contenzioso, come se si trattasse di un contratto a termine, o assumere con le regole della legge Fornero. 
Poiché gli  imprenditori opteranno sicuramente per la prima soluzione, (e quindi sanno benissimo che la situazione della domanda non migliorerà e che quindi non migliorerà neppure l'occupazione), lo Stato offre un incentivo fiscale per l'assunzione, soddisfacendo le richieste dell'Europa, che ci chiede di allungare il periodo di prova e di ridurre il costo del contratto (Ecco risolto l'arcano! A loro interessa solo dire all'Europa che hanno modificato e quindi maggiormente liberalizzato il mercato del lavoro, misura che avrà come inevitabile effetto una maggiore deflazione salariale).
 
Pag.6: Caterina Soffici se la prende con la burocrazia, le tasse, la criminalità e la mancanza di certezza del diritto (non se n'è scordata nemmeno una!). Molti servizi potrebbero essere effettuati per via telematica  e, come prova di coraggio, si aspetta dal PD  l'abolizione dei notai invece della modifica dell'art.18, visto che il reintegro rimane un problema secondario se le imprese non assumono. 
Almeno in quest'ultima affermazione ha ragione; tuttavia...si rende conto che i servizi resi per via telematica, così come tutta la semplificazione della burocrazia, la diminuzione delle tasse e il rafforzamento della lotta alla criminalità, richiedono investimenti pubblici enormi, - esattamente come la lotta alla disoccupazione - e che quindi tutti questi problemi hanno la stessa matrice?
 
Non è mica finita qua.
A pag.11 si parla di Bonanni che lascia la CISL ( sia fatta la sua volontà!!!!!) del cui ruolo nell'ambito dei sindacati ho già scritto.
 
E poi c'è altro articolo di Stefano Feltri che si domanda se ha ragione Renzi o la CISL: le imprese non assumono perchè non possono licenziare? 
Secondo lui non c'è risposta alla domanda (guarda un pò). 
Anzi. Alla domanda si risponde con dati alla mano, quelli sul monitoraggio della legge Fornero del 2012 che ha giá modificato l'art. 18. In base ai dati del Ministero (lui dice) sappiamo solo che la flessibilità è aumentata in conseguenza della possibilità di licenziare...in imprese con meno di 15 operai, dove art. 18 non si applica; nonchè che molti super precari hanno brevi contratti a tempo determinato (ma questo non gli dice proprio niente?)
Ma poi finalmente pure lui una cosa giusta la dice: cambiare le regole del lavoro in periodo di recessione non permette di misurarne gli effetti, mentre sottolinea l'errore di partire sempre, quando si parla della situazione del lavoro, dalla facilitá dei licenziamenti, senza prove che sia la variabile decisiva (si tiene sul vago, non sia mai assumersi la responsabilità di avanzare un'ipotesi. A proposito delle prove: per lo specialista Riccardo Realfonzo, sicuramente non si hanno che la precarizzazione e flessibilizzazione in uscita aumentino l'occupazione, valendo come più probabile - e confermata dai dati di tutta l'UEM- l'ipotesi opposta.)

Dulcis in fundo, Mauro Magatti (bocconiano laureato in discipline economiche e sociali) sostiene che è finita la società dei consumi: avere un impiego non serve solo a produrre merci, ma a permettere alle persone di esprimersi e dare senso alla propria vita Sembra quasi che abbia capito il senso del lavoro come diritto fondamentale costituzionalmente garantito: ma da un "bocconcino" è chiedere troppo!
Infatti, continua a dire cose controintuitive: pensare al possibile futuro del lavoro richiederebbe un nuovo modello di sviluppo che esprima la capacitá di essere produttivi (è appurato: siamo improduttivi e scansafatiche) e garantisca equità sociale (il problema insomma è sempre la redistribuzione, ma...tra sottoccupati e disoccupati). 
 
Ritiene che spostare il baricentro sul consumo e la concentrazione di ricchezza (di chi? Degli esportatori di capitali e dei delocalizzatori? Non pare prenderli in considerazione), ha fatto perdere rilievo al lavoro e alla sua importanza economica sociale ed esistenziale. (Davvero? Ma com'è successo esattamente? Dunque i disoccupati si danno troppa importanza! Pensassero a tutelarsi come consumatori e pagatori di tasse sul patrimonio!)
Per questo, prosegue, il lavoro ha perso quota sul valore aggiunto del prodotto in due decenni (non sarà la precarizzazione-disoccupazione-deflazione salariale la causa di ciò, piuttosto che l'effetto?)
 
Secondo lui la soluzione forse non c'è (e certo: la curva di Phillips non viene neppure menzionata. E dire che siamo in deflazione "quasi" conclamata!) e, comunque, se proprio di soluzione bisogna trovarne una, allora bisogna rivedere le categorie: non contratti a tempo indeterminato o determinato, ma contratti per chi si occupa di ambiente o di sanità o altro.  
Che poi divengano a tempo determinato "tutti" i contratti in questi settori, perchè mai chi si occupa di lavoro "utile e degno",  (essendo il resto del lavoro inutile e indegno?), dovrebbe preoccuparsene e dimostrare avida ricerca di inutili privilegi? Certo! Cambiamo le categorie e vedrete come aumenta l'occupazione, che idea geniale, ma come mai non ci hanno pensato prima!!!!
 
Aggiunge che bisogna investire su "mappe cognitive", linee di ricerca che aprono "piste interpretative" nuove, perchè poi il problema è sempre lo stesso: siamo inefficaci, arretrati, obsoleti e tutti so' più bravi di noi!
Richiama infine il pensiero marxista ad esprimere al meglio le proprie capacità in una società liberata dall'ossessione della crescita. Bisogna spostare accento sulla capacitá collettiva di produrre valore, possibile solo se cambia il modo di vedere e trattare il lavoro; non solo merce da scambiare e sfruttare ma espressione della capacitá personale di iniziativa, creatività e realizzazione, elemento fondamentale di una economia giusta e una società umana. 
 
Apprendiamo dunque che il pensiero marxista si dovrebbe preoccupare di ricategorizzare il lavoro, in funzione dei settori che...consentano di liberarsi della "ossessione della crescita"...specialmente salariale, ovvio! La lotta di classe finirebbe se, si desume, coloro che vengono pagati...il meno possibile, non ci fanno caso, in quanto impegnati a "salvare il mondo" ed appagati da ciò (vallo a raccontare a chi si occupa di bonifiche ambientali sui campi infestati da diossina o agli infermieri precarizzati in corsia...)
Manca qualche passaggio logico; diciamo un po' di puntini di congiunzione. 
È il bello è che queste "eccentricità controintuitive" le va a ripetere pure domani a Milano in un convegno che si occupa di indagini sullo sviluppo del mondo del lavoro.

martedì 23 settembre 2014

IL SAGGIO "CONSIGLIO DEI SAGGI" E LA VIA ITALIANA AL...RILANCIO DELL'OCCUPAZIONE



Un momento del vertice a Palazzo Chigi (da Twitter)

 Epigrafe di Mauro Gosmin:
 "Ciao Quarantotto, un saluto a tutto il forum. Io credo che siamo all'interno di una follia collettiva paragonabile solo a quella delle due grandi guerre. Leggevo oggi su Voci Dall'Estero che anche nella riccha Germania due lavoratori su tre guadagna meno del 2000. 
Ora ditemi con questi dati, come è possibile che all'interno della CGIL, in particolar modo i loro quadri, si difenda questa Unione in modo fideistico, religioso ed ultraterreno. 
Non c'è verso di fargli capire che l'UEM è stata fatta per permettere ai paesi forti di colonizzare i paesi deboli, e all'interno dei singoli paesi per favorire il grande Capitale a tutto discapito del Lavoro e dei diritti acquisiti. 
Qui secondo me non è più un problema Economico/Giuridico/Storico, ma un problema che investe la Psichiatria. Perchè tanti nostri concittadini ai quali viene sottratto redditi/diritti/futuro si sono innamorati del loro carnefice e nulla scalfisce questo amore, nemmeno la condizione dei propri figli disoccupati e privi di futuro?"


Mi piacerebbe poter analizzare notizie positive, almeno nel senso che nel mondo stesse prevalendo un minimo di buon senso. Ma la morsa liberista-finanziario-liberoscambista è implacabile; più o meno come nei primi anni del secolo scorso (ha ragione Cesare Pozzi che vede il parallelismo con periodo a cavallo dell'inizio della prima guerra mondiale. E' inevitabile, in tempi di riprisitno dell'imperialismo commerciale contrabbandato come...garanzia della pace).

Invece come notizie "indicative" dovremo accontentarci di imbolsite conferme della corsa al disastro.
 Naturalmente queste news non le traggo dalla realtà italiana, che si è chiusa nella consueta spirale di ottusa autoflagellazione agli ordini dell'€uropa.
Vi propongo invece una fonte tedesca.
Benjamin Weigert, Secretary General of the German Council of Economic Experts, (scusate se è poco: fonte ufficiale dal cuore della linea Merkel-Schauble), in una conferenza nella "provincia" irlandese di Dublino, organizzata dallo "Institute of International and European Affairs (IIEA)" ci racconta: German policy has ‘double standards.
Questo perchè, "nei primi anni dello scorso decennio, il governo tedesco introdusse una serie di dolorose riforme, in particolare nel mercato del lavoro. Ciò implicò la deregolazione delle leggi sull'impiego. Weigert ora lamenta che una parte notevole di cittadini e politici tedeschi crede ora che queste riforme non abbiano nulla a che fare col miglioramento della performance economica dei tardi anni '10. E accusano queste riforme per la disuguaglianza crescente (in Germania). Ma questa visione non è supportata dai fatti, dice Weigert. La disuguaglianza nei redditi delle famiglie era stata largamente stabile nel passato decennio.
Il governo tedesco sta adesso facendo marcia indietro su molte riforme introdotte. E sì, dice Weigert, queste sono le riforme che Berlino vuole che siano realizzate da Francia, Italia e altri membri dell'eurozona."

Commento irlandese (asciutta registrazione, prendendo atto di dichiarazioni che avrebbero potuto trovare clamorose): "il "German Council of Economic Experts", noto anche come Consiglio dei saggi, è un corpo indipendente (da che?) molto influente nel consigliare le politiche al governo"; il che, quantomeno, significa che il governo tedesco non è tanto indipendente nel tener conto delle indicazioni dell'elettorato. Ma questo è il paradigma €uropeo generale, di cui parleremo ancora in dettaglio, cioè la tecnocrazia dell'efficienza che prescinde dalla prefissazione democratica degli obiettivi. Esattamente quello che viene imposto in Italia ma di cui non si parla...

Con una certa, forse involontaria, ironia, il notista irlandese conclude:
"Nel fine settimana, al summit del G20 in Australia, gli Stati membri hanno esortato l'eurozona a supportare la domanda. Il presidente della BCE Mario Draghi, nel meeting bancario dello scorso mese, ha richiesto, agli Stati membri con spazio per attuare un'espansione fiscale, di muoversi in tal senso."

Queste pur sintetiche notazioni ci portano ad un tumultuoso trend di rilievi:
- Weigert, mica un sindacalista de sinistra, definisce "dolorose" le riforme di "deregolazione", cioè di flessibilizzazione spinta, del mercato del lavoro;
- ci dice pure che queste, di certo, non corressero ma, al più, confermarono una disuguaglianza stabile. Anticipiamo subito che Weigert si sbaglia o...mente: Questo infatti l'indice di Gini nel periodo considerato in Germania:
- rimane il punto che la Germania apertamente, nelle sue politiche più "amate" e caratterizzanti, non considera un problema la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi (a proposito, guardate l'Italia a partire dalle riforme Prodi-Treu);
- ma più che mai, le riforme Hartz si dimostrano "dolorose" perchè certamente portarono alla compressione dei redditi da lavoro e della domanda interna. Weigert su questo non lascia molti dubbi. E smentisce la vulgata trionfale di media ed esponenti politici governativi e para-governativi italiani (leggi: grandi intese ormai de facto). Tra l'altro, rammentiamo che risultarono dolorose, per espressa ammissione dei suoi propugnatori, pur essendo realizzate in un periodo non di recessione per la Germania e, in più, comportando una biennale sforatura del limite UE del 3% del deficit pubblico (cioè non avendo altrettanto effetto pro-ciclico di quello che provocherebbero in un'Italia in recessione fiscalmente indotta);
- ne deduciamo ulteriormente che, abbracciando senza mezzi termini le "riforme alla tedesca", - in periodo di recessione con crollo di consumi, investimenti e occupazione,- i nostri governanti non credono che la domanda vada sostenuta e che la disuguaglianza sociale sia minimamente un problema;
- eppure, in questa "lunare" visione, asseverata in TV-h.24 dai Giavazzi e via discendendo (per legittimazione nella "competenza") il mainstream italico-governativo si mette contro quanto dice lo stesso G20. 
'Sta domanda va sostenuta o no?
NO, solo supply side, dato che anche il sussidio universale di disoccupazione e lo sgravio IRAP, sono null'altro che questo. Il primo, tra l'altro, è soggetto ad una bellissima regoletta (che lo accomuna a tutte le altre formule similari, compreso il "reddito di cittadinanza"): vigendo il principio del "pareggio di bilancio", che noi dichiariamo a ogni piè sospinto di voler rispettare, il finanziamento di tale neo-labour welfare non può eccedere limiti ben precisi, riducendolo necessariamente nel volume erogato per evitare di deprimere ancor più la domanda interna con brutali tagli alla spesa pubblica (che pure...);
 - quand'anche ignorata la domanda interna (nella sua componente più ovvia in senso pro-ciclico, cioè domanda-spesa pubblica e quota salari), i calcoli un po' iniziano a farli (per forza: toppano sempre): sicchè, giocoforza, il livello delle erogazioni non potrà che essere via via decrescente, almeno in termini reali, - e certamente ad un livello inferiore di quello, già depressivo, delle riforme Hartz- con l'effetto di determinare l'obbligo di accettare in modo incrementale, lavori a stipendi con una soglia sempre più bassa e distante dalla retribuzione in precedenza percepita dal disoccupato. Perchè la regoletta, ovvia, che piace a Squinzi, è che se non accetti quel lavoro a quella minore retribuzione - di cui il risibile sussidio costituisce la soglia naturale- perdi il sussidio, (comunque denominato);
- insomma, la via italiana al "rilancio" della crescita...è la deflazione salariale che, di certo, non è una cura nè per la domanda interna, nè per la deflazione che aggrava l'onere del debito pubblico, nè, di conseguenza, per i conti dello Stato e per qualsiasi plausibile rilancio dell'occupazione.

E, a questo punto, la retorica e deprimente domanda è: ma, i nostri governanti e giornalisti, quando straparlano di mercato del lavoro, neppure i tedeschi ascoltano "veramente"?
Certamente, non ascoltano il G20 (e chissà il rappresentante italiano, -ma chi era?, ah, sì, Padoan-, come avrà votato). E neppure ascoltano Draghi che consigliava, tra l'altro seguendo un'uscita pubblica dello stesso Weidman, il rilancio della domanda da parte dei paesi con margini di finanza pubblica: esattamente ciò che il "Consiglio de saggi" tedeschi depreca e rifiuta recisamente. Cioè politiche espansive da parte da parte della Germania. 
Ma questa è la parte che non viene mai affrontata: battere i pugni sul tavolo è un po' come il rilancio dell'occupazione introducendo le riforme del lavoro tedesche. 
La mossa prioritaria che potrebbe, (ormai in gran parte non risolutiva, peraltro) sbloccare il problema sta nell'atteggiamento tedesco, non nell'acutizzare l'autodistruzione italiana, ri-agendo su un mercato del lavoro che, secondo l'OCSE, è già più o meno ai livelli di flessibilità tedesca: ma i tedeschi hanno risposto picche in ogni sede, G20 compreso
E questo, a quanto pare, non è un problema: il tavolo su cui si battono i "pugnetti" è quello dei sindacati; che, per lo più, si adeguano, se non altro accettando un contraddittorio altrettanto "lunare"
Cioè non parlando mai di euro e del suo assetto fatto apposta per la competizione mercantilista che deflaziona internamente il lavoro.

domenica 21 settembre 2014

OLTRE "L'ULTIMA SPIAGGIA"? (O era la penultima?)


Spaiggia

Ed il problema, dunque, come spesso accade in Italia, non è che una Procura indaghi, seguendo prassi che non è difficile vedere come normali, ma che i giornali ne parlino. E in un certo modo.

Il discorso, in senso più ampio, riguarda poi la generale ed obiettiva difficoltà delle imprese di sopravvivere in questa situazione. Una grande crisi "da domanda", come nel 1929.
In fondo, anche da queste "cronache", si ha conferma di come la concreta possibilità di ottenere credito bancario, (quand'anche a molti altri precluso), non ponga al riparo dalla insolvenza. Questo certamente per le imprese che agiscono nel tipico mercato interno dei servizi, vecchi o "nuovi" che siano.
Si diffondono le insolvenze: i nomi non contano e non pare proprio che il regime dello Statuto dei lavoratori c'entri molto. I piccoli imprenditori lo sanno.

E hanno capito che c'è poco da fare in situazioni in cui le p.a. con cui, in qualunque modo, si hanno dei rapporti, pagano troppo tardi o non pagano affatto
D'altra parte, anche il "mitologico" pagamento dei crediti delle imprese: si tratta di lavori, forniture e servizi già eseguiti (altrimenti il credito non sarebbe sorto o sarebbe legittimamente contestabile e incerto). Per quelle corrispondenti attività di produzione, le imprese hanno già dovuto pagare quantomeno maestranze, fornitori e spese fisse in misura proporzionale. E su queste attività hanno già gravato i diversi tributi che a vario titolo (anche come sostituti d'imposta) sono tenute a corrispondere.
Dunque, laddove il compenso per le prestazioni eseguite non sia arrivato, per fronteggiare i costi di produzione, hanno dovuto prevalentemente e normalmente, ricorrere a riserve  (nella migliore delle ipotesi, quelle connesse agli utili realizzati con attività prestate a soggetti che non siano la p.a., quando pure ci siano state), oppure ricorrere al credito; o, realisticamente, posticipare o rateizzare i debiti per i vari tributi, nel frattempo implacabilmente in riscossione. 
Dunque, il pagamento dei "crediti delle imprese" non immette nuova liquidità nel sistema: serve a pagare debiti - e il pagamento estingue la moneta- e, inoltre, corrisponde a entrate in gran parte già contabilizzate nel bilancio statale, salvo l'IVA per le fatture emesse per i tardivi pagamenti (nel sistema, un gettito aggiuntivo più modesto di quanto non si stimi). 
Se poi i pagamenti corrispondono a spese qualificate nella contabilità pubblica come "in conto capitale", queste devono trovare copertura aggiuntiva. 
E infatti, i decreti legge sul pagamento alle imprese, prevedono a carico delle amministrazioni centrali, specie di quelle anticipatrici dei fondi agli enti territoriali di vario livello, tagli lineari automatici già all'opera, nella misura in cui i crediti siano via via pagati. E gli enti territoriali, a loro volta, devono ripagare le anticipazioni del tesoro, e sono vincolate a tagliare le spese in conto capitale, e per investimenti, per il futuro. 
Il che significa che i pagamenti, per molte voci, come le opere pubbliche e altre spese infrastrutturali, risulteranno "tombali": cioè per il futuro meno appalti e, per molte imprese, la fine della principale fonte di sopravvivenza. Cioè proprio dell'odiata spesa pubblica. 
Tanto più che questi tagli di copertura del pagamento dei crediti, si aggiungono agli ulteriori tagli delle spese per investimenti pubblici e in conto capitale che comunque, ogni anno, vengono disposti per raggiungere gli obiettivi intermedi di indebitamento, verso il pareggio di bilancio, che il fiscal compact impone e che l'Italia è l'UNICO PAESE UEM TENUTO A RISPETTARE.
E gli imprenditori sanno, o ormai dovrebbero sapere, che il regime fiscale si inasprisce proprio mentre, anzi, "proprio perchè", la domanda interna si contrae e con essa la base imponibile che dovrebbe fruttare le entrate necessarie per rispettare i vincoli fiscali di cui si nutre l'impianto della moneta unica.
La realtà è dura per tutti. Ed è una di quelle cose che non si può nascondere neppure a se stessi.

Ma se i giornali parlano delle cose cui facevamo cenno all'inizio, non si comprende perchè si sveglino ora. O forse lo si comprende benissimo: c'è un futuro "dietro alle spalle" per l'Italia.
Si chiama "cessione di sovranità" - che per la verità è già un fatto compiuto- ma nella forma conclamata: cioè mediante la diretta titolarità dei poteri decisionali supremi di indirizzo politico previsti dalla Costituzione in capo a soggetti non designati secondo "i modi e le forme" (art.1 Cost) di legittimazione democratica previsti dalla Costituzione.
Lettini, ombrelloni e ristoro 

Insomma, l'aria che tira pare preparare sempre più una nuova svolta: eliminare l'ultima "frontiera" (o "spiaggia", scegliete voi) dei "decidenti per conto dell'€uropa" e passare direttamente ai "decidenti europei" (in conto proprio).

Ma poi le imprese non si lamentassero delle tasse, se gli piace l'euro...e l'illusione di pagare meno quelle importazioni che, nel lungo periodo, non possono sostituire la caduta degli investimenti che preclude la sopravvivenza del sistema stesso delle imprese.
La base imponibile- e la domanda e l'occupazione- continueranno a contrarsi, nella migliore delle ipotesi a ristagnare, il "profilo di rischio", che preclude l'accesso al credito di conseguenza ad aumentare, e le tasse, inevitabilmente, ad essere vincolate al principio della copertura in pareggio di bilancio. 
E così, qualsiasi stabilizzatore automatico, innnescato in misura incrementale da questa situazione, - che sia un prepensionamento, il ricorso alle varie casse di integrazione o un contratto di solidarietà -  può solo portare a nuove tasse, da qualche parte, ma inevitabili. Dentro "questa" €uropa.