mercoledì 29 ottobre 2014

LE RIFORME 2- GLI INDICI (Parte II): UN'UNICA CLASSIFICA "PER DOMARLI TUTTI"

 oecd

693px-Unico Anello 



Avevamo lasciato la Parte I nel punto in cui era illustrata la "sussidiarietà" delle costituzioni dell'epoca liberista "classica" rispetto ai codici civili ed allo statuto legislativo dell'attività d'impresa.
Questo ci consente di capire come l'art.41 della Costituzione attuale, all'interno appunto del c.d. "costituzionalismo", null'altro è che il riflesso dell'evoluzione economica e sociale che vede l'allargamento dei soggetti considerati beneficiari dell'attività produttiva: non più soltanto i percettori dei profitti, visti come degli involontari benefattori in base al meccanismo della "mano invisibile", ma ogni possibile categoria sociale coinvolta. Che, appunto, non deve sopportare la "disutilità sociale" dell'iniziativa economica di cui è partecipe (o anche solo "vittima", sul piano ambientale o delle rendite oligopolistiche). 
La formulazione dell'art.41, ci rinvia alle c.d. "esternalità", costi di vasto impatto collettivo, riversati su chi è estraneo all'iniziativa economica e di cui l'imprenditore non si assume il rischio e su cui lo Stato democratico interviene in termini di correzione e di razionalizzazione delle dinamiche dannose dei prezzi(-rendite) e della (non autentica)concorrenza. Mirando con ciò al pieno impiego dei fattori della produzione e, quindi, alla piena occupazione, cioè tendenzialmente riducendo la disoccupazione a quella c.d. "frizionale" (art.1, 4 e 41 Cost. letti in modo coordinato).

Sarà solo nel corso del '900 che, in parallelo con l'affermarsi del costituzionalismo sul piano giuridico, questi impulsi correttivi del liberismo trovarono considerazione nella corrente di teoria economica c.c. istituzionalista, innestatasi, per naturale confluenza dopo la crisi del '29, sul modello keynesiano.
Gli "indici" negli aspetti considerati in questa Parte II, invertono tutto questo percorso: i costi da esternalità e da inefficienza del settore privato, la stessa comparazione con la costosità "inefficiente" delle immense burocrazie oligopolistiche, scompaiono dalla scena; e ciò a un livello tale che si rimuove persino il concetto di "market failure".

Per gli "indici" OCSE, o di qualche "think tank" privato, "alimentato" inevitabilmente dal settore finanziario, i mercati non possono fallire: ogni battuta d'arresto è invariabilmente attribuita allo Stato, che ritarda l'efficiente allocazione del capitale mediante la sua inutile "burocrazia" e che non attua presto e bene le "riforme". O ancor peggio, la colpa delle crisi economiche viene addossata agli stessi cittadini
Per essi si sviluppa una sottile critica colpevolizzatrice, posta su un piano pesantemente moralistico. 
I cittadini delle moderne democrazia costituzionali sono gravemente "indegni", in quanto non accettino di rinunziare alla tutela del lavoro accordatagli dalle Costituzioni, viste come orpelli utopistici se non filo-collettivisti; i cittadini sono inerti e dannosi esercenti del diritto di voto, "conservatori" irrazionalmente legati al welfare e al "posto fisso", che non sfruttano sufficientemente il voto stesso per favorire il ripristino della "durezza" del vivere e del trionfo dell'efficienza della governance privata
Quest'ultima, legittimatasi attraverso la pretesa neutralità scientifica delle proprie inappellabili conoscenze "tecniche" (omnicomprensive e onnivore), utilizza la proprietà pressocchè totalitaria dei media per riportare il voto in questa giusta direzione, affermando così la necessità assoluta del processo delle riforme: fino a che non siano, finalmente, realizzati gli "indici" di loro piena riuscita.

Per rimodellare, la società e ogni possibile dibattito politico su questo concetto di "riforme", di efficienza, di abolizione strisciante delle Costituzioni e di superiorità della tecnocrazia, i media si intridono, sovraesponendole, delle CLASSIFICHE, operate in base a questi indici (come abbiamo visto, indicatori statici, arbitrariamente fissati e rilevati, persino intenzionalmente "mutilati").
Fatta una "classifica" OCSE o FMI, o WEF, ogni giornalista di "denuncia ordolivorosa", ogni imprenditore divenuto opinionista mediatico-televisivo, ogni politico che si vuol dare arie da tecnico, la brandisce come un maglio che finisce di distruggere la cultura del costituzionalismo e configura il "NUOVO" come un BEN DISSIMULATO RITORNO AL CAPITALISMO SFRENATO anteriore alla crisi del '29.
Le classifiche, basate sugli indici, divengono un media-business, goebbelsiano e orwelliano, che ha la stessa funzione dell'anello del potere di Sauron.  

Buona prosecuzione di lettura.


Ma è significativo che col progredire dell’industrializzazione e la promulgazione delle prime leggi di protezione del lavoro (la legge dell’86 sul lavoro dei fanciulli, quelle del ’93 sulla polizia delle miniere cave torbiere e sull’istituzione dei collegi di probiviri) l’impraticabilità sociale degli schemi giuridici d’inizio secolo diventasse una consapevolezza diffusa e trasversale, interessando anche giuristi di area privatista: nel 1893 Luigi Tartùfari respingeva la riduzione del lavoro a merce in quanto “in nessun altro caso la prestazione oggetto del contratto è presente così strettamente connessa alla persona che ne è il subbietto, e in nessun altro caso la persona medesima entra in modo così diretto nello adempimento degli obblighi contrattuali” (Del contratto di lavoro nell’odierno movimento sociale e legislativo, Macerata, tip. Bianchini, 1893 pag. 9, cit. in Paolo Grossi, Scienza giuridica italiana, Milano, Giuffrè, 2000, pag. 59).

Se l’ambizione è quella di mettere un paio di secoli di storia fra parentesi, si chiariscono finalmente gli strabismi cognitivi degli indici: all’occhio d’inizio Ottocento la società di oggi appare piena di “privilegi” e rigidità da rimuovere (perfino il diritto privato non è più lui! Che tempi!), che tuttavia non si riesce, e non si vuole, collocare in un più ampio contesto, giuridico e sociale, perché si rischierebbe di svelare la debolezza intellettuale, e la fortissima politicità, dei modelli, economici e quindi giuridico-sociali, implicitamente utilizzati per la mappatura e la valutazione. 

Gli indici quindi non propongono esplicitamente il modello della golden straitjacket ma assolvono la funzione di fornirne una legittimazione “tecnica”, e quindi “neutrale”, circoscrivendo i nessi causali, e quindi i fattori che li determinano, entro il suo orizzonte: ogni successo o insuccesso economico andrà così idealmente spiegato in ragione di una maggiore o minore aderenza alle sue prescrizioni. 
Tale vera e propria delimitazione del pensabile funzionerà in questo modo: si registra un successo? 

 
Saran state fatte le riforme (es.: gli USA).
Sono state fatte le riforme? 
Non potrà che seguire il successo (es.: Grecia, Spagna e Irlanda).
Il successo non è ancora arrivato? 
Non son state fatte abbastanza riforme. 
Che questo tautologismo dimostrativo praticato dai giornalisti provenga direttamente dalle fonti tecniche lo dimostrano proprio i paper del FMI analizzati dalla Aleksyanska: com’è scritto sull’articolo tradotto da Voci: “i dati di Fraser contengono interruzioni importanti nelle serie temporali a causa di cambiamenti metodologici nella raccolta dei dati e a causa di aggregazioni di dati improprie. Bernal-Verdugo, Furceri e Guillaume (2012a) utilizzano il metodo di interpretare le interruzioni nelle serie dei dati come processi di riforma, anziché lavorare con una lista di riforme effettivamente avvenute.” 
Ovvero, ubi miglioramento degli indici, ibi riforma. 
Ho detto idealmente perché l’estrema difficoltà di costruirne una dimostrazione credibile di una chiara relazione fra riforme e miglioramenti economici spinge a spezzettare i nessi causali frammentando la realtà – che recalcitra un po’ a farsi mettere in braghe tanto strette e sguscia fra le dita dei nostri ideologi neoriformisti – per ricondurla agli indici: la competizione internazionale per la crescita può così diventare la competizione per gli indici, con la promessa che un buon risultato nella seconda assicuri il successo nella prima. 
Come diceva il mai troppo compianto Padoa Schioppa: “E' vero che in Europa un po' tutti i governi stanno affrontando il nodo del welfare. Ma lo fanno in modo parzialmente concorrenziale, ed è bene che sia così, anche se c'è, e ci deve essere, la rete di sicurezza della carta sociale europea. Il paese che riesce a riformare meglio il proprio mercato del lavoro o il proprio sistema pensionistico acquisisce un meritato vantaggio”. 
E’ la logica per cui la Grecia è il più grande successo dell’euro. 
Questo “riformismo competitivo” può raggiungere le vette del grottesco: la Banca Mondiale ha reso disponibile un simulatore delle riforme (vedere per credere) che permette di valutare i progressi che ciascun paese potrebbe compiere nella graduatoria mondiale del “fare impresa” se realizzasse riforme in grado di avvicinarlo ad altri paesi più “virtuosi” in uno o più settori. 
Il senso di “mostrare un’unica classifica” lo spiegano gli autori stessi (pag. 1): “è facilmente comprensibile da politici, giornalisti ed esperti dello sviluppo e quindi crea una pressione per le riforme. Come negli sport, quanto inizi a tenere il punteggio tutti vogliono vincere”. 
Certo, alla fine non proprio tutti vincono.

Problemi ancora più complessi si riscontrano nella seconda fase, quella della codifica: si tratta qui di assegnare dei numeri alle variabili regolative esaminate che ne quantifichino la “restrittività”.   
Ad esempio, per l’Italia l’indice Ocse di protezione dell’occupazione regolare per il 2013 assegna lo stesso livello restrittivo alle clausole relative al reintegro dopo il licenziamento ingiustificato e alla durata del periodo oltre il quale il licenziamento non può essere impugnato; ma concretamente quale reale oggettività può essere invocata a conforto dell’assegnazione alle due regolazioni della stessa posizione nella scala da 0 a 6 impiegata dall’Ocse? 
Come accennato sopra, la stessa nozione di “restrittività” può essere valutata solo all’interno dell’intero contesto politico, sociale e istituzionale, non certo di un segmento di quello giuridico.  

Certo, come ho detto, i più recenti indici Ocse relativi al mercato del lavoro sono stati arricchiti con dati tratti dalla contrattazione collettiva (bontà loro!); è interessante osservare che il quadro ne è uscito immediatamente alterato, in particolare in relazione di uno dei più ossessivi “facciamo come” di questi anni, cioè la flexsecurity danese, (ndr; da leggere fino alla conclusione: "All of this actually means that the whole policy of flexicurity, as it has been promoted all these years by the European Commission, has been based on a statistical illusion"). Con buona pace di Ichino, Renzi e quant’altri.
A dispetto delle rassicurazioni di Venn, non mi pare proprio che tale aggiunta induca a un’accresciuta fiducia nella bontà negli indici: smaschera piuttosto l’estemporaneità dei risultati. Come dice Zenezini (op. cit, pag. 15) “una normativa molto rigida sui licenziamenti ha un significato diverso in un paese con sindacati forti capaci di contrattare i salari rispetto ad un paese in cui la politica salariale è in mano alle imprese, dato che in questo caso le imprese potrebbero indurre i lavoratori a dimettersi pagandoli poco”. Ma perché curarsi di queste finezze se tanto la strada è una sola, come ci insegna Friedman?

Arriviamo poi all’ultimo passaggio: quello della ponderazione.  
I singoli indicatori, cioè per esempio i summenzionati numeri da 0 a 6 dell’Ocse, vengono pesati per ottenere gli indici aggregati. 
Qui citerò estesamente Zenezini, perché merita: “Per quanto riguarda la flessibilità del lavoro, gli indici di protezione dai licenziamenti dell’Ocse sono medie di tre componenti, relative alla regolamentazione dell’occupazione regolare, regolamentazione dell’occupazione temporanea, regolamentazione dei licenziamenti collettivi. A sua volta, l’indice di protezione del lavoro regolare è la media ponderata di 13 sub-indici (preavviso di licenziamento, durata del periodo di prova, indennità di licenziamento, etc) che, insieme, hanno un peso di 5/12 nel calcolo dell’indice aggregato, l’indice di protezione del lavoro temporaneo, che pesa anch’esso per 5/12 nell’indice aggregato è la media ponderato di 8 sub-indici (relativo, tra l’altro, alle causali del lavoro temporaneo e alla possibilità di reiterazione dei contratti), mentre l’indice di protezione dei licenziamenti collettivi, che pesa per 2/12 nell’indice aggregato, è la media semplice di 4 sub-indici. 
Si tratta, come si vede bene, di una procedura meccanica in cui i pesi impiegati non riflettono né l’importanza delle specifiche regolamentazioni nei diversi sistemi nazionali di regolamentazione né la dimensione dei settori o, nel caso del lavoro, delle tipologie contrattuali alle quali esse fanno riferimento, ma, di fatto, sono selezionati in modo arbitrario allo scopo di produrre uno schema uniforme per tutti i paesi. Venn [nel paper citato sopra, pagg. 11-12] ha sostenuto che i pesi riflettono l’importanza delle specifiche regolamentazioni per le decisioni imprenditoriali, sia che gli indici sono sostanzialmente insensibili alla scelta dei pesi, ma le due cose non possono essere vere contemporaneamente, e sono quasi certamente false entrambe. In questo stesso studio, ad esempio, si osserva che le norme sulla protezione dei licenziamenti hanno effetti differenziati su diversi aspetti della performance del mercato del lavoro (in alcuni paesi possono influenzare gli orari di lavoro, in altri il tasso di assunzione).
E’ noto poi che tali indici producono non di rado rappresentazioni delle situazioni di fatto implausibili o in contrasto con informazioni note
La Spagna, ad esempio, presenta uno dei più alti indici di protezione del lavoro temporaneo, ma è anche uno dei paesi europei in cui tale tipologia contrattuale è più diffusa; l’Ocse assegna alla Danimarca un eccellente indice per il grado di funzionalità del mercato dei beni, ma il paese è tra i più cari d’Europa e questo significa “debole concorrenza e barriere all’entrata […] nonostante l’alta posizione nella graduatoria degli indici complessivi di concorrenzialità” (Oecd Economic Surveys, Denmark, 2012, pag. 16); uno studio aveva calcolato alcuni anni fa un’alta incidenza delle quasi rendite degli Stati Uniti il che “va contro la nostra intuizione circa il grado di concorrenzialità [di quel paese]” e aveva constata un aumento dei profitti (in un gruppo di dieci paesi), “in contrasto con la maggior parte dei preconcetti circa i cambiamenti nel grado di regolamentazione associati alle riforme dei mercati dei prodotti (Griffith et al., pag. 21). In altri termini, gli indici di regolamentazione, invece di gettare luce sulla condizione effettiva dei mercati, diventano fattoidi o curiosità che richiedono una spiegazione.

Proviamo a tirare le somme? Gli assi attorno a cui ruota la retorica neoriformista sono essenzialmente, e ripetitivamente, quattro: 
1) la crescita come obiettivo politicamente neutro, tanto più presentabile come tale quanto più scarsa; 
2) il mercato come unica ricetta idonea a conseguire tale obiettivo in tempi di globalizzazione; 
3) le resistenze suscitate dalla “scomodità” delle ricette neoriformiste (“conservatorismi, corporativismi e ingiuste pretese di conservazione di posizioni di rendita, di ingiuste posizioni acquisite”, come ha detto di recente Napolitano)
4) il “coraggio” necessario ai politici per portare al traguardo le indispensabili (tanto più quanto più la crisi morde) ricette salvifiche. 

Alla prossima puntata un esame un po’ più approfondito dell’intelaiatura che questi quattro sostegni reggono.

9 commenti:

  1. Mi scuso per le ripetizione, ma più che al periodo ante 1929 mi pare che si voglia tornare a quello ante 1829.

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  2. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/29/giovani-dieci-paesi-dove-vale-la-pena-emigrare/1102239/

    Ah ah ah ah.
    Il fenomeno del "classifichismo" (ad minchiam) e' una delle patologie psicopatiche piu' comiche dei nostri tempi
    Sono talmente fuori di melone che possono arrivare -gli "espertoni"- a redigere delle classifiche in cui si "dimostra" che il miglior paese in cui emigrare e' il Qatar.
    No, non e' possibile, si dira':
    E invece la follia "meritocratica" del "classifichismo" e' ormai (comicamente) inarrestabile.


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    1. Le "classifiche" sono legate alla "competizione", unica e sola forza del mondo. Vedi nel post di Arturo la citazione di Padoa Schioppa (Roby lo chiama "Padoa sciupà", riconoscendogli un merito) che teorizza la competizione per le riforme.
      Se avranno tempo, ma spero di no, gli spin doctor introdurranno la "collaborazione competitiva".

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    2. La "collaborazione competitiva" (o concorrenza tra Stati o -come si direbbe oggi- tra "sistemi paese") e' bella che scritta nei trattati europoidi. Come, chi segue questo blog ben sa'. E PRATICATA.

      Ma forse tu alludi all' ultimo "step" di tale "competizione collaborativa": La guerra. Be', grazie al noto "pilota automatico" siamo "ben" indirizzati.

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    3. a proposito della concorrenza fra Stati....ho letto che in Serbia il premier chiede sacrifici tanto per cambiare.

      ed è previsto un taglio intorno al 10% per pensioni che si aggirano in media sull'equivalente di 300 euro al mese.

      un gigantesco Bangladesh. non si fermeranno prima di aver trasformato l'80% del continente in un enorme bidonville.

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    4. E infatti prima delle elezioni questo premier serbo era lodato sui giornaloni italiani come autore di una svolta seria ed europeista. Mica come in Ucraina...

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    5. quando e se tutto questo sarà finito...voglio l'eliminazione dal vocabolario italiano di parole come:

      "sacrificio....responsabilità....impopolare....stabilità...."

      ci vuole una rivoluzione culturale. e lessicale. ormai certe parole sono state corrose e diventano strumento di manipolazione. vanno ridisegnate come dopo la rivoluzione francese.

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  3. Mi sorgono alcune considerazioni immediate che tento di scrivere dal mio cellulare...:
    1)I numeri non sono mai.neutri" se rapportati alla sfera socio-politico-economica . Così come il diritto, non è avulso dal substrato a cui e' posto a difesa.
    2) La standardizzazione e una devianza immatura con ricadute drammatiche come applicata anche in medicina figurarsi negli altri ambiti di esplicitazione della persona umana. Una "deviazione standard" del pensiero alto (quello intellettivo e intrrpretativo )che lo fa scivolare verso.una deriva di stupidità ed inettitudine.
    3) inettitudine che si traduce in Pude ( Pensiero unico ecc..)o in manovalanza poco normo-dotata che esegue un diritto alla rovescia. Un diritto "correttivo" di inestetismi, depilatorio (di risorse) e snaturato dal suo fine.
    (Ecco il Nosferatus:
    Un economia staccata dal diritto, un diritto che non segue la sua grundnorm, i tutto condito da indici e mignoli.

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  4. A sottolineare l’impellenza delle famose quanto odiate “riforme”, il PUD€ alessandrino in occasione dell’inaugurazione del corso sulle autonomie locali e diritti dell’Università del Piemonte Orientale (di cui l’ex ministro Balduzzi è coordinatore) invita niente meno che il prof. Monti a tenere una lectio magistralis. Dall’articolo del responsabile de La Stampa di Alessandria Piero Bottino apparso su La Stampa del 29 ottobre 2014, emerge che il cuore (e te pareva!) del ragionamento svolto in tandem con l’ex ministro Balduzzi è: “Nei momenti di crisi, come l’attuale, afferma il professore, condizione indispensabile per riformare un sistema superando veti contrapposti (e questo tanto in Europa quanto in Italia), è la capacità di tenere assieme visioni opposte, solitamente di destra e di sinistra. Il prof. elogia il modello della “Grosse koalition” alla tedesca (non si era capito!) o dei governi di larghe intese all’italiana, come gli ultimi tre che si sono succeduti a partire dal suo.
    Prosegue l’articolo: “Monti ha ricordato che nel novembre 2011, quando entrò a Palazzo Chigi, all’Italia sull’orlo del baratro (e ridaje con ‘sto orlo del baratro!) si chiedevano essenzialmente due cose: la riforma pensionistica, cioè di un sistema non più sostenibile (e ridaje a ride’!); una più incisiva azione anti evasione fiscale, con alcuni che volevano anche una tassa patrimoniale. Come si capisce, la prima era invisa alla sinistra, la seconda alla destra. Ma il programma del mio governo, che le prevedeva entrambe (veramente un “peccato” che il nostro responsabile de La Stampa di Alessandria perda l’occasione di chiarire agli alessandrini il motivo per cui entrambe le “riforme” si resero così “necessarie” ...:-)), fu approvato in Parlamento dalla più ampia maggioranza mai registrata. “Morale: ogni partito guarda al “costo elettorale” delle azioni di governo, “ma se costa un po’ a me e un po’ a te la somma è zero”.
    Concludendo, in questa somma uguale a zero io vedo soltanto che a rappresentare lo zero per il PUD€ siamo noi, che dire, a un corso universitario sulle autonomie locali a quanto pare si insegna ai futuri e agli attuali amministratori locali a come intortare al meglio gli amministrati, cioè lo zero, cioè NOI, con il principio della Grosse Koalition alla tedesca, o meglio larghe intese, ossia la totale distruzione dei valori democratici di destra e sinistra sostituiti da "controvalori" da dittatura PUD€ €urop€ista
    ormai a noi qui fin troppo noti. Chiedo scusa, dell'articolo de La Stampa ho fatto una scansione che però non riesco a postare qui, ma che ho inviato via mail a Luciano


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