mercoledì 30 aprile 2014

STORIA (NON TROPPO SEGRETA) DELLA PACE NEL FEDERALISMO EUROPEO

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Questo importante post di Arturo ripercorre, sul piano dell'indagine comparata di filoni di pensiero apparentemente distinti, le convergenze pragmatiche che guidano, in un'alternanza tra facciata idealistica (strumentale) e decisioni autoritarie filo-oligarchiche, il federalismo internazionalista nell'orientare la società umana.
Rammentiamo un'analoga trattazione, con un approccio più fenomenologico, in questo post.
Il punto è che, comune a entrambe le versioni di tale pensiero, è la negazione di ogni valore della sovranità democratica costituzionale.
Una suggestione risalente e datata, che viene portata avanti nell'inerzia "critica", perseguendo simultaneamente, per via mediatica, l'eliminazione dalla memoria collettiva del progresso (ben tangibile quanto osteggiato) costituito dal costituzionalismo democratico, e così, rendendo le comunità sociali incapaci di rendersi conto e quindi di reagire.
Ma una suggestione di cui oggi, all'apice del suo tentativo di imporsi, paghiamo le dure conseguenze, peraltro deliberatamente o, dissimulatamente (a seconda del filone che si dichiara di seguire), programmate fin dall'inizio.
La risposta a tutto ciò, per chi ancora non fosse consapevole, è dunque il ripristino della legalità costituzionale. 
E non mi stancherò mai di ripeterlo. Specialmente in vista del 1° maggio.
1. La litania dei più banali argomenti pro-euro la conosciamo (L'Espresso ce ne ha fornito un piccolo campionario di recente). Quello che alla fine rispunta sempre è però che l'Europa e l'euro difenderebbero la “pace”. 
Un valore su cui tutti concordiamo: chi mai potrebbe dirsi “per la guerra”
E in effetti è un fatto reale che stiamo assistendo a forme di ostilità più o meno evidente fra i popoli europei che non si vedevano da molto tempo
Dunque “più Europa”?
Ma perché l'Europa, per non parlare dell'euro, dovrebbero essere strumenti efficaci nella difesa pace
Se perfino un autorevole sostenitore del federalismo europeo come Sergio Pistone ammette tranquillamente che le “spinte disgregative” “di tipo nazionalistico” attualmente in corso sarebbero causate dai “deficit di efficienza e di democrazia che da sempre caratterizzano il processo di integrazione europea e che si sono accentuati con l'istituzione dell'unione monetaria ed esasperati con la crisi finanziaria ed economico-sociale iniziata nel 2008”, in grazia di quale acrobatico salto logico dovremmo concludere che dosi maggiori della medicina che ha provocato quei sintomi, che in teoria era chiamata a curare, costituirebbero la giusta terapia? 
Chi si produce in simili contorsioni evidentemente “sa” che la federazione è lo strumento adatto allo scopo. In base a quale ragionamento, fondato su quali presupposti? E' raro vederli esplicitati, tanto meno discussi. 
Ho provato quindi a scavare un pochino nella storia dell'idea di unificazione europea per vedere di scoprirli. La (ovviamente provvisoria) conclusione a cui sono arrivato è che tali presupposti sono costituiti da visioni e giudizi sulla società e lo Stato che o sono incoerenti con le ricette proposte oppure infondati (e spaventosamente reazionari). Vediamo un po' di cosa si tratta.

2. Innanzitutto che la protezione della “pace” costituisca la ragion d'essere prima ed essenziale dei progetti di federazione europea è proclamato in continuazione dai suoi stessi teorici. Iniziamo con  Hayek: “Senza dubbio lo scopo principale di una federazione interstatale è assicurare la pace [...]” (Friedrich A. Hayek, “The Economic Conditions of Interstate Federalism,” New Commonwealth Quarterly, V, No.2 (September, 1939), ristampato in F. A  Hayek, Individualism and Economic Order, Chicago, Chicago Press University, 1948, pp. 255–72. La traduzione è mia).

Qui bisogna aprire una breve parentesi: Hayek non è citato spesso fra i “padri nobili” dell'Europa; qui, e in molti altri post (per non parlare del libro), è stato ampiamente spiegato perché Europa ed euro assolvano efficacemente agli obiettivi che il noto economista si proponeva. 
Ad ulteriore conforto di tale ricostruzione, oltre al nominato Streeck, si possono citare due storici, dall'orientamento opposto, come Bernard Moss e John Gillingham [un sentito grazie a Bazaar per la segnalazione di quest'ultimo]:

Based primarily on ordo-liberal principles of market competition and sound money, the EC acted as regional enforcer of labor subordination and wage discipline much as Friedrich Hayek, the Austrian-born economist-philosopher, had advocated
After the Second World War Hayek had rallied liberal economists and policy makers to challenge Keynesianism and the welfare state in his elite Mont Pelerin Society (Hartwell, 1995). 
Unlike social democrats, who supported the welfare state as a barrier to Communism, Hayek perceived the danger of communism arising from within, from the spiraling inflationary demands of labor backed by the democratic state. He was a neo-liberal because he recognized the difference that laws and political institutions could make to market outcomes.” (B. H. Moss (a cura di), Monetary Union in Crisis. The Europea Union as a Neo-liberal Construction, N. Y., Palgrave MacMillan, pag. 12).
“Hayek developed the theory that is at the very core of the liberal project for Europe, but he remained vague about how the process of European integration could be set in motion. 
He did not delve deeply into specifics of implementation. Instead, one finds among the leading figures (ORDO-liberals) of the Freiburg School – men infuenced by yet distinct from the “Austrians” – the clearest understanding of the fact that, in order to operate satisfactorily, the damaged economy of the war-torn continent had to be nested in a new set of “market-conforming” (Marktkonform) institutions that 
(a) guaranteed respect for property and contract, 
(b) was anchored in monetary stability, and 
(c) was designed to protect the competition principle. 
Such an institutional emphasis can be said to typify even liberal German economic thinking. ORDO-liberalism is also characterized by a profound moral revulsion to national socialism, deep ethical concerns and commitments, and a quite specific engagement with the problems of economic reconstruction in the remnants of the broken and occupied German nation. On the German issue, Hayek’s Freiburg associates would “pick up the ball and run with it.” (J. Gillingham, European Integration, 1950-2003. Superstate or New Market Economy?, N.Y., Cambridge University Press, 2003, pag. 10).

3. Chiusa parentesi. 
Proseguiamo avvicinando forse il massimo teorico italiano del federalismo europeo, vale a dire Mario Albertini, che proprio nel perseguimento della pace ravvisava il fondamento specifico del federalismo. 
A questo proposito è utile un suo breve scritto, in cui – ci informano i curatori dell'Istituto di studi federalisti Altiero Spinelli – Albertini conduce un'analisi del federalismo “nei suoi tre aspetti (di valore, di struttura e storico-sociale)” “con un'ampiezza che non trova riscontro in altri” suoi “scritti” (la mostruosa mole dei quali ci induce a tenerci caro quello qui linkato :-)). 
Vediamo i passaggi essenziali del ragionamento: della pace si dà una definizione kantiana, che valga a distinguerla da “tregua”. Albertini, op. cit. pag. 9: 
Bisogna stabilire bene la linea di demarcazione tra queste due situazioni. 
La prima è contrassegnata dalla mancanza del rischio di essere aggrediti, ossia dal fatto che tutti sono sicuri senza armi. 
La seconda è contrassegnata dal rischio permanente di essere aggrediti, ossia dal fatto che nessuno è sicuro senza armi
Naturalmente nella seconda situazione si distinguono due casi: quello nel quale gli uomini si stanno battendo e quelle nel quale sono semplicemente in stato di vigilanza perché aspettano di battersi o di difendersi. 
Non c'è dubbio che qualunque persona, messa con chiarezza di fronte ai tre casi di queste due situazioni, riserverebbe il termine di “pace” alla prima situazione, chiamerebbe “guerra” il primo caso della seconda situazione, e parrebbe di un istante di “tregua” nel secondo caso. 
E non c'è dubbio nemmeno sul fatto che la prima situazione è contraddistinta dall'obbligo per tutti di comportarsi secondo un ordine legale, ossia dall'esistenza dello Stato, mentre i due casi della seconda situazione sono contraddistinti proprio dalla mancanza di tale obbligo, ossia dalla mancanza di uno stato comune a tutte le persone che entrano in rapporto tra loro”. Cioè la pace consiste nell'estensione pura e semplice del ruolo pacificatore dello Stato (pag. 12: “Si può quindi affermare che i vari conflitti psicologici, economici, etnici possono essere l'occasione dello scoppio della guerra, quando la guerra è possibile, ma se esiste un ordine statale in grado di risolverli pacificamente essi cessano di essere causa di guerra: la vera causa della guerra è dunque l'assenza di un ordine statale”).

4. Detto con brutale sintesi, Stato mondiale = pace mondiale
Anche nel Manifesto di Ventotene la federazione europea è vista in effetti come “preludio di una federazione mondiale”. 
Insomma, il fogno
Questa funzione escatologica che il federalismo viene chiamato ad assolvere, per quanto possa sembrare (ed essere) ridicola, non va sottovalutata.
Introduce quello che è un elemento importante del discorso sulla pace: il ricatto morale. “Ma come? Volete forse mettervi sul cammino del Bene, della Giustizia, della Civiltà alimentando guerra e inimicizia fra i popoli?”
Il che evidentemente implica che questi profeti di pace siano convinti di aver trovato l'infallibile ricetta in grado di procurarla. 
Scrive Popper (On The Sources of  Knowledge and of Ignorance, London, Oxford University Press, 1966, pag. 177) “The theory that truth is manifest – that it is there for everyone to see, if only he wants to see it – this theory is the basis of almost every kind of fanaticism. For only the most depraved wickedness can refuse to see the manifest truth: only those who have every reason to fear the truth can deny it, and conspire to suppress it.
Yet the theory that truth is manifest not only breeds fanatics – men possessed by the conviction that all who do not see the manifest truth must be possessed by the devil – but it may also lead […] to authoritarianism”. 
Io della ringhiosità di qualche piddino trovo spiegazione in queste righe; non so voi...
Insomma, per tornare al punto, questa salvifica ricetta, in cosa consiste?  
Quali caratteristiche dovrebbe avere il vagheggiato Stato federale di cui stiamo parlando?  
Albertini, op. cit., pag. 14: 
La pace deve sì essere ricercata per sé stessa: essa è un valore specifico universale ma un ordine giuridico universale non può essere raggiunto senza che siano state realizzate la libertà, la democrazia, la giustizia sociale ovunque.” Che meraviglia. A Ventotene si arriva addirittura a promettere una rivoluzione federalista “socialista”. 


5. Tutti convinti, dunque? Un momento, facciamo un passo indietro e torniamo al nostro amico Hayek...
Che in The Road to Serfdom  (The Collected Works of F. A. von Hayek, Vol. II, Londra, The University of Chicago Press, 2007, pag. 312) ci racconta che l'idea di una federazione mondiale non è certo il parto originale delle elucubrazioni dei federalisti nostrani: 
It is worth recalling that the idea of the world at last finding peace through the absorption of the separate states in large federated groups and ultimately perhaps in one single federation, far from being new, was indeed the ideal of almost all the liberal thinkers of the nineteenth century. From Tennyson, whose much-quoted vision of the “battle of the air” is followed by a vision of the federation of the people which will follow their last great fight, right down to the end of the century the final achievement of a federal organization remained the ever recurring hope of a next great step in the advance of civilization. 
Nineteenth-century liberals may not have been fully aware how essential a complement of their principles a federal organization of the different states formed; but there were few among them who did not express their belief in it as an ultimate goal.”

Cioè la federazione mondiale era considerata sì uno strumento di pace, ma solo in quanto lo garantivano quei principi – del liberalismo ottocentesco – rispetto a cui la federazione era “essential a complement”. 
Siamo sicuri che tra questi principi vi fosse la “giustizia sociale” o, niente meno, il socialismo? Proviamo a vedere...  

6. Prima di tutto, basandosi su questi loro principi, dov'è che i liberali à la Hayek vedono l'origine di una minaccia per la pace a cui la federazione può essere antidoto? 
Ce lo dice Hayek stesso in The Road (pag. 301): 
The part of the lesson of the recent past which is slowly and gradually being appreciated is that many kinds of economic planning, conducted independently on a national scale, are bound in their aggregate effect to be harmful even from a purely economic point of view and, in addition, to produce serious international friction. That there is little hope of international order or lasting peace so long as every country is free to employ whatever measures it thinks desirable in its own immediate interest, however damaging they may be to others, needs little emphasis now. Many kinds of economic planning are indeed practicable only if the planning authority can effectively shut out all extraneous influences; the result of such planning is therefore inevitably the piling-up of restrictions on the movements of men and goods.” 

E qui finalmente cominciamo a uscire dalla nebbia: la regolamentazione degli scambi con l'estero conduce alla guerra; la terapia sta nella diagnosi stessa: il free trade porta alla pace
Un'idea non precisamente nuova ("world peace through world trade" è diventato addirittura uno slogan della IBM...) e poco resistente a un esame storico
Come scrive Ian Fletcher in un interessante libretto - Free Trade Doesn't Work, Washington, U.S. Business & Industry Council, 2010, pag. 44: 
Free traders since 19th-century classical liberals like the English Richard Cobden and the French Frederic Bastiat have promised that free trade would bring world peace. Even the World Trade Organization (WTO) has been known to make this sunny claim, which does not survive historical scrutiny.
Britain, the most freely trading major nation of the 19th century, fought more wars than any other power, sometimes openly with the aim of imposing free trade on reluctant nations. (That’s how Hong Kong became British.) Post-WWII Japan has been blatantly protectionist, but has had a more peaceful foreign policy than free-trading America.”
.


7. Questa idea, dunque (com'è constatabile da molte altre fonti storiografiche) è basata su una visione immaginaria della Storia, ma, soprattutto il suo legame coi nostri amici federalisti non è chiaro: c'entra? 
C'entra, c'entra...
Prima di tornare a loro però completiamo il quadro dell'analisi hayekiana: la tendenza a regolare gli scambi con l'estero, e quindi al bellicismo, secondo il nostro deriva dall'economic planning, cioè nell'intervento pubblico nell'economia che, disturbando il funzionamento di quelle che lui chiama “regole di pura condotta”, uniche garanti degli interessi generali, altera il mercato a favore di interessi particolari
Insomma, si tratta di quel liberalismo ristretto di cui abbiamo già parlato. Detto più empiricamente, pressioni interne hanno vieppiù spinto gli Stati ad anteporre obiettivi di politica interna all'equilibrio degli scambi commerciali, arrivando a mettere in discussione quella che ne era la suprema garanzia, ovvero il gold standard
Ciò ha offuscato quella “visione che, prima della prima guerra mondiale, offriva un terreno comune a quasi tutti i cittadini delle democrazie occidentali e che è la base del governo democratico.” (Hayek, Le condizioni economiche cit.). 
Sarebbe il caso di precisare: di tutti quei pochi cittadini che da quell'assetto traevano immediato beneficio e non erano chiamati a pagarne i costi

8. Per dare uno sguardo alla realtà dietro le formule ideologiche, apriamo la più autorevole storia del sistema monetario internazionale, vale a dire Globalizing Capital (Princeton University Press, New Jersey, 2008, pag. 2), opera di uno studioso della stazza di Barry Eichengreen e leggiamo un po' qual è il passato-gold standard che Hayek tanto rimpiange
"What was critical for the maintenance of pegged exchange rates, I argue in this book, was protection for governments from pressure to trade exchange rate stability for other goals. Under the nineteenth-century gold standard the source of such protection was insulation from domestic politics. The pressure brought to bear on twentieth-century governments to subordinate currency stability to other objectives was not a feature of the nineteenth-century world.
Because the right to vote was limited, the common laborers who suffered most from hard times were poorly positioned to object to increases in central bank interest rates adopted to defend the currency peg. Neither trade unions nor parliamentary labor parties had developed to the point where workers could insist that defense of the exchange rate be tempered by the pursuit of other objectives. The priority attached by central banks to defending the pegged exchange rates of the gold standard remained basically unchallenged. Governments were therefore free to take whatever steps were needed to defend their currency pegs
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9. Qual è l'obiettivo, dunque?  
La restaurazione di quello che M.S. Giannini definiva “lo Stato monoclasse”, caratterizzato cioè dalla concentrazione del potere nelle mani di una ristrettissima oligarchia che poteva scaricare sulla maggioranza della popolazione, lavoratori in primis, i costi dell'instabilità che il regime economico più conforme ai loro interessi provocava. 
Naturalmente l'imbroglio di Hayek è quello di tentare, secondo una linea fatta propria dall'ordoliberismo (cfr. Moss (a cura di), op. cit., pag. 106: “The ordo-liberals, close to Hayek, blamed the past catastrophes of war, revolution, runaway inflation, and Nazism on state intervention and labor and industrial monopoly”), un'equivalenza fra l'interventismo democratico e quello nazista: insomma, i sindacati, bersaglio ossessivamente additato dal nostro, antesignani delle SS (per quanto non palesemente assurdo di questa lettura, rinvio ovviamente all'analisi di Kalecki). 
Va bene (diciamo così). E i nostri amici federalisti? Non ce li siamo dimenticati...

Il federalismo europeo ci darà la pace: sempre lì siamo. Ma perché gli Stati lasciati a sé stessi dovrebbero essere guerrafondai

10. Per quando già ben leggibili nel Manifesto, le questioni chiave si si presentano nella forma più chiara in un saggio di Altiero Spinelli, Politica marxista e politica federalista (scritto fra il '42 e il '43, quindi dopo il Manifesto di Ventotene, che è del '41) che purtroppo non sono riuscito a reperire on-line. 
Citerò quindi dall'edizione cartacea in mio possesso (I classici del pensiero libero, vol. 25, Milano, RCS Quotidiani S.p.A. su licenza Mondadori, pp. 73 e ss.), con tanto di commossa introduzione di Tommaso Padoa Schioppa (siete invidiosi, lo so...). Dunque, a noi. 
Secondo Spinelli (op. cit., pag. 80) il male che travaglia lo Stato contemporaneo sarebbe il “sezionalismo”, “caratteristica predominante della nostra epoca”. 
Il sezionalismo sorge dal fatto che non esiste una armonia automatica e spontanea fra gli interessi particolari e le esigenze generali di un certo tipo di civiltà. Perché queste esigenze possano farsi valere, occorre sempre stabilire delle regole generali che fissino i limiti entro cui gli interessi particolari possano esplicarsi, e che sieno [sic!] accompagnate da una forza sufficiente per essere rispettate. Se le forze particolaristiche di individui o gruppi riescono a spezzare queste regole generali e ad imporre di fatto altre, in cui si tenga esclusivamente conto dei particolari interessi di quegli individui o gruppi, sopraffacendo il resto della società, danneggiando e svuotando così la forma di civiltà, si ha il fenomeno del “sezionalismo””. 
E qui un campanellino forse comincia a suonare. Vediamo un po' cos'ha da dire Spinelli sui sindacati (pag. 86): 
Per la soluzione sindacalista, basterà dire che, comunque si ridistribuisca nell'interno dei sindacati il reddito, essa non fa altro che esasperare tutti i contrasti sezionali della società odierna, la quale è già in buona parte sindacalista. Il sindacalismo è una mezza idea, che dal punto di vista nazionale val meno che nulla. Essa sorge ed incontra favore per due motivi diversi, che però indicano entrambi la fiacchezza mentale di chi la propone.
Sindacalisti sono innanzitutto molti, i quali vedono che la società attuale è già tutta irta di baronie sindacaliste, e si lasciano trascinare dalla corrente, sperando misticamente che, quando si fosse giunti alle estreme conseguenze, si approderebbe ad una situazione idilliaca. 
Questo sindacalismo è messo avanti specialmente da coloro che cercano di esaltare la combattività delle forze già impegnate in lotte di carattere sezionale. I capi che lo coltivano fanno semplice opera di demagogia. Il sindacalismo non è una soluzione, è un processo di disintegrazione sociale, ruzzolando il quale si giunge infine alla statizzazione di tutta la vita economica
L'equilibrio è [sic. Credo sia “e”] l'armonizzazione fra i vari sindacati, deve alla fine essere imposta dallo Stato, il quale assume dispoticamente tutta la gestione dell'economia, lasciando agli organismi sindacali semplici funzioni tecniche, o sopprimendoli senz'altro come superflui.” 
“Il collettivismo è la segreta tendenza dello stato moderno sovrano” (pag. 89). 
Vogliamo chiamarla “via verso la schiavitù”? 
La lotta di classe è essenzialmente lotta sindacale; non è altro che la lotta per interessi sezionali” (pag. 97). 
E dove starebbero gli interessi generali? Presto detto (pp. 81-82):
Marx aveva visto nello stato il rappresentante ed esecutore degli interessi collettivi della borghesia. Ciò poteva forse sostenersi con un'apparenza di ragione un secolo fa. Ma da un pezzo lo stato ha cessato di essere questo comitato esecutivo, sia pur solo della borghesia, ma comunque dei suoi interessi generali. Questi interessi consisterebbero nella garanzia in un mercato quanto più libero, quanto più ampio e quanto più esenta da situazioni monopolistiche fosse possibile. Lo stato moderno è divenuto invece sempre più il rappresentante e l'esecutore di quei determinati interessi sezionali che sono abbastanza forti o abbastanza insidiosi da costringerlo a piegarsi alla loro volontà e mettere al loro servigio particolare il suo potere. E questi interessi possono essere tanto di particolari gruppi borghesi (cosa che si vede ad esempio quando viene deliberatamente svalutata la moneta) o di particolari gruppi di operai (politica contro l'immigrazione) o di gruppi borghesi alleati a gruppi operai (politica protezionista)”. 
“Nell'ambito della politica federalistica, sarebbero misure intese alla eliminazione di privilegi monopolistici, che si inquadrerebbero nell'opera di distruzione delle più o meno autarchiche economie programmate, e verrebbero ad inserirsi nell'opera di creazione di un libero mercato europeo sul quale solo si può fare affidamento per la fusione delle malate economie nazionali in un'unica, sana, economia europea” (pag. 109). 
E credo che i campanelli che suonano cominciano ad essere più d'uno. 
Proseguiamo (pag. 83): “Il sezionalismo nella vita economica dei singoli paesi, ostacolando il traffico, rende molto più gravi gli attriti fra paese e paese, e spinge con energia verso una politica di militarismo e di imperialismo gli stati sovrani, i quali già per loro natura sono portati a non occuparsi altro che dei propri interessi particolari nazionali. La soluzione totalitaria porta al culmine questa tendenza, poiché sottoponendo tutta la vita economica al potere statale, da una parte affida ad esso tutto intero il compito di ottenere con la forza, rispetto agli altri paesi, posizioni di privilegio, e dall'altro lo rende tanto più capace di prepararsi ad una guerra totale.”

11. E qui – mi auguro - la nebbia si dirada definitivamente e la lettura parallela Hayek-Spinelli dà tutti i suoi chiarificatori frutti. 
In buona sostanza si tratta sempre di impedire, con un bel gold standard a suprema garanzia - la moneta unica è una rivendicazione già contenuta nel Manifesto di Ventotene-, che lo Stato intervenga negli scambi internazionali attraverso “whatever measures it thinks desirable in its own immediate interest”. Naturalmente una misura a disposizione ci sarà ancora: la deflazione, se è vero, come spiegava Joan Robinson, che il free trade, tanto più quando suggellato da un cambio fisso, non è altro che una più sottile forma di mercantilismo.   

Per riassumere, nella visione hayekian-ordo-federalista i due aspetti, interno ed esterno, si rafforzano reciprocamente: lo Stato interventista non potrà che essere autoritario e quindi militarista; la regolamentazione pubblica dell'economia rende indispensabile limitare le pressioni economiche (per esempio deflazioniste...) esterne, deteriorando i rapporti con gli altri Stati. Insomma, nemico della pace non è chi pratica la deflazione, ma chi vorrebbe resistervi (avete capito: la tutela del lavoro e la nostra Costituzione sono i veri nemici della pace; pacifista è chi vorrebbe veder lavorare anche i bambini (vd. dopo)).  
La medicina a tali terribili mali non è altro che la consueta utopia ottocentesca del mercato che si autoregola e la “pace”, come inevitabile sbocco, nient'altro che l'ennesimo esercizio di deduttivismo liberista. L'Europa protegge la pace come garantisce la piena occupazione: date il liberismo, la pace verrà.  

12. Naturalmente è facile obiettare che, seppure vi sono indiscutibili analogie tra Hayek e i federalisti nell'analisi dei difetti dello Stato nazionale, i secondi non sono mai stati soddisfatti del processo di integrazione europea così come esso si è svolto. 

Possiamo vederlo guardando all'oggi: riprendiamo il sunnominato Pistone, che dà conto del dibattito tedesco fra Streeck e Habermas
Questa opposizione [al neoliberismo], va sottolineato, è propria, fin dal Manifesto di Ventotene, dei federalisti, per i quali la democrazia — cioè il valore che richiede la pace per poter essere pienamente realizzato — deve essere allo stesso tempo liberale e sociale (il che significa un impegno strutturale contro le disuguaglianze fra le persone e fra i territori) per essere reale.” Nell'articolo dello stesso autore citato all'inizio: “La sfida è chiaramente il passaggio dall’integrazione economica essenzialmente negativa (cioè l’eliminazione degli  ostacoli  al  libero  movimento  delle  merci,  delle  persone,  dei  capitali  e  dei  servizi)  a un’integrazione economica  che sia anche  positiva (cioè forti  politiche sopranazionali  dirette ad affrontare  gli  squilibri  inevitabilmente  prodotti  dal  mercato  non  governato)”. 

13. Qui la risposta ai federalisti la lasciamo dare direttamente ad Hayek: quegli strumenti di intervento economico di cui è bene che lo Stato venga privato non possono più essere ricostituiti a livello sovranazionale! 
Tale lucida intuizione del nostro fornisce al suo programma federalista, se non altro, una interna coerenza
Questo il ragionamento (tutte le citazioni sono tratte dal saggio del '39): “L'assenza di barriere doganali e la libera circolazione di persone e capitali fra gli Stati hanno alcune importanti conseguenze che spesso sfuggono: riducono notevolmente le possibilità di intervento dei singoli Stati nella politica economica. Se le merci, le persone e il denaro possono muoversi liberamente attraverso le frontiere interstatali, gli Stati membri non posso più influenzare i prezzi attraverso l'intervento pubblico. [...]
Ora, praticamente ogni politica economica odierna volta ad assistere particolari industrie procede tentando di influenzare i prezzi: lo faccia attraverso marketing board, regimi vincolistici, “riorganizzazione” obbligatoria o distruzione di eccesso di capacità produttiva di certe industrie, lo scopo è sempre quello di limitare l'offerta e quindi aumentare i prezzi.  
Tutto ciò diverrebbe chiaramente impossibile per il singolo Stato all'interno dell'unione: l'intero armamentario di marketing board e altre forme di organizzazioni monopolistiche cesserebbero di essere a disposizione dei governi degli Stati.”
Ma anche rispetto a interferenze meno profonde nella vita economica di quelle che comporta la regolamentazione della moneta e dei prezzi, le possibilità aperte ai singoli Stati sarebbero pesantemente limitate. 
Se è vero che gli Stati potrebbero ancora esercitare un controllo sulla qualità delle merci e dei metodi di produzione impiegati, non dev'essere trascurato che, posto che lo Stato non possa vietare l'ingresso di merci prodotte in altre zone dell'unione, ogni obbligo posto dalla legislazione statale su una particolare industria la svantaggerebbe seriamente rispetto alle attività simili in altre zone dell'unione
Come è stato dimostrato dall'esperienza nelle federazioni esistenti, anche norme come la restrizione del lavoro infantile diventano difficili da imporre per i singoli Stati.” 
“E' anche chiaro che gli stati dell'unione non saranno più in grado di perseguire una politica monetaria indipendente. Con una moneta unica, l'autonomia delle banche centrali nazionali sarà ristretta almeno quanto lo era sotto un rigido gold standarde forse anche di più dal momento che, anche sotto il tradizionale gold standard, le fluttuazioni dei cambi tra paesi erano più ampie di quelle fra diverse parti di uno Stato o di quanto sarebbe comunque desiderabile consentire nell'unione.”
“Inoltre, nella sfera puramente finanziaria, i mezzi per raccogliere tasse sarebbero in qualche modo ridotti per i singoli Stati. Non soltanto la maggiore mobilità fra gli Stati renderebbe necessario evitare ogni sorta di tassazione che possa indurre il capitale o il lavoro a spostarsi altrove, ma insorgerebbero difficoltà anche con parecchie forme di tassazione indiretta.”
“Non intendiamo intrattenerci oltre su queste limitazioni che una federazione imporrebbe sulla politica economica degli Stati membri: probabilmente l'effetto generale è stato sufficientemente chiarito da quanto si è detto. In effetti è probabile che la prevenzione di elusioni della normativa fondamentale in materia di libera circolazione di persone, merci e capitali renda desiderabili restrizioni federali alla libertà degli Stati membri ancora più incisive di quanto si è fin qui ipotizzato e una ulteriore limitazione della possibilità di azioni indipendenti.”   
E qui arriva il punto cruciale del ragionamento: 
La pianificazione o la direzione centrale dell'economia presuppongono l'esistenza di ideali e valori comuni; il grado in cui questa pianificazione può essere realizzata dipende dalla misura in cui è possibile ottenere o imporre un accordo su questa scala di valori comuni.” 

14. Credo che questo accordo potremmo anche chiamarlo Costituzione
È chiaro che un simile accordo avrà un'ampiezza inversamente proporzionale all'omogeneità e somiglianza dei punti di vista e tradizioni degli abitanti di una certa area. Benché nello Stato nazione la sottomissione al volere della maggioranza sarà agevolato dal mito della nazionalità, dev'essere chiaro che la gente sarà riluttante a sottomettersi a interferenze nella loro vita quotidiana quando la maggioranza che dirige il governo è composta da persone di diverse nazionalità e tradizioni. In fondo è semplice  buon senso che il governo centrale di una federazione composta da popoli diversi sarà circoscritto a un limitato campo di intervento se intende evitare resistenze crescenti da parte dei vari gruppi che lo compongono. Ma cosa può interferire più pesantemente nella sfera personale delle persone di una direzione centrale della vita economica, che inevitabilmente discrimina fra i vari gruppi? Sembrano esservi pochi dubbi che il margine d'azione per la regolamentazione della vita economica di un governo federale sarà decisamente più ridotto di quello di uno Stato nazione. E poiché, come abbiamo visto, il potere degli Stati che compongono la federazione sarà stato a sua volta molto limitato, buona parte dell'interferenza nell'economia a cui ci siamo abituati diventerà impossibile sotto un'organizzazione federale.” Chiaro, no?

15. Concludiamo. 
O ha ragione Hayek – la pace coincide con liberalizzazione, integrazione negativa e moneta unica - ma allora di quale più Europa parliamo? 
Sì, certo, possiamo ancora aggiungere un esercito unico e ratificare giuridicamente un assetto di fatto, ma senza particolari cambiamenti: la distruzione a cui stiamo assistendo è il fisiologico operare del mercato e in ogni caso un ritorno alla regolamentazione pubblica dell'economia costituirebbe un'interferenza nelle regole generali di pura condotta di “un'economia sociale di mercato fortemente competitiva” se condotta a livello federale  e una rivendicazione nazionalista, potenzialmente foriera di scontri e guerre se intrapresa a livello statale: “Qualunque cosa si possa desiderare circa altri fini dell'azione pubblica, sicuramente la prevenzione della guerra e del disordine civile dovrebbero avere la precedenza e se è possibile conseguirli solo limitando lo Stato a questo e pochi altri scopi, quegli altri ideali dovranno cedere il passo.”, ci dice sussiegosamente Hayek.   
Oppure il liberismo non è la risposta a tutti i problemi, e anzi è stata proprio l'esistenza di “un'unione monetaria senza governo economico europeo”, come ricostruisce Pistone, a creare i terrificanti problemi economici e politici che ci troviamo davanti
Se così è, vengono però meno i presupposti che costituiscono la ragion d'essere del federalismo europeo, cioè la critica, che in effetti non sembra avere molto riscontro nella realtà, allo Stato nazionale democratico interventista, visto come anticamera, se non realizzazione, di un concentrato di potere totalitario e militarista.

Quel che in ogni caso mi pare evidente è che i federalisti non sono portatori di magiche ricette che consentano loro di sottrarsi al dibattito nascondendosi dietro apodittiche formulette ricattatorie. 

lunedì 28 aprile 2014

LA SOFFERENZA DEI POCHI CHE DECIDE LA "MAGGIORANZA" DEI...POCHISSIMI (tra Padoan e Bentham, spiegando la Grecia)



Molti ricorderanno questa dichiarazione di Padoan, rilasciata in un'intervista al Wall Street Journal: "Il consolidamento fiscale sta producendo risultati, la sofferenza sta producendo risultati.
Riferita, com'è, al consolidamento fiscale nell'area euro, per la sua provenienza, non costituisce una sorpresa. 
Nella sua visione, più volte espressa in diversi studi, l'indebitamento pubblico è il problema e un consolidamento, "amichevole" per la crescita, consiste nel backstop al default sovrano (stile ESM o, ancor, meglio l'ERF), che si unisca ad una condizionalità tale da portare alla riforma strutturale del mercato del lavoro, garantendo la flessibilità verso il basso dei salari e il taglio della spesa pubblica e dei "buchi" nel prelievo fiscale (ergo, da inasprire per presunzione assoluta).
Anche la logica del "rinvio" circa il pareggio di bilancio era perfettamente scontata, in base a precedenti prese di posizione, come strumento pragmatico di miglior realizzazione dello scenario di consolidamento fiscale (Padoan ha detto, prosegue Reuters- ed eravamo nel 2013-, che l'OCSE, da molto tempo un tifoso delle politiche economiche che hanno dettato la risposta di forte austerità dell'UE alla crisi del debito (!), sta chiedendo a Bruxelles di consentire all'eurozona un periodo di rinvio agli obiettivi di deficit per tenere conto della prolungata crisi...i targets devono essere rivisti al netto degli effetti della recessione e calcolati in termini strutturali. Ciò significa che l'Italia è attesa avere un deficit strutturale vicino all'equilibrio nel 2013".).

Ma posta sul piano del "pragmatismo", - che presuppone la utilità di ogni policy che persegua "quell'"   assetto socio-economico considerato intangibile-, il riferimento alla sofferenza non è tanto una frase estemporanea determinata da inclinazioni psicologiche personali, quanto dall'adesione culturale ad una precisa visione della dottrina economica.
Quella per la quale  ogni "sofferenza" umana e sociale è giustificata dalla remunerazione del tornare a potersi rivolgere ai mercati nel collocamento del debito pubblico (!), prescindendo da ogni considerazione sulla crescita, sulla distribuzione del reddito, sulla sostenibilità del livello di disoccupazione nel frattempo provocato.
Ma dove ritroviamo gli esatti antecedenti di questa teoria della sofferenza salvifica per garantire l'esatta applicazione del governo dei mercati (e non altro)?

Il pensatore di riferimento è Jeremy Bentham (1748-1832), che, come ci dice Galbraith nella sua "Storia dell'economia" (pagg.134 ss.), venne in soccorso "dall'esterno" alla teoria economica neo-classica, messa a punto da Smith, Say e Ricardo e, più tardi, dagli scopritori della "utilità marginale", in un percorso che culminò nella costruzione consolidata di Alfred Marshall, in cui campeggia il dogma "universalista" della legge della domanda e dell'offerta, e quindi della determinazione di ogni prezzo e valore da parte dei "mercati". Che poi altro non sono che gli imprenditori lasciati nella piena libertà di operare le loro scelte "produttive".
E' lo stesso Marshall a dirci che Bentham, rispetto alla diffusa accettazione della teoria economica classica (e neo-classica) "tutto considerato fu il più influente degli immediati successori di Adam Smith".
Bentham partiva da un dato esistenziale che giustificava l'utilitarismo come legge suprema dell'intera organizzazione del consorzio umano. Scopo della vita umana era il perseguimento della felicità e questa aveva un immediato riferimento oggettivo: l'utilità di qualcosa di apprendibile dal mondo esterno all'individuo.
La felicità, e quindi l'utilità, era definita come "quella proprietà in forza della quale un qualsiasi oggetto tende a produrre beneficio, vantaggio, piacere, benessere o...felicità", ovvero per la quale tale oggetto "impedisce danno, dolore, sciagura...infelicità".
Incurante del problema relativo alla  "distribuzione" di tali oggetti e delle conseguenti dosi di felicità, o di infelicità "impedita", in capo ai singoli individui, e tantomeno della incomparabilità tra i gradi di soddisfazione determinati dalla potenziale diversità degli individui stessi, Bentham afferma che la massimizzazione della felicità procedeva, complessivamente, dalla massimizzazione della produzione di beni, ricollegandosi alla visione della produttività industriale sostenuta dai liberisti (abbiamo visto qui come Malthus avesse prospettato il problema delle classi "improduttive" ma consumatrici, che, in realtà, contraddiceva il dogma della materialità delle utilità prodotte. Ma doveva passare molto tempo prima che venisse superato. E non del tutto).
Comunque sia, per Bentham, nell'ottica utilitarista, la valutazione di qualsiasi azione economica e politica doveva guardare al suo effetto globale sulla produzione.
E qui viene il punto: ciò che promuoveva la produzione era utile e perciò benefico, anche se incidentalmente avesse dovuto risultarne una sofferenza per un minor numero di persone. L'utilitarsimo giustificava tale sofferenza laddove la società perseguisse la "massima felicità per il maggior numero". Con la conseguenza che la "infelicità del minor numero" dovesse essere accettata.
Anzi, di fronte a questo obiettivo di felicità - non ben riscontrata nella sua compresenza nella ipotizzata maggioranza- occorreva "indurirsi" contro i sentimenti di compassione per i pochi e addirittura respingere le iniziative a loro favore, per evitare che ne venisse danneggiato il maggior benessere dei molti.

A dimostrazione di come Marshall avesse ragione nel considerare Bentham un grande "influencer" del pensiero politico-economico, tramutatosi in senso comune per i seguaci del neo-liberismo contemporaneo (in UE, liberismo "ordinamentale" a trazione, non casualmente, tedesca), può constatarsi come, in questa ottica, l'allargamento dei mercati, tipica dell'era della grande liberalizzazione dei capitali, con le sue conseguenze di base demografica, spiega perfettamente la disinvoltura con cui le sofferenze di milioni di greci possano essere considerate, come sostengono Schauble, la Merkel e i vari Olli, un costo accettabile se non addirittura trascurabile.

Con la stessa disinvoltura di Bentham, - per l'inerzia provocata dalle iperconvinzioni deduttivistiche che sono alla base dei calcoletti pretesamente "matematici" tipici dei neo-liberisti-, si tralascia di misurare quando questa minoranza sia effettivamente tale
Il punto è che, per i liberisti, la misura di ogni maggioranza ("felice"), anche in forza della rappresentatività politico-istituzionale rivendicata come imprescindibile, era, ma ancora è, la soddisfazione della classe imprenditoriale dominante: se la maggioranza di coloro che sono in grado di imporre e far risaltare il proprio sentire e la propria visione del mondo è soddisfatta, da una qualunque politica, normalmente conforme ai loro obiettivi del momento, il costo della sofferenza inflitta viene automaticamente considerato accettabile.
E' dunque una questione di rappresentatività, di peso del proprio giudizio socio-politico e, in definitiva, di sua rappresentazione diffusa, compiuta in via preferenziale dai mezzi di comunicazione.
Per questo esatto motivo il liberismo, una volta fissato il "metro" utilitaristico della maggioranza felice, - cioè la minoranza "pesante" ed effettivamente capace di orientare le azioni dei mercati così come dello Stato-, ha teorizzato cheIl controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
(F. von Hayek da "Verso la schiavitù", 1944).

Si vede bene, (ma chi non vuol vedere è inutile che si sforzi), che il problema del controllo sociale utilitaristico-liberista, per la intrinseca contraddizione, o forzatura, del considerare implicitamente risolto in partenza il problema della rappresentatività, (in base alla maggioranza formata da chi avesse "peso specifico"), ripropone, ad ogni suo tentativo di affermare la propria supremazia, la costante esigenza del controllo culturale e mediatico.
Adattandolo anche alla sopravvenuta (e fastidiosa) fenomenologia del voto a suffragio universale.
Quand'anche lo scontento, causato dalla diffusa sofferenza, fosse esso stesso a risultare maggioritario, e quindi idoneo ad accertare la "disutilità" di un certo assetto, provvederanno i meccanismi di controllo culturale. 
Perchè la democrazia (sempre von Hayek ipse) è un metodo idraulico, che deve comunque facilitare un risultato prefissato dai proprietari-operatori economici, giudici inappellabili del rispetto della Legge (della "loro" Natura); o altrimenti, va rigettata
O controllata con ogni mezzo che spenga i "valori" che, incidentalmente, si connettono al "metodo".

 
A conferma della linea che unisce da Ricardo a von Hayek la visione dei liberisti e neo-liberisti, ci sovviene questa "splendida" autoproclamazione di Herbert Spencer (il darwinista sociale per eccellenza, che teorizzò che i "milionari sono un prodotto della selezione naturale"):
"La funzione del liberalismo in passato fu quella di porre un limite ai poteri del re. La funzione del vero liberalismo in futuro sarà quella di porre un limite ai poteri del Parlamento".
Basti questo per comprendere come ogni pretesa libertaria di questa corrente di pensiero, che rivendica a sè, a partire dalla Glorious Revolution, l'affermazione dei Parlamenti, riveli con ciò tutta la strumentalità del sostenere gli stessi; nella fase di affermazione contro le monarchie, era perfettamente accettabile e si parlava di lotta alla "tirannia". Poi il parlamentarismo divenne un peso all'utilitarismo autolegittimante di una nuova oligarchia.
La citazione è tratta da un libro di Spencer che fu certamente di ispirazione per von Hayek, se non altro per il suo eloquente titolo "The Man Versus the State" (Caldwell, p.209)

domenica 27 aprile 2014

SIAMO TUTTI SANTI, FORSE, OGGI

Siamo tutti santi, forse, oggi.
O forse non oggi.
Ma in ogni attimo, così normale che ci sfugge di mente quasi subito. Eppure santi.
Santi quelli che sfornavano il pane e ora non più.
Santi mentre ci avvolgono nel sudario del "vincolo esterno", la mitobiografia di un'Italia che non è mai esistita ma che ci soffoca col suo disprezzo.
Santi perchè siamo sempre stati meglio di così. 
Meglio di questo "incubo del contabile" da cui non vogliono che ci svegliamo.
Santi che parlano del nulla per sconfiggerlo e non per reclamarne l'inganno.
Santi cui non importa che ci dicano: "abbiamo ipotecato il futuro", perchè il futuro appartiene ai santi, oscuri santi, che non hanno altro che il futuro. 
Che è poi questo presente in cui siamo: e non siamo. Ma esistiamo, lasciando solo la scia della lotta di cui non ci pentiremo. Almeno nei giorni peggiori.

Ma vivi, e santi, perchè vivremo, fino all'ultimo respiro, per dire che ogni uomo...Ogni donna, ogni essere umano...Ognuno. Dire: siamo vivi.

Era così semplice: lasciateci il nostro pane quotidiano.
Siamo santi. 
Perchè volete ipotecare il nostro pane anche dopo che non saremo più?

Ora e sempre: democrazia. 
Per la vita. 
Amore per la vita, per TUTTI. Che salvi i giusti, ma ancor più gli ingiusti.
La piccola santità dei vivi.





venerdì 25 aprile 2014

CELEBRARE IL 25 APRILE NELLE PAROLE DEI COSTITUENTI. LA VERITA' DELLA LIBERAZIONE

 
 

La retorica che oggi circonda il 25 aprile ne tradisce gravemente le ragioni storiche e sociali più autentiche.
Non ha quasi più senso la ripetizione di formule sciatte, che rinviano a un passato descritto in modo da diventare privo di proiezione vitale sul presente, e questo per un preciso disegno di mistificazione
Arrivano persino a legare la Liberazione dal nazifascismo alla pace che sarebbe ora garantita dall'Europa (PACE, PER "LORO"=  "FORTE" COMPETIZIONE COMMERCIALE E FINANZIARIA TRA STATI, SENZA MECCANISMI DI SOLIDARIETA' FISCALE COMUNI E DEFLAZIONE "GOLD STANDARD" DEL LAVORO: NON VI PARE UNA CLAMOROSA PRESA IN GIRO?). 
Dunque una pace che viene fatta coincidere con l'euro! Cioè con la più colossale offensiva di rivincita delle oligarchie, contro lo Spirito democratico solidaristico e fondato sul lavoro, in ogni sua proiezione esistenziale, che mai sia apparsa sul Continente dai tempi delle stragi degli occupanti nazisti.
Per trovare parole degne di riportarci a quella "autenticità" e a quella VITTORIA della democrazia PER TUTTI, vi sottopongo l'intervento dell'on.Merighi (partito socialista) nella seduta del 7 maggio 1947, per sottolineare il profondo impegno civile ed il livello dell'etica che animavano la visione dell'Assemblea Costituente. 
Una cosa che oggi, a confrontarci con le pubbliche dichiarazioni dell'attuale politica, sarebbe semplicemente inconcepibile!
 
Mutatis mutandis, nelle sue parole ritroverete molti problemi attuali, quali quello del LIMITE FINANZIARIO, della proliferazione di centri di spesa non coordinati, della sovrapposizione di competenze ostativa all'efficienza nell'erogazione tecnica del servizio. 
Tutti problemi ricreati a posteriori, in nuove e più insidiose forme, nell'evoluzione dell'ordinamento degli ultimi 30 anni. Quelli della "sospensione" e del disprezzo per la legalità dei valori fondanti della Costituzione.
L'intervento fu svolto in sede di discussione dell'art.34, poi divenuto l'art.38 Cost. attuale, che vi riporto (è ancora scritto lì, fonte suprema, ma a richiamarlo oggi nel suo pieno senso di democrazia libera e solidale, pare fantascienza). 
Il finale del discorso ci dà la misura delle resistenze che albergavano, anche allora, nel cuore della rinascita democratica. Ma furono superate! A quel tempo...E ci chiediamo "com'è potuto accadere questo ritorno al passato sconfitto dalla Storia?". Chiediamocelo oggi:


Art. 38.
"Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato.
L'assistenza privata è libera."


E questo "spirito", questo intento di Liberazione dell'essere umano dalla miseria e dalla emarginazione, persino oggi moralisticamente legittimata dai suoi accigliati avversari - "fanulloni che vivono al di sopra delle loro possibilità", parole dell'oggi che parevano sconfitte dalla nostra Legge Suprema-  mi pare il miglior modo per celebrare il 25 aprile.

Merighi. [...] vengo direttamente alle questioni di cui più particolarmente mi interesso, e cioè alle questioni che sono conglobate nell'articolo 34. 
La Commissione ha redatto un articolo in questo senso: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all'assistenza sociale». Nessuna discussione in proposito.
Però a noi pare che questo comma primo dell'articolo 34 trovi la sua sede migliore o all'articolo 31 (divenuto poi l'art.36 Cost. sulla tutela del livello retributivo, che implica il perseguimento della PIENA OCCUPAZIONE da parte dello Stato) o all'articolo 32, in quanto che l'articolo 31 stabilisce il diritto ed il dovere al lavoro. 
Per converso, quindi, sembra conveniente stabilire anche quella che è la contropartita di questo diritto e di questo dovere. 
Quando un cittadino non può ottemperare a questo dovere e non può esercitare il diritto, interviene la società, che, qualora il cittadino sia inabile e sprovvisto dei mezzi, deve provvedere al suo mantenimento ed alla sua assistenza. 
Quindi non è per proporre una modifica che crediamo opportuno togliere questo comma, ma perché vorremmo piuttosto passarlo all'articolo 31, come sede più naturale
Dove noi ci differenziamo nel concepire l'assistenza che verrebbe sanzionata nei successivi commi dell'articolo 34, è nel punto ove si dice: «I lavoratori, in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».
Anzitutto, faremmo eccezione in questo. Cosa vuol dire «in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati?»
Se i mezzi devono essere adeguati per vivere, indubbiamente non si può tener conto del lavoro prestato; potrebbe essere il lavoro di un minorato e quindi minimo.
Ecco perché proporremmo che fosse soppresso l'inciso «in ragione del lavoro che prestano»; e proporremmo una formulazione in cui si dicesse che il lavoratore ha diritto ad avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie.

L'articolo 26 (ora divenuto l'art.32 Cost.) dice: «La Repubblica tutela la salute, promuove l'igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti».
Se i colleghi ricordano, proprio io ho sostenuto che non si dovrebbe parlare di indigenti, perché la società deve assicurare le cure e la prevenzione a tutti i cittadini. Quindi, noi insistiamo su questo fatto: che, oltre ai mezzi per la vita, siano assicurate le cure sanitarie; se si parla di invalidità e vecchiaia, indubbiamente è necessario pensare anche alle cure di questi malanni.
Quindi, proporremmo quest'altra formulazione del comma:
«Il lavoratore ha diritto di avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie per sé e per la famiglia, nei casi di malattia, di disoccupazione involontaria, d'infortunio, d'invalidità, vecchiaia». Ed aggiungiamo un concetto, che forse farà rabbrividire qualcuno: «ed in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».
Indubbiamente, questo diritto alla pensione riguarda la categoria di lavoratori che restano privati del sostegno e che si troverebbero quindi nella impossibilità di trovare i mezzi di sussistenza.
Sta bene che la parte prima dice che la società assicura al lavoratore i mezzi necessari alla vita, ma come faremmo ad estendere queste provvidenze ai familiari dei lavoratori morti o per malattia o per infortunio?
D'altra parte, una provvidenza del genere penso non inciderebbe fortemente sulle nostre finanze, ed a questo proposito torna opportuna la notizia che ho rilevata oggi dai giornali: che, cioè, la Confederazione generale del lavoro intende creare un fondo di solidarietà per gli assicurati dell'Istituto di previdenza sociale che non hanno diritto a pensione.
È un principio che dobbiamo accogliere immediatamente e che sono lieto di aver prevenuto ed esteso con la presentazione di questa aggiunta all'articolo in parola.
D'altra parte, faccio appello ai colleghi che ieri in quest'Aula, nella discussione di questo Titolo, hanno ricordato la convenienza e la necessità che ancora esista una carità. Questo noi facciamo, se stabiliamo il principio delle pensioni e della loro reversibilità alle vedove ed agli orfani.

Noi indubbiamente con queste pensioni reversibili verremo a sollevare tanti istituti, orfanotrofi, case di riposo e altre istituzioni che sono con grande difficoltà sostenute dagli enti pubblici e che debbono fare spesso appello alla carità. Noi non vogliamo discutere il concetto della carità, nobilissimo sentimento che troverà sempre in tutti i tempi la possibilità della sua esplicazione. Ma quanto meno dovremo fare appello alla carità per aver fatto appello alla solidarietà sociale, tanto più saremo profondamente lieti.
Poi noi avremmo aggiunto un altro comma che dice così: «I cittadini i quali per infermità congenita o acquisita sono inabili al lavoro ma possono con una rieducazione professionale adatta essere resi idonei a un particolare lavoro, hanno diritto a questa rieducazione e successiva immissione al lavoro». È un principio altamente sociale. 
Oggi credo che questa rieducazione al lavoro sia soltanto goduta dagli infortunati sul lavoro: ma vi sono tanti altri individui, tanti altri esseri, per usare una parola più generica, che si possono trovare minorati profondamente nella loro capacità lavorativa. Ricordiamo, per dare un esempio solo, i malati di poliomielite anteriore, che restano paralizzati o semi paralizzati ad un arto. Oggigiorno non trovano assistenza, oltre le cure mediche, spesse volte inutili, e non hanno possibilità di occuparsi perché è mancata una conveniente rieducazione e l'indirizzo ad un lavoro utile per loro e per la società. Chiediamo quindi il diritto alla rieducazione, pensando anche alle infermità congenite. Ci sono venuti in questi giorni appelli pressanti, profondamente commoventi, da parte dei ciechi. Non possiamo abbandonare questi disgraziati, anche quelli che sono ciechi nati. Noi sappiamo che possono, per l'acuirsi profondo, intensissimo di tutti gli altri loro sensi, essere utilizzati in lavori convenienti anche delicatissimi. La società deve facilitare questa immissione dei ciechi nelle forze produttive della Nazione rispondendo così, non solo all'appello dei ciechi stessi, ma ad un senso profondo di solidarietà umana. 

Onorevoli colleghi, ci siamo resi conto, noi medici e organizzatori sindacali, delle difficoltà finanziarie per applicare questi principî. Perciò siamo entrati in un concetto che non è nuovo, che fu ribadito molte volte e che è questo: dobbiamo riprendere, per risolvere i problemi dell'assistenza sociale, quella idea dell'assicurazione generale contro le malattie. Non è un concetto rivoluzionario.  
Io vi ricordo, egregi colleghi (mi dispiace che non sia qui presente l'onorevole Labriola allora Ministro del lavoro), che nel 1922 a seguito di un congresso delle Camere del Lavoro italiane tenuto a Trieste si reclamò, da parte degli operai organizzati, l'assicurazione generale obbligatoria contro le malattie. La Federazione degli ordini dei medici studiò allora un progetto di assicurazione contro le malattie, d'accordo con l'organizzazione sindacale e tutte le categorie mediche (e non fu una cosa facile mettere d'accordo le varie categorie dei medici); e questo progetto fu consegnato all'onorevole Labriola che lo accolse: lo stesso Presidente del Consiglio Giolitti lo approvò e se non fosse arrivato il fascismo probabilmente quel progetto sarebbe stato varato e sarebbe oggi una conquista su cui avremmo potuto contare.
L'assicurazione generale contro le malattie dal punto di vista economico inciderà grandemente sulle nostre finanze? 
Noi non lo crediamo. 
Se pensiamo alle spese enormi, che aumentano paurosamente giorno per giorno, sostenute, non dirò solo dagli istituti e dagli enti assicurativi che noi conosciamo, ma dai Comuni e dalle Congregazioni di carità per l'assistenza sanitaria, in fatto di spedalizzazioni, in fatto di sussidi per cure, in fatto di medicinali, troviamo cifre iperboliche, oserei dire pazzesche. Consolidando queste spese su un piano preciso e stabilendo una tassa proporzionale al reddito dei cittadini, noi potremmo risolvere, anzi risolveremmo senza dubbio, il problema dell'assistenza domiciliare ed il problema dell'assistenza ospedaliera e di ogni altra provvidenza. 
Anche il problema ospedaliero grava fortemente sulle nostre responsabilità civiche. Noi risolveremmo tanti problemi. 
E, badate, non è una semplice ipotesi che si faccia qui in questo momento, e per iniziativa di noi pochi. È da qualche giorno che il Gruppo medico parlamentare ha raccolto delle risposte ad un referendum proposto a tutte le categorie dei medici italiani. Vi assicuro che tutte le risposte sono concordi nello stabilire questo principio: che bisogna passare allo studio e all'applicazione di un sistema di assicurazioni contro le malattie, per cui naturalmente non vi siano più dispersioni, non vi siano più incongruenze, e vi sia una protezione maggiore, accanto all'assistenza medica, sanitaria e previdenziale attuale e che formi un tutto veramente completo ed organico.

Poi viene l'ultimo comma:
«All'assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Siamo d'accordo. 
Ma qui permettete, egregi colleghi, e permettano i membri della Commissione, che io ritorni sopra un argomento che ho già trattato a proposito della discussione dell'articolo 26, argomento che era già stato sostenuto precedentemente dal collega Caronia, ma la cui proposta fu dallo stesso ritirata. Io avevo aderito alla proposta dell'onorevole Caronia e non potei quindi, ritirandola egli, riproporre la questione. La riprendiamo oggi. 
Noi sappiamo che questi istituti di assistenza e di previdenza — e io direi anche con una parola più generica: questi istituti di protezione sociale — sono molteplici. E infatti la Commissione stessa, ricordando quanto già esiste, ha detto: «provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». 
Noi riprendiamo la questione del coordinamento di questi istituti, tanto più che, se in realtà si dovesse applicare il principio dell'assicurazione generale obbligatoria contro le malattie, noi avremmo la necessità assoluta di un organo tecnico propulsore e coordinatore di queste istituzioni vecchie e nuove
Dal lato amministrativo siamo d'accordo che dovrebbero amministrarsi a parte. 
E badate che in questa concezione, di coordinamento dal lato tecnico e di separazione dei servizi tecnici da quelli amministrativi, sono entrati già anche molti di coloro che sono a capo delle attuali istituzioni mutualistiche, le quali oggi, per converso, subordinano purtroppo il lato tecnico, grandemente più importante, alle funzioni amministrative. 
Noi domandiamo — e insistiamo su questo punto — che tutti questi organi, privati o dello Stato, mutualistici, previdenziali, assicurativi a scopo sanitario siano coordinati dal lato tecnico da un unico organo autonomo indipendente.
Anche in questo punto troviamo consenziente la generalità delle categorie interessate, in prima linea i medici. Esse trovano che non si possono realizzare molte cose se non c'è un coordinamento nel campo dell'assistenza sociale, dell'igiene, della previdenza e della prevenzione. 
Al giorno d'oggi ad esempio non è assolutamente possibile organizzare o dar corso a provvedimenti sanitari senza passare attraverso la burocrazia delle Prefetture. Non si può dare corso a provvedimenti di carattere generale a favore della collettività, perché l'Alto Commissariato per l'igiene e la sanità pubblica urta ora contro l'uno ora contro l'altro organismo, dipendente da altra amministrazione statale.
In proposito posso citare questo fatto. Durante e dopo la guerra, mentre l'Alto Commissariato per la Sanità pubblica faceva tutto il possibile per disinfestare e per disinfettare — facilitato in questo compito anche dagli aiuti dell'U.N.R.R.A. e dell'America — ci si era accorti che i vagoni delle ferrovie erano infestati da cimici e pidocchi. 
Si voleva intervenire, ma la Direzione sanitaria delle ferrovie non lo permise perché voleva fare da sé, ed i vagoni continuarono a circolare con cimici e pidocchi. Se noi vogliamo costruire o rinnovare ad esempio un ospedale, non possiamo perché gli aiuti, i consensi, le approvazioni necessarie, sono divisi almeno in tre Ministeri; il Ministero dell'interno, innanzitutto, poi, se questo ospedale avesse funzione didattica, come potranno avere tutti gli ospedali di una certa entità, il Ministero della pubblica istruzione, ed infine il Ministero dei lavori pubblici. 
Mettete d'accordo tre Ministeri sulla approvazione del progetto e vedrete quando si costruirà l'ospedale! Per questo insistiamo sulla nostra proposta. 
Noi non vogliamo togliere a nessuno la facoltà di iniziativa sulle vie del miglioramento civile, ma intensificare l'opera e dare precise direttive tecniche per non avere dispersioni ed interferenze. 

Io vedo in questo momento, avanti a me, spuntare il sorriso ironico dell'onorevole Nitti. (Interruzione dell'onorevole Nitti). Mi perdoni, onorevole Nitti, ma oltre al sorriso che rivedo si rinnova nel mio animo, tristemente, il ricordo del suo nero scetticismo di fronte alle possibilità di questa nuova Repubblica: di fronte alle affermazioni di questo statuto che vogliamo dare alla nostra Repubblica in cui crediamo. Noi vogliamo pensare — e non saremmo socialisti se non lo facessimo — vogliamo pensare all'avvenire. 
Ci lasci, onorevole Nitti, e con lei tutti quelli che non credono, ci lasci illuminare questa Costituzione con un raggio di fede; che non sarà una gran fede nelle nostre modeste possibilità scientifiche, ma sarà però, ed è, una grande fede nella nostra missione di medici e di organizzatori socialisti. (Applausi).