mercoledì 31 dicembre 2014

SOMMARIO DI FINE ANNO TRA TTIP E GRECIA: IN ATTESA DEL "RISVEGLIO CULTURALE"


A tutti i lettori faccio gli auguri per un 2015 di cambiamenti positivi.
E mi potrei fermare qui: non c'è altro che il wishful thinking per avvalorare questa prospettiva.
Tutto, ma proprio tutto, ciò che ostacola un ritorno del benessere e della democrazia in Italia è ancora saldamente lì, avvolgendo ogni aspetto dal pubblico dibattito, attraverso un'informazione monoliticamente votata a diffondere idee e soluzioni che possono solo finire di distruggere il Paese.

Sarebbe persino inutile, in questa sede, ripercorrere le analisi che abbiamo cercato di offrirvi per smascherare di questa orripilante ed opprimente cappa di livore, autorazzismo e malafede mista a irremovibile ignoranza.

Oggi l'attenzione è calamitata dalla vicenda greca: tra cancellazione del debito (non ben precisata), moratoria del pagamento degli interessi e "piano di ricostruzione nazionale" (cioè di immediato allargamento della spesa pubblica e di sgravio fiscale, per assistere i vari debitori disperati), da applicare in attesa che la trattativa sul debito giunga a buon fine, il programma Syriza ci pare nulla più che un libro dei sogni, senza particolare preoccupazione di mostrarsi attendibile.
Chiunque sia al governo in Grecia, - e qualunque politica economico-fiscale intenda seguire-, infatti, deve finanziare un deficit ed un debito pubblico (inteso come onere degli interessi che vanno a comporre tale deficit) che non lasciano scampo, e che implicano un ricorso ai creditori di ultima istanza; cioè a coloro che, in sostituzione dei "mercati" - i quali esigerebbero rendimenti immediatamente insostenibili-, concedono la provvista monetaria per mandare avanti la baracca (di quel che rimane) di uno Stato, in cambio di pesantissime condizionalità.
GRECIA DEFICIT DI BILANCIO  GRECIA DEBITO SU PIL
(http://frontediliberazionedaibanchieri.it/2014/07/il-discorso-di-pericle-l-ateniese-ai-troikani-bce-ue-fmi.html.
Un saluto e un augurio a Maurizio Gustinicchi...)

L'accettazione di queste condizionalità, contestualmente alla concessione del credito, è quindi l'oggetto di un accordo: ora Tsipras, ove vincesse le elezioni, non intenderebbe più rispettare tale accordo (o serie di accordi).
Come al solito, dobbiamo rammentare che uno Stato indebitato e sull'orlo di un'insolvenza è, per definizione, la parte debole di qualunque accordo coi creditori, diretti o indiretti. 
Se tale parte debole vuole dunque mutare a proprio favore un trattato internazionale economico (perchè questo è l'accordo creditizio che intercorre tra uno Stato e istituzioni finanziarie internazionali come la trojka), le concrete speranze di riuscita sono pari a 0,00forse qualcosina.

L'alternativa al mancato accordo è il default unilaterale del debito pubblico e la conseguente preclusione di accesso ai mercati per un periodo proporzionale:
a) al tipo di "concordato" sul recovery rate che si dovrebbe poi necessariamente concludere coi creditori internazionali (soggetti finanziari privati e pubblici); 
b) più ancora, al ripristino di affidabili condizioni di crescita economica del Paese interessato, ed in particolare al risanamento della sua posizione netta sull'estero.

Queste conseguenze e queste prospettive sarebbero realisticamente gestibili solo se la Grecia uscisse dall'euro e riacquistasse la propria sovranità monetaria (cioè il potere di stampare moneta secondo i bisogni e la quantità necessaria nell'apprezzamento delle sue istituzioni democratiche nazionali).
Siccome, Syriza esclude in partenza di uscire dall'euro, l'unica prospettiva realistica della sua strategia è un fallimento del tentativo di rinegoziare in posizione di parte debole e un poco dignitiso retromarcia sul "piano di ricostruzione nazionale". 
Anche perchè, come sappiamo, se si rimane dentro l'euro, l'austerità ha il preciso obiettivo (obbligato) di riequilibrio dei conti con l'estero e la strategia di Siryza non pare tenerne conto:
GRECIA CURRENT ACCOUNT

Non occorre neppure dilungarsi ulteriormente sulla questione greca. 
Quello che ci interessava era, ancora una volta, porre l'attenzione sul fatto che, in Grecia come in Italia, non esista una rappresentanza politica della sovranità costituzionale.
La propaganda-grancassa mediatica ha stordito troppo a lungo la massa degli elettori perchè ci si renda conto che la Costituzione, coi suoi obiettivi e diritti non negoziabili, è già, ora e subito, l'unico argine efficace per respingere l'attacco €uropeo, che vuole distruggere le democrazie, la dignità dei lavoratori e le prospettive delle future generazioni, in tutti gli Stati coinvolti nell'euro.

L'unico auspicio residuale che possiamo fare, a fronte di questa tragica situazione, è che ci possa essere un RISVEGLIO CULTURALE. Magari da questo 2015.
E magari fino al punto da portare prima alla coscienza diffusa della legalità costituzionale come soluzione e poi alla nascita di una rappresentanza politica altrettanto consistente e duratura di questa coscienza.

Non abbiamo alternative.
Anche se ammettessimo che il TTIP è un "destino" inevitabile, nell'ennesimo "rilancio liberoscambista", perpetuandosi "l'incubo internazionalista senza fine", non dobbiamo dimenticare che QUALSIASI NEGOZIATO LASCIA UN MARGINE DI USCITA, E/O DI CONVENIENZA, SE CONDOTTO AVENDO DI MIRA I PRESUPPOSTI E I LIMITI PREVISTI DALLA COSTITUZIONE IN TEMA DI TRATTATI.
Ma ovviamente, anche questo modo - costituzionalmente legalitario- di condurre un negoziato (altrimenti disastroso e "tombale" per l'Italia), richiede che si recuperino le famose "risorse culturali"...

lunedì 29 dicembre 2014

SOCIETA' A PARTECIPAZIONE PUBBLICA E SPENDING REVIEW: GLI "INTOCCABILI DEL PIU' €UROPA"

 
 

Questo articolo di Sansonetti ci racconta:
"E poi ci si stupisce che le partecipate pubbliche continuino a vivere indisturbate nel loro mondo di sprechi. E che il governo centrale non riesca a produrre norme incisive per smantellarle. Il fatto è che la situazione non sembra cambiare nemmeno a monte. Si prenda il ministero dell’economia, oggi retto da Pier Carlo Padoan, ovvero la maxistruttura per la quale è transitata l’ultima legge di Stabilità che contiene norme giudicate troppo timide sulle partecipate.

Ebbene, ancora oggi dal dicastero di via XX Settembre dipendono 30 società direttamente partecipate (ma considerando le controllate di secondo e terzo livello il perimetro si estende a dismisura). Ora, tralasciando società quotate come Eni, Enel e Finmeccanica, o le società più importanti come Cassa Depositi, Poste e Ferrovie, nel calderone delle 30  oggi rientra di tutto..."

All'autore dell'articolo diamo sommessamente un paio di indicazioni (o anche tre):
a) andare a verificare, - se vuole dirla "tutta"-, anche le società partecipate degli altri ministeri (e la loro utilità, la giustificazione economica della loro istituzione, i risultati gestionali che ne sono conseguiti, il numero dei dipendenti e le relative modalità di assunzione, le retribuzioni degli amministratori, ecc.);
b) di non dimenticare che la spending review implica seria volontà politica di riallocare razionalmente (cioè entro i compiti relativi alle "prestazioni essenziali" previste dalla Costituzione) la spesa pubblica; e non di tagliarla soltanto, con effetti pro-ciclici disastrosi.
c) infine di leggersi questo post di Sofia, che ripubblico aggiungendo qualche link utile "sopravvenuto" (per i numerosi "vecchi e nuovi lettori").

Liberalizzazioni e privatizzazioni sulla spinta di imposizioni comunitarie tese a “realizzare”il libero mercato: alcuni fatti e dati.
1.     Cenni al fenomeno delle liberalizzazioni e privatizzazioni.
Il rapporto tra lo Stato e il sistema economico-produttivo è sostanzialmente contenuto in quella che viene definita la Costituzione economica italiana ossia gli articoli 41, 42, 43, 44, 45, 46 3 47.(su quest'ultimo: http://orizzonte48.blogspot.it/2013/12/riflessioni-sulla-unione-bancaria-tra.html)
Per quello che interessa in questa sede deve porsi l’attenzione al terzo comma dell’art. 41La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.  Proprio sulla base di tale ultima disposizione si è basata la politica economica e industriale italiana dagli anni cinquanta alla fine degli anni settanta del secolo scorso. Si trattava di una politica economica  imperniata sul concetto cardine di programmazione economica che poteva avvenire anche attraverso la limitazione o l’eliminazione della libera concorrenza affidando l’esclusività della produzione, in determinati ambiti del sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale). Ciò anche sulla scorta dellart. 43 che stabilisce :A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.
La costituzione, quindi non accenna alla libera concorrenza che comunque, sino agli anni 80, era di fatto limitata da molteplici elementi, tra i quali proprio la sussistenza dei monopoli e dal fatto che l’economia nazionale era un’economia parzialmente chiusa con limiti alla libera circolazione dei capitali e delle merci. La concorrenza non era considerata una forza da incentivare, (e s'è visto, non a torto, ndr.) perché ritenuta una  forza destabilizzante, fonte di squilibri e disuguaglianze che andava incanalata in un’ottica di programmazione economica a sostegno dei fini generali.
A partire dagli anni 80 questa impostazione incomincia a subire cambiamenti sulla scorta dei mutamenti legislativi avviati dalla comunità europea che esercita una forte spinta, da una parte, per una liberalizzazione tra le diverse economie nazionali dell’UE e, dall’altro, per una liberalizzazione all’interno dei paesi.
La piena liberalizzazione dei mercati verso l’esterno è avvenuta sulla base di vari atti o accordi comunitari (l’Atto Unico del 1987 basato sul libro bianco del 1985 per il completamente del mercato unico; la Direttiva 88/361/CEE sulla liberalizzazione del mercato dei capitali;  il trattato di Maastricht e di Roma;  le direttive CEE sulla libertà di accesso e sulle garanzie di pari opportunità delle imprese pubbliche e private nell’ambito del mercato comunitario;  la direttiva “Bolkenstein” 2006 che ha affermato la piena libertà di stabilimento e la libera circolazione dei servizi).
La liberalizzazione all’interno è stata invece favorita dalle istituzioni europee tramite direttive specifiche per ciascun singolo settore che hanno imposto la liberalizzazione (con l’eliminazione delle imprese pubbliche ex monopoliste) e la privatizzazione totale o parziale delle stesse. A cui si è aggiunta una massiccia politica per la concorrenza che ha vigilato in tema di aiuti di Stato, concentrazioni, abuso di posizione dominante, intese e che sanziona ogni distorsione della libera concorrenza nell’ambito dei servizi di rilevanza economica (ossia pressoché tutti).
Emerge comunque, già da questi pochi assunti, un quadro che confligge in maniera stridente con il testo e lo spirito della Costituzione economica italiana che avrebbe dovuto porre all’attenzione delle istituzioni un serio problema di conflitti tra due fonti normative primarie: da un lato i trattati europei di ispirazioni univocamente e rigidamente liberista, dall’altro la Costituzione italiana che se pure è elastica ed aperta a molteplici soluzioni di politica economica e industriale, è esplicitamente sensibile alla centralità della programmazione.
La prima fonte ha finito per prevaricare sull’altra a tal punto che si è determinata una sorta di  neutralizzazione della sostanza della Costituzione economica italiana a favore di un’acritica adesione ai trattati comunitari, senza che siano ancora del tutto chiari gli effetti di questa operazione. E certamente senza che da questa ondata di privatizzazione e liberalizzazione il Paese si sia avvantaggiato in alcun modo; anzi, al contrario (con Fanfani e...Massimo Florio che, rispettivamente, premettono e confermano la bontà dell'idea del Costituente).
Certo è che la legislazione comunitaria e gli imposti principi del libero mercato  hanno avuto un ruolo fondamentale e determinante nel processo delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni, depotenziando fortemente le imprese pubbliche nazionali. Ed hanno portato ad una radicale modifica del sistema economico pubblico interno, in parte, facilitato  dalle disposizioni di cui agli artt. 41 e 43 della Cost.
La Costituzione, infatti, con il suo riferimento generico all'iniziativa economica pubblica (art. 41) riconosce allo Stato ed in generale ai pubblici poteri il potere di svolgere attività a carattere imprenditoriale. La portata di tale potere è assai più larga di quella indicata dall'art. 43 Cost.
Infatti non vi sono limiti nella tipologia delle attività assumibili, sicché non si dovrà trattare necessariamente di servizi pubblici, fonti di energia o monopoli.
La materia, inoltre, non è soggetta a riserva di legge, per cui vi si può provvedere in via amministrativa.
In tal caso, occorre solo che l'assunzione sia giustificabile per un qualche interesse pubblico, alla pari di ogni altra azione amministrativa (anche se in concreto questa condizione è stata spesso superata autorizzando le assunzioni singolari direttamente con leggi).
Questo stato di cose (utilizzato in maniera distorta dal sistema politico italiano)  insieme ai condizionamenti e alle forzature comunitarie, ha portato ad un progressivo cambiamento della forma giuridica dell'impresa pubblica verso assetti più flessibili ed adeguati all'esercizio di attività imprenditoriali ed, in particolare, la trasformazione delle aziende autonome e degli enti di diritto pubblico in società di diritto privato con risultati disastrosi per l’economia nazionale, di cui si forniscono solo alcuni dati e spunti di riflessione.
 

2.     Le società pubbliche.
Le società pubbliche sono uno strumento utilizzato dalle amministrazioni, generalmente, per svolgere compiti istituzionali ad esse affidati per legge e allo scopo dichiarato di:
- voler perseguire una maggior efficienza economica nella gestione di servizi pubblici;
- realizzare opere attraverso l’utilizzo di strumenti privatistici;
-  sostenere l’attività di impresa e l’occupazione.
A fronte di tali scopi, senz’altro pregevoli, ciò a cui si è assistito è stato una crescita esponenziale di soggetti di natura privatistica, che difficilmente è avvenuta sulla base di idonei studi preliminari di convenienza economica e di analisi del mercato nel settore di riferimento. Al contrario, senza alcuna indagine preventiva di necessità e opportunità, si è assistito alla costituzione di società o comunque di figure soggettive alternative agli ordinari uffici ed organi dell’ente, per  ogni compito amministrativo.
Ma quel che è più grave è che, se pur nell’ottica di realizzare scopi significativi, si è avuta la proliferazione di società operanti sotto il controllo di forze politiche.
Sono queste, infatti, che incidono sui principali aspetti delle società pubbliche ossia:
- la loro costituzione, attraverso l’individuazione di programmi e finalità che vengono tacciati per essere assolutamente necessari alla realizzazione dei fini istituzionali e nell’interesse della collettività, ma che molto spesso rispondono a obiettivi “politici”, stabiliti discrezionalmente dalle istanze di governo;
- la loro gestione,attraverso:
i. nomine dirette di amministratori da parte dei rappresentanti politici che sono al governo (e che a loro volta subiscono le pressioni dei vari livelli territoriali su cui operano o da cui provengono) indipendentemente da qualunque idonea qualifica professionale e senza alcuna delimitazione quanto a cause di  incompatibilità e conflitti di interesse;
ii. impegnando risorse pubbliche nell’assunzione di personale senza procedure concorsuali. Infatti, la forma giuridica prescelta sottrae queste imprese al regime legale di determinazione delle piante organiche e delle assunzioni mediante pubblico concorso, spostando di fatto il gioco clientelare delle assunzioni su questi soggetti.
iii. impegnando ulteriori risorse per acquisizione di beni e servizi spesso eludendo e  aggirando le procedure pubblicistiche di derivazione europea nella contrattazione relativa agli appalti.
Ovviamente, tutto questo è stato possibile anche per il fatto che a livello legislativo è mancata la delineazione di principi  fondanti, di finalità che fossero riconosciute meritevoli di essere realizzate attraverso la forma societaria, di modalità sia preventive che successive di verifica sull’operatività, la economicità e la convenienza di tali soggetti.
E’ mancato un sistema di controllo effettivo sugli atti di spesa, così di verifica\controllo della cessione\riacquisto delle partecipazioni rispetto a soci privati (si pensi all’abolizione generalizzata su tutta la p.a., del controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti sugli atti di gara per pubblici appalti).
A ciò deve aggiungersi che la proliferazione del fenomeno ha trovato ampi margini di manovra anche per l’irrompere delle nuove competenze legislative esclusive delle regioni che si sono servite dell’istituto societario allo scopo di voler sostenere la politica economica di asserito sostegno al “privato”.
Anche gli interventi legislativi, lontani dall’affrontare il problema in maniera sistematica e strutturale, si sono nascosti dietro diversi espedienti (prima la necessità di ristabilire equilibri concorrenziali, poi di ridurre la spesa pubblica) per apportare  tagli in modo lineare, soprattutto a Regioni e enti locali che, lungi dal rivedere in termini di efficienza le proprie strutture societarie, hanno finito per tagliare i servizi spesso indispensabili per la collettività.
Le dimensioni del problema, acuite dalla sostanziale sottrazione alla concorrenza dell’attività di una parte di  queste società, sono piuttosto oscure, in assenza di una trasparente ricognizione dei dati relativi a bilanci, profitti, ricapitalizzazioni in corso di attività e redditività degli investimenti.
L’entità delle dimensioni si percepisce soltanto dalle ricadute in termini di spesa pubblica dall’entità e disomogeneità degli interventi normativi nel settore; da ultimo le recenti norme sulla spending review che vanno ad interessare le società pubbliche, anche se è troppo presto per comprendere se gli interventi previsti saranno adeguati alla necessità di ripristino di situazioni di legalità, economicità ed efficienza di cui ci sarebbe bisogno.
3.     Alcuni dati numerici sull'entità del fenomeno.
Rinvenire dati esaurienti sul numero e la tipologia delle società pubbliche e sullo stato di salute economico-finanziario delle stesse per riuscire quantomeno a comprendere se le amministrazioni sono riuscite a perseguire gli scopi di pubblica utilità che si erano prefissate con la loro costituzione, non è cosa agevole.
In base all'articolo 1 della Legge n. 296 del 27 dicembre 2006 (“Operazione Trasparenza”) le Amministrazioni devono comunicare al Dipartimento della Funzione Pubblica le partecipazioni in consorzi e società partecipate. Accedendo al sito www.consoc.it–per l’anno 2011 si rinviene un file in excel (http://www.perlapa.gov.it/web/guest/partecip2011) che dovrebbe contenere le partecipazioni delle pubbliche amministrazioni in consorzi e società partecipate.
Da questo documento le partecipazioni in consorzi/società/fondazioni (non quindi il numero di società) ammonterebbero a 39.357
E si tratta comunque di dati relativi poiché la ricognizione è su base volontaria.
La Corte dei conti, Sezione delle Autonomie, con l’Indagine sul fenomeno delle partecipazioni in società ed altri organismi da parte dei comuni e province del giugno 2010 ha fornito alcuni dati quantitativi del fenomeno che però si riferiscono all’arco temporale 2005-2008, sono stati rilevati 5.860 organismi partecipati da 5.928 enti (attenzione però perché si tratta solo di Comuni e Province, escluse quindi regioni e amministrazioni statali) costituiti da 3.787 società e 2.073 organismi diversi (dati che sono riportati nel documento n. 337 del 4.4.12 della Camera dei Deputati rinvenibile su http://documenti.camera.it/leg16/dossier/Testi/BI0506.htm#_ftnref2). 
  La Corte dei Conti conferma che con riferimento ai risultati economici delle società partecipate, nel triennio 2005-2007, dall’indagine risulta che 568 società, corrispondenti al 22,35% del totale, sono sempre in perdita.  
L’area di attività prevalente per le società sempre in perdita è quella dei servizi diversi dai servizi pubblici locali (con il 63,32% delle società sempre in perdita).
Nell’area dei servizi pubblici locali, il settore che mostra la percentuale più elevata di società in perdita è quello dei trasporti, seguito dal settore dell’ambiente – rifiuti. La Corte conferma che la costituzione e la partecipazione in società da parte degli enti locali risulta essere spesso utilizzata quale strumento per forzare le regole poste a tutela della concorrenza e sovente finalizzato ad eludere i vincoli di finanza pubblica imposti agli enti locali.
Ma anche il precedente documento n. 237 del 27.5.2011 della Camera dei deputati (http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/bi0409.htm#_ftnref2), richiamando una ricerca dell’Assonime,  parla di 5000 società a partecipazione pubblica.
Anche l’ANCI ha estratto dal sistema informativo del registro delle imprese i dati di tutte le imprese tra i cui soci al 31 dicembre 2010 figurava almeno un Comune.
Il risultato dell’estrazione ha dato 4.206 imprese (che si ribadisce sono solo comunali). Dall’esame dei bilanci depositati, inoltre, l’ANCI ha ricavato i seguenti dati: Valore della produzione complessivo 24.893.483.916, Costi del personale 7.254.217.511. Utile totale delle società in utile 824.662.289. Perdite totali delle società in perdita -581.216.033.
Un recente articolo pubblicato sul Corriere della Sera dell’8.10.12 (http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_08/quelle-societa-in-rosso-finanziate-da-regioni-antonella-baccaro_83723228-110b-11e2-b61f-b7b290547c92.shtml) richiamando una relazione di agosto della Corte dei Conti, pubblicava dati ancora diversi in base ai quali risulterebbero censiti 394 organismi partecipati di proprietà delle Regioni e per questi le perdite ammonterebbero a 92 milioni di euro solo per le partecipate al 100% delle regioni a fronte di 780 mil versati a titolo di contributo in conto esercizio e corrispettivi (solo per avere dati di confronto numerici si ricorda che soltanto l’ultima manovra finanziaria ammontava a circa 10 milioni di euro).
Vista l’impossibilità di  avere dati omogenei e certi con riferimento a tutto il territorio nazionale (e questo è già indicativo di una ingiustificata distorsione del sistema), i dati parziali su emersi servono comunque a comprendere l’entità del fenomeno in termini economici, a cui si aggiungono ulteriori e inammissibili alterazioni del sistema pubblico con riferimento al regime di concorrenza, alle assunzioni del personale, alle nomine degli amministratori ecc...
4.     Considerazioni critiche conclusive.
Che il fenomeno societario si sia rivelato un autentico disastro per l’economia del paese non lo dice solo la scrivente, ma si rinviene in atti e documenti ufficiali che provengono anche dalle più alte cariche dello Stato.
Ad esempio il Documento della Camera dei Deputati n. 237 del 27.05.11 riporta: “Recentemente, il legislatore è poi intervenuto ulteriormente sul fenomeno della proliferazione delle società a partecipazione locale, con l’intento di rimediare alle distorsioni di cui tale fenomeno è foriero: distorsione della concorrenza ed aggiramento dei vincoli di finanza pubblica in capo agli enti territoriali” (http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/bi0409.htm), ed il doc. 337 del 4.4.12 ha aggiunto che “A tale fenomeno distorsivo il legislatore ha ritenuto di dover porre rimedio attraverso l’adozione di specifici divieti alla costituzione e al mantenimento di società”.
Nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2012 (http://www.corteconti.it/export/sites/portalecdc/_documenti/documenti_procura/friuli_venezia_giulia/relazione_perlx_inaugurazione_dellxanno_giudiziario_2012.pdf) il Procuratore Regionale della Corte dei Conti per il Friuli Venezia Giulia-Trieste ha dichiarato: “E’ quindi da chiedersi se il ricorso allo strumento delle società per azioni fornisca strumenti sufficienti e soprattutto adeguati ai bisogni propri del sistema pubblico, dove l’obiettivo principale non è il profitto, ma, al contrario, il conseguimento dell’efficienza e dell’economicità dell’attività.   Proprio in un periodo, in cui, come quello attuale, la situazione finanziaria ed economica sfavorevole rende drammaticamente indispensabili comportamenti gestori che assicurino ai cittadini i servizi necessari senza il pericolo di sprecare risorse, ormai limitate e, quindi, molto preziose, sembra proprio che il modello societario rappresenti per i contribuenti più un pericolo che un’opportunità” . Ed aggiunge, mettendo in risalto una delle più importanti anomalie del sistema delle società pubbliche che “Lo strumento societario, che è previsto nel diritto civile come naturalmente preordinato a finalità di lucro, e che come tale risulta non sempre perfettamente aderente alle esigenze del sistema pubblicistico, comporta, laddove finanziato con capitale pubblico, l’ulteriore anomalia della non coincidenza della figura del socio finanziatore (i contribuenti) con quella del socio titolare dei diritti di partecipazione sociale (la pubblica amministrazione partecipante). In buona sostanza mentre nel caso del privato investitore la decisione di assumere il “rischio” di una partecipazione è diretta, nel caso delle partecipazioni pubbliche il contribuente finanziatore paga i tributi per avere servizi, scontando poi le conseguenze di decisioni di partecipazione societaria assunte, talvolta avventatamente, dai singoli enti”. Ed ancora “Non possiamo esimerci dall’evidenziare che attraverso le società create dagli enti locali e dalla Regione possono verificarsi situazioni di dilapidazione del denaro pubblico, soprattutto quando i servizi, per i quali sono state create e giustificate, non vengono resi o vengono resi in maniera insufficiente e costosa.  Una recente sentenza (n. 402/2011) della Sezione Prima Centrale di Appello della Corte dei Conti ha condannato gli amministratori di un comune e di una società controllata per la costituzione e la gestione antieconomica di una partecipata. Contrariamente a quanto affermato nello statuto e negli atti costitutivi, la società non sarebbe stata utilizzata per rendere più efficienti ed economici i servizi dell’ente locale, ma per perseguire scopi occupazionali…L’utilizzo di strumenti, di per sé legittimi, quali le partecipate, al solo scopo di eludere i vincoli di finanza pubblica e le regole di contenimento della spesa, costituiscono un comportamento gravemente colposo se non addirittura doloso che è produttivo di danni erariali e coinvolge la responsabilità degli amministratori locali e regionali da verificare nel giudizio davanti alla Corte dei Conti Difatti alcune inchieste di questa Procura hanno riguardato situazioni di turbative di aste pubbliche, di utilizzo indebito di finanziamenti pubblici, se non addirittura di appropriazione di denaro pubblico. I fatti accertati potrebbero essere solo la punta emersa di un grosso iceberg…La mancanza di effettivi controlli sia nelle procedure di scelta dei soggetti privati, cui affidare le forniture di servizi o gli appalti pubblici sia nelle fasi successive di esecuzione dei contratti di servizi e di lavori costituiscono situazioni di pericolo, in cui possono insinuarsi scambi di favori o dazioni di denaro”.
Sconcertanti, poi sono anche i dati giudiziali che emergono dal discorso. Il Procuratore (e si evidenzia che i dati riguardano il solo territorio del Friuli) riferisce che “Le citazioni emesse nel 2011 contengono richieste di risarcimento danni per un importo complessivo di euro 10.372.902,05…Deve essere, comunque, osservato che, a seguito degli atti istruttori e degli inviti a dedurre formulati da questa Procura Regionale, sono state recuperate somme per un importo complessivo di euro 11.701,24.
La sintesi su riportata sulle società pubbliche induce ad un atteggiamento assolutamente critico nei confronti di questo fenomeno che ha determinato enormi perdite per la finanza pubblica  ma che soprattutto induce a forme di avversione e repulsione per un sistema che palesemente favorisce clientelismi, favoritismi, compravendita di voti politici e quant’altro.
Nonostante il legislatore si sia avveduto della gravità del fenomeno e abbia tentato di porre rimedio stabilendo anche limiti alla costituzione di nuove società e alla dismissione di alcune di esse si è ancora ben lontani dal raggiungimento di risultati soddisfacenti.
Invero anche le nuove disposizioni introducono importanti deroghe che confermano la volontà del legislatore di mantenere in vita il modello della società a partecipazione pubblica strumentale, quando invece negli ultimi tempi (v. Rapporto Assonime, ma anche il Rapporto CER)  alcune riflessioni avevano auspicato il superamento della forma societaria per il ritorno a modelli pubblicistici coerenti con la natura delle attività svolte[1] oppure avevano suggerito sistemi di risanamento rimasti inascoltati (rapporto dell’OCSE sulla governante delle State Owned Enterprises - SOE[2]).
 Così come il legislatore non ha previsto meccanismi preventivi per la valutazione della convenienza e dell’opportunità di costituire società, non ha previsto la ricognizione di quelle già costituite al fine di verificarne la convenienza; non sono state introdotte norme che predeterminino i requisiti di nomina degli amministratori; non sono stati introdotti i controlli preventivi di legittimità della Corte dei conti  sugli atti ed in particolare su quelli di avvio della contrattazione relativa agli appalti per tutti i soggetti tenuti all’osservanza delle regole dell’evidenza pubblica, inclusi quelli societari.
In conclusione, anche l’ultima riforma, per la necessità di ridurre la spesa pubblica  sulla spinta di propulsioni europeiste e pressioni comunitarie (ancora una volta), sembra aver perso un’altra occasione per rivedere un impianto in cui principi e norme pubblicistiche e privatistiche convivono in un connubio improbabile e per questo difficilmente gestibile, ma che per converso si presta a facili elusioni, distorsioni, giochi di potere e clientelismi che hanno quale unica conseguenza lo sperpero di ingenti risorse economiche pubbliche  e il disfacimento del sistema dei servizi pubblici in danno della collettività.

sabato 27 dicembre 2014

L'UEM, IL PETROLIO E LA "LOCOMOTIVA" USA: PRODURRE COSA E DA VENDERE A CHI?



1. Nell'analizzare la notizia della crescita del 5% del PIL USA (sull'anno precedente), quale registrata, per il terzo trimestre dell'anno, dal Dipartimento del commercio USA, vorrei provare a partire dalle conclusioni.
Queste le ritraggo da un intervista rilasciata a "Il Messaggero" da Nicholas Economides (nomen omen), docente alla Leonard School of Business della New Yorl University, "autorità mondiale" sulla "network economics", e consigliere della Commissione federale del Commercio USA nochè dei "governi della Grecia, Portogallo, Irlanda e Nuova Zelanda". Un curriculum che certo non lo fa essere estraneo al mainstream,
Questa la "domanda finale" posta dall'intervistatrice:
Professore, lei crede che gli Stati Uniti potranno reggere questo livello di crescita? Vari analisti pensano che il petrolio in discesa e la promessa di aumenti dei salari nell'anno nuovo saranno elementi importanti per assicurare la crescita continua; lei è d'accordo?
"Sia il crollo nel prezzo del petrolio sia l'aumento dei salari minimi avranno effetti contrastanti. Il costo del petrolio rende più economiche le attività industriali e manifatturiere e i trasporti, tutti elementi che favoriscono l'industria. L'aumento dei salari metterà più soldi a disposizione dei lavoratori e quindi favorirà i consumi. Ma c'è l'altra faccia della medaglia; le aziende che vivono di petrolio subiranno contrazioni, e le aziende che devono aumentare i salari dei dipendenti potrebbero rifarsi sui prezzi, causando quindi una ricaduta negativa proprio sui consumatori."; 
Aggiungiamo qualche dato su questa "spettacolare" crescita:
Innanzitutto in termini "reali" (al netto dell'inflazione) e sul medio periodo appare tutt'altro che spettacolare (lo è solo se la si paragona all'UEM e in particolare all'Italia, unico paese debitore ad applicare il fiscal compact; basti dire che il reddito nazionale è tornato poco sopra il livello pre-crisi, ma con alterne fortune. Certo in Italia pare un miraggio praticamente irraggiungibile...):


 Ma poi, a scomporla nei vari fattori della domanda, ci conferma una vocazione consumistica (che vedremo patologicamente legata all'indebitamento privato ed alla finanziarizzazione), e tutto sommato scarsamente produttivistico-industriale. Almeno se riferita alla mobilitazione dei capitali interni, come si vede dagli investimenti dei "residenti":


 


2. Insomma, Houston abbiamo un (primo) problema: la traslazione sui prezzi degli aumenti salariali porterebbe, nella visione dominante delle politiche economiche USA, alla temutissima inflazione. 
E quest'ultima, sempre in assunto, rischierebbe di affossare i consumi: evidentemente, programmandosi aumenti salariali modesti e credendosi alle aspettative inflazioniste più che agli aumenti di produttività, nonchè alla incapacità autonoma della domanda interna di avviare processi occupazionali virtuosi
Come conferma il dato sugli investimenti dei "residenti" che tutto sembrano meno che il prodotto di un'economia che "tira".
 Certamente una mentalità dura a morire che si può condensare nell'ostinato mantenimento di un mercato del lavoro che precarizzato com'è, è indice di una governance attentissima, più che a prevenire l'inflazione - che è sempre rimasta negli USA a livelli non preoccupanti-, a contenere qualsiasi  cambiamento di un assetto sociale che privilegia il profitto finanziario (di cui la deflazione salariale è compagna come la fame alla miseria). 
Qualche interessante dato è rinvenibile nell'articolo (in pdf) dell'Economic Policy Institute del 18 dicembre 2014. Fresco di stampa, ci dice che (consiglio di scorrere le "charts" veramente impressionanti):
- The U.S. middle class has faced a huge ‘inequality tax’ in recent decades;
- Since 1979, productivity has risen eight times faster than pay;
- When it comes to the pace of annual pay increases, the top 1% leaves everybody else in the dust;
- The minimum wage would be over $18 - invece degli attuali $ 7,25!- had it risen along with productivity.

E questo per chi pensasse che, almeno fino al "sequester" della legge di bilancio, effettuato dai Rep-tea-party a partire dal 2010, Obama avesse utilizzato il deficit per politiche espansive, cioè di sostegno al livello del reddito dei lavoratori (spendendo in modo che ciò "arrivasse" alle fasce più basse della popolazione, invece che in banking welfare. Ma sapete - e ci torneremo- una volta che si abbiano le "riforme" di un mercato del lavoro perfettamente flessibilizzato, fare "politiche fiscali espansive" non è più una cosa così corrispondente al deficit pubblico...)


3. E tutto questo con risvolti non da poco.
Se l'inflazione può attenuare le posizioni debitorie, e quindi degli stessi consumatori per quanto riguarda i debiti contratti in precedenza (cioè proprio ciò che i creditori in generale "aborrono"), dall'altro lato, però, un aumento dei prezzi superiore agli aumenti salariali, o comunque tale da assorbirne il potere di acquisto per intero, porta, nell'ottica del mainstream, ad aspettative negative sulla futura domanda interna: cioè sugli stessi consumi e connessi investimenti. 
E quindi sul mantenimento del livello occupazionale: cioè la disoccupazione è attribuita alla rigidità salariale, innescatasi una volta che i salari seguano la produttività...invece di perdere, dovutamente, il "contatto" rispetto ad essa; come da manuale mainstream.  
Ma (nella realtà) il livello occupazionale - e salariale- è la condizione, a sua volta, per mantenere una sufficiente base di consumatori...solvibili
Una specie di serpente che si morde la coda e un riddle irrisolvibile per i "consiglieri" che governano l'economia USA, senza "poter-voler" mettere in contestazione la sua premessa invariabile: l'economia si regge sulle aspettative di inflazione (cioè di un certo livello dei profitti-interessi "reali") dei creditori finanziari e sulla aspettativa di retribuzioni crescenti, e sicuramente rigide verso il basso, degli executives che governano il processo economico e istituzionale.

4. Ma anche se negli USA sfruttassero, ancora, il paradigma di crescita dei consumi senza crescita dei salari reali, cioè senza accompagnare la crescita della produttività redistribuendone il beneficio, il (secondo) problema sul tappeto non sarebbe trascurabile. 
E si chiamerebbe "instabilità finanziaria" da eccesso di debito con debitori sempre meno solvibili (e onere reale del debito accresciuto: l'inflazione USA ha mostrato recenti ricadute verso il basso!). Cioè una riproposizione della debt-deflation.

Certo il grafico ci mostra un differenziale ancora notevole con l'UEM
E al tempo stesso, ciò ci segnala un UEM in deflazione sostanziale che può "solo", (essendo la crescita della domanda interna un autentico miraggio), puntare a espandere le esportazioni verso gli USA: e infatti Confindustria formula previsioni di sperata crescita italiana proprio su queste basi.

5. Al tempo stesso, però, Jack Lew aveva appena ribadito, e con maggior forza che in passato, che «Il mondo - ha accusato Lew - conta sull’economia americana per trainare la ripresa globale. Ma l’economia internazionale non può prosperare solo contando sul fatto che gli Stati Uniti sono gli importatori di prima e ultima istanza, né può sperare che la nostra crescita basti a compensare la debole crescita nelle altre grandi economie mondiali».

Aggiungiamo a questo quadro di premesse che gli USA contano su due fattori per correggere il proprio saldo delle partite correnti con l'estero
a) l'indipendenza energetica raggiunta attraverso le tecnologie del fracking
b) l'estensione all'UE di un'area di libero scambio che punti all'abbattimento, specialmente, delle barriere non tariffarie ed ai naturali effetti di specializzazione, in rafforzamento delle proprie capacità finanziarie, di una tale area liberoscambista.

Ma l'aspetto a) appare attualmente minato da una flessione dei prezzi petroliferi che rende difficile la prosecuzione delle attuali produzioni ai costi attuali, rendendole antieconomiche sotto il breakeven point di 65 dollari, "in media", sebbene in parte sostenibili, fino alla soglia dei 45(50?) dollari, se concentrate nei grandi bacini attualmente sfruttati, ma abbandonando le produzioni legate a "investimenti marginali".
Questi ultimi, però, sono già stati in buona parte finanziati ed anche ri-collocati sui "mercati" attraverso strumenti derivati-ABS: e che fine faranno questi titoli sulla roulette finanziaria una volta che alcune industrie non saranno -via via in misura crescente - in grado di restituire, se il prezzo del petrolio non risale stabilmente sopra i 65 dollari?


6. Ora, rimanendo sull'ipotesi (preferita dal mainstream in command) dello scenario USA non inflazionistico e di moderati(ssimi) aumenti salariali - cioè aumenti reali nulli o negativi-, facilitato dallo scendere della bolletta energetica, saremmo di fronte a un duplice problemino: la Fed dovrebbe "logicamente" alzare i tassi, per frenare i consumi e la conseguente difficoltà industriale che ne deriverebbe secondo Economides (il consigliere è lui, mica noi), ma questo rischierebbe di far saltare il banco dei derivati sui crediti-debiti che sostengono la c.d. "ripresa" USA.
Di questo abbiamo già parlato e la sopra citata analisi di Confindustria dà per scontato l'aumento dei tassi.

7. Ma allora, se questo è lo "scenario" della attese - che peraltro piacciono agli esportatori UEM, dimenticando che neppure negli USA i consumi a debito sono "pasti gratis"-, rammentiamone i precisi contorni che ci aveva delineato Francesco Lenzi:

"Credo che l’elemento fondamentale da considerare sia lo stato di salute dell’economia Statunitense
Nonostante i dati in crescita costante per il Pil e per il numero di occupati, gli Usa sono ancora adesso la principale economia per differenza tra prodotto potenziale e prodotto realizzato. L’indice di disoccupazione è sceso soprattutto grazie al forte ricorso ai lavori a termine ed ai tanti scoraggiati che non stanno cercando più un qualsiasi impiego.  I redditi reali sono ormai stagnanti da alcuni trimestri e ancora inferiori al picco del 2008 Inoltre nell’ultimo trimestre anche gli investimenti privati hanno mostrato il segno negativo, sommandosi alla riduzione del prodotto generata dal deficit commerciale e dal cosiddetto “sequester”.  L’unica voce che ancora tiene sono i consumi privati, che continuano a beneficiare dell’effetto ricchezza provocato dalla ripresa dei corsi azionari e degli immobili A tutto questo aggiungiamo una situazione sul mercato dei prestiti agli studenti e prestiti per l’acquisto di automobili a livelli, sia per (scarsa) valutazione del rischio, sia per mancati pagamenti, molto simili a quella pre-2007 Stessa cosa si può dire per quanto riguarda il mercato immobiliare  ed il mercato finanziario.    Di nuovo una bomba ad orologeria pronta ad esplodere".
8. Ma non è solo questa situazione debitoria iperbolica, a cui vanno ORA aggiunti i finanziamenti agli investimenti marginali in shale-oil dell'industria USA, a rendere pericoloso l'aumento dei tassi. Rammentiamo quanto aveva aggiunto Flavio in questo post sui "repo":
"Nel frattempo negli USA che succede? “Negli Stati Uniti – scrive la Bce – un rischio alla stabilità finanziaria è legato alla rapida espansione dei Mortgage real estate investment trusts (Mreits), che sono vulnerabili alla crescita dei tassi d’interesse a causa della loro dipendenza verso i prestiti a breve termine per finanziare i loro acquisti di Mortgage backed security (Mbs). Una brusca svendita di Mbs, dovuta a un rialzo dei tassi, può esporre le banche a un calo del valore degli Mbs detenuti

Praticamente, la stessa storia del 2007, ma che porterà sicuramente al grido di “tagliamo la spesa pubblica, competitività, liberalizzazioni” ad altri obiettivi e profitti, visto che la “la privatizzazione totale dei servizi pubblici e dello stato sociale, dalla raccolta dei rifiuti all'energia, dalla sanità all'istruzione, alle pensioni, ai trasporti, ai beni demaniali, ecc. … promette ampie e fruttuose possibilità di investimento e lucrosi profitti, non essendo soggetta ad oscillazioni cicliche o congiunturali (secondo accreditati conteggi, il solo “stato sociale” avrebbe un bilancio complessivo, in  Italia, di 3800 miliardi annui).essendo infatti poco o nulla incline alla concorrenza, al massimo all’oligopolio. 


Con l’aggravante che il rischio tassi d’interesse, ossia di un loro aumento, è qualcosa di più di una semplice probabilità, in tempi di exit strategy e di rallentamento annunciato (tapering), da parte della Fed, del programma di acquisto mensile di titoli cartolarizzati. Che poi sono proprio quegli stessi Mbs sui quali si concentra l’attenzione degli Mreits.

Un corto circuito perfetto: la Fed, quindi, sostiene un mercato (quello degli Mbs) che tiene in vita, grazie ai tassi bassi sempre voluti dalla Fed stessa, queste società d’investimento che emettono debito (sotto forma di obbligazioni proprie a breve termine garantite dalle banche, spesso collegate a tali società, che le vendono) per comprare debito altrui sotto forma di mutui a lungo termine più o meno cartolarizzati (Mbs).

Ancora convinti che la FED non rialza i tassi perché disoccupazione USA non è ancora calata come dovrebbe
9. Anche perchè questa è la realtà, - includendo nei dati della disoccupazione, i rinunciatari e le posizioni ponderate di chi periodicamente alterna lavoro a termine e sussidio di disoccupazione-, nel mercato del lavoro USA:
 3
 
 http://brewtowngumshoe.blogspot.it/2014/05/weekend-reading.html
10. Riassumendo: 
1) o si rialzano i salari, possibilmente poco (certamente meno del gap accumulato rispetto all'aumento di produttività), e allora i "consiglieri economici" spingeranno per un aumento dei tassi
E si avrà il rischio, sempre più alto, di qualche effetto a catena di insolvenze nei debiti della shale-industry, oppure nel settore dei crediti allo studio nel college o in quello dei mutui immobiliari (c'è solo da scegliere).
Ma allora il banco salta non solo nei mercati finanziari USA, ma anche nelle aspettative "disperate" cui affidano la crescita gli analisti di Confindustria. Coinvolgendo anche il sottostante, "intrecciato" nei due lati dell'Oceano, del mercato dei "repo" e innescando in UEM un effetto cumulativo di insolvenza finanziaria e venir meno della "attesa" domanda estera (USA ma non solo, a quel punto).

2) Oppure, in alternativa, si mantiene alto il livello dei lavoratori precarizzati a paghe minime, sempre più lontane dalla connessione con l'aumento della produttività e sempre più inevitabilmente portate a produrre consumatori insolventi, e...il banco salta comunque. Negli USA. Magari più tardi.
Perchè in questo secondo caso i tassi verrebbero lasciati ai livelli attuali o solo simbolicamente rialzati
Ma, se finisse il rialzo del dollaro sull'euro (e le altre valute), cioè se il dollaro ricominciasse a cedere sull'euro, Jack Lew riuscirebbe veramente a evitare di essere ancora "importatore di ultima istanza" mantenendo una certa "crescita" (coi salari praticamente invariati e i debiti al consumo che si accumulano)? 
E soprattutto, l'UEM riuscirebbe ancora a incrementare/consolidare le sue esportazioni?

11. Francesco Lenzi mi suggerisce che potrebbero addirittura scegliere, "all'opposto, di rilanciare il nuovo QE4 e tirare la lattina ancora avanti". 
Ma questo equivarrebbe a una ulteriore svalutazione del dollaro: che ci crediate o no, questo è il modo in cui ragionano i mercati. 
E allora addio a sogni di Confindustria di utilizzare il trampolino di lancio USA per la ripresa europea e, specialmente, italiana. Anche perchè i segni di rallentamento arrivano anche dalla Cina...
E quindi, la seconda prospettiva indicata al paragrafo precedente- prolungamento QE4 e tassi USA sostanzialmente invariati- sarebbe forse meno traumatica della prima, perchè non si verificherebbe, almeno nel breve, il big-bang a epicentro USA
Ma, nondimeno, lascerebbe l'Europa dell'euro praticamente da sola a cercare di far quadrare il cerchio di una domanda interna che semplicemente continua ad andare a picco
Non si può "sopravvivere" di solo export. Talvolta si muore (notare che si tratta dell'UE a 28, non della sola UEM):

File:Consumption expenditure and gross capital formation at constant prices, EU-28, 2003–13 (2005 = 100) YB14.png
Questa è la crescita (comparata) al 2013 dell'area UEM, secondo la stessa fonte. Auguri!

File:Real GDP growth, 2003–13 (% change compared with the previous year) YB14.png
E questa la "pistola fumante" del... 
 
10. Non sembra che, dati i margini, ci siano molti spazi di crescita export-led in UEM, a fronte delle prospettive USA, comunque considerate nel prossimo futuro. 
Certo il calo dei prezzi petroliferi "aiuta" i costi delle imprese ed a contenere l'inflazione: ma per produrre cosa e da vendere a chi?
Anche perchè la Cina, nel frattempo accresce il surplus delle partite correnti -ma mentre cresce meno del previsto-, e non intende ora svalutare il renmimbi-yuan a costo di innescare la bolla su investimenti immobiliari e infrastrutturali in eccesso.