lunedì 30 dicembre 2013

EURO, DEAD-TOOL WALKING...TOO FAR- 2

Il post di ieri ha trovato sviluppo in un commento di Arturo che, in sè, mi ha portato a fornire una risposta che ho tentato di fornire di accuratezza per la sua fondamentale pregnanza.
Poichè il sistema dei commenti non mi ha consentito di inserire una risposta di un'adeguata lunghezza, ho preferito farne questo post. Che si pone in perfetta continuità con quello di ieri e ne condivide lo spunto di partenza in un dibattito "di fine anno" che cerca veramente una sintesi riassuntiva del blocco di tematiche affrontate, appunto, lungo l'intero 2013.
La tua chiosa circa le violazioni comunitaria e tedesca mi pare rappresenti l'ennesimo monito a diffidare di qualsiasi soluzione che non contempli meccanismi di autodifesa a livello nazionale, come il cambio flessibile.
Onore al merito, vorrei ricordare che Stiglitz prese posizione contro l'indipendenza della banca centrale già nel 2001 (pdf di 24 pagine. Pag. 23: "The necessity of an indipendet central bank that is not democratically accountable has also became part of the mantra in many parts of the world. There is no issue of more concern to the people in most of the world than their jobs, and monetary policy has a very large effect on that. Why is that, on the one hand, we tell countries democracy is very important, but on the other hand, when it comes to the most issues that are most important to them, jobs and employment, we say: this is too important to be entrusted to democratic processes; you should have an indipendet central bank?").

Questa la mia risposta:
Certamente. Il conceptual frame di tale "dottrina" (delle BC "indipendenti") affonda la sue radici in un'affermazione ideologica che è agli antipodi del mantenimento della stessa democrazia sociale: la domanda cui qui - e nel libro- abbiamo cercato di dare risposta va un pò oltre la stessa "premessa" interrogativa di Stiglitz ed è, quindi, "come è potuto succedere"?
E' chiaro che, in assenza dell'affermazione della "dottrina", l'euro non avrebbe avuto questa realtà e questi sviluppi. E come avrebbe potuto, se si pensa alle sue implicazioni operative ultime?
Probabilmente, di fronte alla sua contestazione diffusa, (intendo della "indipendenza"), in base alla opposta dottrina della "democrazia necessitata" racchiusa nelle Costituzioni, l'euro non sarebbe neppure nato.

E, semmai la sua "occasione storica" avesse avuto una reale autenticità, l'evoluzione politica e cooperativa dell'Europa avrebbe tentato altre vie, prima la Confederazione che unificasse politica estera e della difesa, ponendo la basi sia per un bilancio comune operativamente sensato che per un'armonizzazione continuamente concordata - cioè coordinata in modo utile e dinamico- delle stesse politiche economiche.
Il punto di svolta, in cui si è persa questa "buona fede", è indubbiamente stato l'unificazione tedesca: alla premessa, in gran parte esatta (evitare l'automatica riproposizione di una egemonia continentale e i conflitti che ne sarebbero potuti seguire), si è fatta conseguire una soluzione causalmente inadeguata e priva persino di nesso logico.
La verità implicita è che i banchieri hanno imposto la "loro" soluzione, soltanto prendendo spunto da una "emergenza" politica, ridotta a giustificazione posticcia e sostanzialmente solo volta a ripristinare il capitalismo ante crisi del '29.
D'altra parte, il rapporto Werner (1971) era là, con tutte le sue contraddizioni, al tempo evidenti nella valutazione della scienza economica, ma si dovette attendere l'evento catalizzatore della Unificazione per proporre la soluzione sotto un'etichetta di "pace in Europa", e rigenerare il liberismo in chiave istituzionale, naturalmente sovranazionale e, perciò, ingannevolmente "dispersiva" della sovranità democratica. Cioè eliminatrice dell'ostacolo nel momento in cui esso (la democrazia costituzionale), avrebbe avuto la sua massima ragion d'essere (cioè la trasposizione in un modello di governo federale democratico che annullasse, solidaristicamente, ogni nazionalismo competitivo, accuratamente nascondibile sotto la denazionalizzazione della moneta e il suo corollario di mercantilismo competitivo, non correggibile ma, anzi, incentivato).

Questo è un punto ancora non ben esplorato nel dibattito generale (almeno fuori da questo blog).
Chi aveva "circondato" Mitterand e lo aveva persuaso dello strumento in tutte le sue proiezioni applicative, credeva evidentemente che l'oligarchia avrebbe governato con una solidarietà di classe transnazionale e che, controllando dalla nascita il processo mediante la cooptazione alla causa dei partiti di sinistra, attrezzati per vocazione all'internazionalismo, ciò sarebbe passato come "inavvertito" alle masse.
E' nato così l'ordoliberismo "reale", evolutivo delle prime grezze soluzioni thatcheriane; fenomeno allo stato puro di realizzazione che è solo europeo.

Il calcolo, finora, si è rivelato esatto, grazie al controllo mediatico-culturale-accademico: la cornice di sinistra ha consentito una inusitata "tenuta" a tutto il disegno.
Ed è questa la parte in cui ha senso l'ammissione di Fassina che il fallimento dell'euro sarebbe per loro una sconfitta.

Ma, a ben vedere, l'errore logico e propagandistico iniziale, cioè il pretesto ufficiale, sta proprio nella incoercibilità della Germania.
E' dura doverlo ammettere proprio mentre la Germania sta celebrando una vittoria (naturalmente egemonica) che si proietta (per la terza volta in un secolo) come disastro economico del continente (mediaticamente occultato solo in Europa): anzi la ripetitività (frattalica) di questo esito è forse l'unico elemento capace di fornire una spinta reattiva a un Continente ottusamente de-democratizzato.

Ma, ripeto, per dare una forza effettiva a questa spinta occorrono recuperi di realismo politico e di consapevolezza storica che in Italia sono veramente troppo lontani dall'emergere con la dovuta energia.

L'idea del sindacato come causa della ingovernabilità del processo produttivo efficiente, l'idea della corruzione come caratteristica intrinseca dell'intervento dello Stato (senza riflettere sull'alternativa concentrazione della ricchezza che determina assecondare tale idea), del clientelismo come modalità delle classi politiche elettive (la casta), sono addirittura ora massimamente esaltate, in una sorta di cupio dissolvi della democrazia che ha rinunziato ad ogni memoria delle (agevoli) soluzioni correttive che la Costituzione racchiudeva già in sè.

L'epilogo non potrà che essere tragico: se gli uomini vivono nell'oscurità, non produrranno altro che ulteriori ferite a se stessi come comunità, e la "correzione" non potrà altro che conseguire alla disperazione generale, intesa proprio come mancanza di altre speranze (che non siano reagire). Cioè uno stato traumatico finale. Altrimenti l'atteggiamento elettorale e, più in generale, socio-culturale, di paesi come Grecia e Portogallo non sarebbe spiegabile. E solo la densa "oscurità", vera e propria "Notte della Repubblica", in cui versa l'Italia, può altresì spiegare come il Paese più grande e che ne riceve i più grandi danni sia ostinatamente "istituzionalizzato" nel perseguire la propria autodistruzione.

domenica 29 dicembre 2013

EURO: DEAD-TOOL WALKING TO NOWHERE...MA NON SOLO (ringraziando Alberto Bagnai)

Commentiamo con grande piacere il discorso tenuto da Alberto Bagnai al convegno organizzato il 3 dicembre 2013 presso il Parlamento europeo.
Più che un commento si tratta dell'estratto di alcuni passaggi salienti che rafforzano il valore di quanto, con una omogeneità confortante, emerge dalla "voci italiane" sulla questione "euro". Una sorta di paradosso: l'Italia, in una sua espressione "di punta" (moderatamente in diffusione), produce di gran lunga la più solida e ben espressa analisi economica e culturale (in senso integrale) sul tema, mentre la sua "pubblica opinione" è fra le meno coscienti e tra le più condizionate, contro i propri stessi interessi democratici, da un battage politico-mediatico che sortisce i suoi effetti ben al di là del "controllo" esercitato negli altri paesi coinvolti.

La domanda è: perché le cose vanno così male quando ci comportiamo “bene”? Perché ci sono crisi alla fine dei periodi in cui siamo così competitivi? E la risposta è semplice: perché il capitalismo funziona se c'è abbastanza domanda aggregata. Non si produce per produrre: si produce per vendere. Se si reprimono i salari la domanda deve essere finanziata attraverso l'indebitamento

a) Ha fatto una politica assolutamente standard di dumping salariale, esattamente quella che, ironia della sorte, rimproveriamo alla Cina, dove però i salari crescono e la povertà cala. I paesi del Nord ci danno la colpa della crisi perché non avremmo fatto le riforme strutturali. Cosa sono le riforme strutturali? Sono pagare un po' meno i lavoratori. La Germania ha cominciato a farlo nel 2002. In nero vedete la quota salari in Germania dal 2002 al 2007, e il suo crollo dopo le cosiddette riforme Hartz. La Germania è il paese della zona euro dove le diseguaglianze sono cresciute di più in questo periodo: la povertà cresce, cresce il divario fra Est e Ovest, e quello tra lavoratori strutturati e lavoratori precari o con contratti atipici.
b) La flessibilità del tasso di cambio è un'arma difensiva contro il comportamento non cooperativo di altri stati membri di un’Unione Economica e Monetaria, ed è l’arma più efficace, perché di fronte a politiche di dumping sociale così forti come quelle praticate dalla Germania il tasso nominale tedesco si sarebbe apprezzato. Sarebbe andata così: “Cari tedeschi, va bene, siete bravi, avete fatto le riforme senza aspettarci, che bello! Così facendo oggi violereste l'art. 5 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, ma che gli fa, siamo amici, va bene così. Ora i vostri prodotti costano di meno, fantastico! Ci piacciono molto, benissimo! Siete un paese in surplus, che bello, vi facciamo anche un applauso...” Ma se dieci anni or sono per comprare i prodotti tedeschi avessimo dovuto comprare la valuta tedesca, questa, essendo molto richiesta, si sarebbe apprezzata, e così alla Germania non sarebbe servito a molto schiacciare i salari dei propri lavoratori!
Ndr: l'art.5, a rigore, lo avrebbe violato proprio l'Unione (in primis il Consiglio e poi la stessa Commissione), su cui incombeva, senza equivoci, l'obbligo di adottare le misure e gli "indirizzi di massima" per assicurare il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri.
Nondimeno, poichè "lo stretto coordinamento delle politiche economiche" è imposto come obbligo di "azione" ai singoli Stati membri dall'art.119 TFUE, proprio in connessione all'Unione monetaria, la Germania ha sicuramente violato tale disposizione. La quale tra l'altro, impone agli Stati membri di attenersi al principio di una "bilancia dei pagamenti sostenibile", cosa che, nell'ambito di uno "stretto" coordinamento cooperativo, implica pure l'evitare un surplus obiettivamente eccessivo (cioè risultante, per un periodo considerevole, tra i più alti del mondo
).


Per quanto riguarda il debito pubblico, la situazione attuale è molto simile a quella vissuta alla fine della Seconda guerra mondiale. Veniamo da trent'anni di guerra del capitale contro il lavoro. Cos’è successo a quel tempo, cosa è stato fatto dai governi dopo la Seconda guerra mondiale?


Due cose. La prima l'abbiamo già vista in precedenza: questo è il periodo in cui i salari reali sono cresciuti in linea con la produttività, quindi c'è stata una equa distribuzione del reddito. La seconda è che abbiamo regolamentato i mercati finanziari. Consideriamo questo punto. La liquidazione dell'enorme debito dopo la Seconda guerra mondiale è stato resa possibile da due cose: intanto, da quello che gli economisti chiamano "repressione finanziaria" (io la chiamerei piuttosto "regolamentazione finanziaria"). Carmen Reinhart e Belen Sbrancia hanno analizzato questo processo storico nel loro paper del 2011. La seconda cosa che ha facilitato il rientro del debito è stata l'equa distribuzione del reddito: il capitalismo funzionava come afferma (o pretende) di funzionare, cioè pagando i fattori della produzione in funzione della produttività. Ciò ha favorito la crescita e ha evitato l’accumularsi di ulteriori debiti per assorbire la produzione, rendendo possibile il rientro dai debiti pregressi, perché qualsiasi problema di debito è sempre un problema di crescita del reddito.


Cosa vuol dire repressione finanziaria?
Dovremmo reintrodurre per esempio qualche forma di regolamento, di norma Glass–Steagall, cioè separare le banche commerciali dalle banche d'investimento, perché il modello tedesco di banca universale non ha funzionato.
Dovremmo riconsiderare la posizione delle banche centrali. L'indipendenza della banca centrale è stata additata come una minaccia alla democrazia da economisti come Josef Stiglitz o Axel Lejonhufvud (che è meno noto al grande pubblico, ma è comunque un economista keynesiano molto importante).

Ora: come vedete le analisi sono altamente concordanti, nei loro passaggi essenziali, con quanto qui costantemente sostenuto (e non dovrebbe essere una novità).
E in questa convergenza di vedute - che deve poter appartenere a tutti coloro che affrontano questi problemi animati da sincero spirito democratico e rigorosa razionalità-, includiamo, come essenziale, pure il passaggio relativo alla priorità ed attuabilità politica, "almeno", delle misure riguardanti: a) la riseparazione delle tipologie principali di istituto bancario; b) la riconduzione della banca centrale al suo ruolo democratico, e costituzionale, di ente ausiliario del governo, a vocazione tecnica.
E' chiaro che, come evidenzia lo stesso "speech" di Alberto, l'euro può "saltare" senza che siano affrontate queste precondizioni di restaurazione della democrazia costituzionale. La Francia può essere protagonista di ciò o la stessa Germania.
Ma perchè l'euro-break, più o meno disordinato e traumatico, non si risolva nel famoso "rilancio" delle stesse mire all'instaurazione della Grande Società (il meraviglioso mondo di von Hayek), occorre costantemente unire questo "evento", per molti versi praticamente inevitabile, con quel minimo di misure indispensabili.
Le condizioni politiche perchè ciò avvenga, in Italia, sono tra le più difficili del continente. E abbiamo pure individuato la ragione di ciò nel fatto che non ci sono attualmente forze politiche sensibili alle questioni essenziali poste dalla reintroduzione di tali misure; e nè in prospettiva si manifesta una rappresentanza politica di tali istanze essenziali per il ripristino della democrazia costituzionale.
Perciò, ora più che mai, occorre vigilare, vigilare e vigilare...

sabato 28 dicembre 2013

FACCIAMO IL PUNTO SUL VOLGERE DELL'ANNO (spaghetti tea-party e "soluzione finale": un futuro invadente...fossi stato un pò più giovane, l'avrei distrutto con la fantasia?)

1. Prendiamo spunto da un recente commento di Frank, laddove osserva:
"...parlando dell'Italia, è importante individuare i tratti comuni al resto dei paesi sviluppati piuttosto che scivolare nei lughi comuni della nostra "unicità".
Le "sinistre" sono state catturate dal Grande Progetto in tutta l'Europa, mentre Chomsky ripete da decenni che il grande capitale controlla completamente, e ovunque, la grande informazione semplicemente perché la possiede.
Quello che stiamo fronteggiando è anche un enorme meccanismo comunicativo che riscrive la storia, crea miti e senso comune
".

Giuste precisazioni, però, in realtà, se c'è un "luogo" dove i caratteri generalissimi di questo Grande Progetto sono stati individuati e sviscerati è proprio questo blog. Non solo abbiamo delineato il quadro mediatico, politico-ideologico, e teorico-economico, in cui l'attuale momento europeo si inscrive, ma abbiamo anche evidenziato la €uro-distonia rispetto al resto del mondo delle Nazioni civili.

2. Di quest'ultimo aspetto, conviene rammentare questo passaggio del post citato da ultimo:
"Si sa ormai, anche se viene dichiarato solo implicitamente nei G20, che la nuova macroeconomica classica non ha funzionato e ha prodotto solo danni ("lo si sa" sempre con l'eccezione dell'Italia e - ma con diversi presupposti- della Germania: questo restringendoci ai paesi economicamente più importanti nell'ambito delle democrazie "mature").
Tuttavia, una domanda: fino a quando l'Italia potrà continuare a fare "l'oca giuliva" che combatte con il massimo entusiasmo nelle fila di un esercito sempre più sfaldato, che appare potente digrignando i denti coi suoi comandanti, ma che nei ranghi è già sfaldato nel morale? Solo in Italia, sono così "gasati" e compattamente credono nella vittoria, contando su una falange mediatica e di orientamento politico che non ha pari.
Basti pensare a come è stato narrato, qui da noi, lo shutdown USA, senza mai menzionare che alla sua base c'era proprio l'attacco, abbastanza disperato, dei tea-party contro l'intervento pubblico a favore della crescita, nella ottusa fede nello spiazzamento a favore del privato come sistema di uscita dalle crisi.
Negli USA tutto ciò è oggetto di un dibattito aperto e violento.
In Italia neppure si sa che, a rigore (in tutti i sensi), tutte le nostre forze politiche sarebbero state decisamente sulla stessa linea dei tea-party. Molto più della classe politica della stessa Germania, che realizzando finora dei surplus esteri, ed avendo un basso livello di disoccupazione (certo, mascherata dalla sottoccupazione e definitiva emarginazione sociale di larghi strati della popolazione), si trova ben più lontana di noi -per ora- dalla situazione degli USA".
3. Del primo aspetto (disegno generale ordoliberista generato dalla suggestione hayekiana), vorrei rienfatizzare questa affermazione strategica dello stesso Hayek, tratta da "Verso la schiavitù", ed emersa dal dibattito (a seguito del quale, mi auguro che Istwine abbia avuto modo di riflettere sulle schiaccianti evidenze emerse a confutazione della sua singolare posizione di "non liquet"):
«Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
A questo specifico passaggio avevo anche dedicato un apposito post; che ci riporta dritti alla situazione italiana.

Del detto post, ora più che mai (si era in atmosfera appena post-vacanziera e forse a molti ne sfuggì l'essenziale), riproduco i passaggi salienti:
"Cerchiamo di sviluppare questo concetto nelle sue ricadute pratiche, che poi, nel mondo socio-economico, sono un "programma politico".
Lo sintetizziamo come proposizione fenomenologicamente "essenziale": "I fini del controllo economico, cioè della "grande società" governata dal mercato, (possibilmente, secondo von Hayek, "globale"), implica il controllo dei mezzi necessari per tutti i fini che il "mercato" intende perseguire: cioè, di tutti i mezzi che consentono di determinare "ciò che gli uomini debbono credere e ciò per cui debbono affannarsi".
Siccome questi "fini" (abolizione della "demarchia", cioè della disfuzionalità dei processi democratici rispetto all'efficienza "naturale" del mercato, con riduzione dello Stato al "minimo"), implicano dei "valori" centrali, questi ultimi, (come proiezione "etica" e, al tempo stesso, socialmente dissimulata per non far percepire direttamente alle masse i fini stessi - in quanto concepiti e funzionali ai soli interessi dei proprietari-produttori, necessariamente al sommo dell'auspicata società gerarchizzata)-, sono riassumibili in concetti - dogmi a radice antropologico-naturalistica, secondo Hayek-, che si impongano in via normativa.
Cioè come regole di un super-diritto, che Hayek stesso identifica nella "Legge", in contrapposizione alla meno importante e costantemente monitorata, nella sua conformità ai valori (e ai fini), "legislazione", produzione normativa statale da assoggettare alla forza della Legge stessa.

Per ritrovare questi valori in un contesto supernormativo, capace di imporsi come "Legge", superiore per definizione alla "legislazione" espressiva della sovranità statale, da depotenziare e "disperdere" in un contesto tanto sovranazionale quanto debba esserlo la "Grande società" del mercato, è, ormai, agevole, ricorrere al più grande esempio storico e concreto, di programmatica dispersione della sovranità (democratica) mai sperimentato dall'Umanità: il trattato UE.

Da queste premesse "valoriali" - e come l'inflazione e la inefficiente scarsità di concorrenza siano oggi circondate da un giudizio negativo universalizzato, nela "pubblica opinione", e portato sul piano "etico", non credo debba essere dimostrato-, è possibile derivare ogni altra strategia e tattica posta in essere per affermare i "fini" sopraindicati.
E quindi comprendere anche come i "mezzi" siano controllati per diffondere contenuti informativi che inondino, in ogni dimensione della vita sociale, le convinzioni per cui gli esseri umani si debbano affannare: ogni convinzione "politica", ma, inevitabilmente, in questa programmata visione totalitaria del controllo (economico) sulle spinte all'agire umano, "culturale" è, in una misura sempre più intensa, piegata ai suddetti "valori".

Ciò rende assolutamente indispensabile un'opera totalitaria di controllo dei mezzi dell'informazione e il costante e sostenuto effetto di consolidamento di convinzioni che non possano deviare dai valori e fini perseguiti.

Questa operazione di controllo-condizionamento culturale, a cui non si sottrae perciò nessuna voce e nessuna "idea" che possa comparire sul palcoscenico mediatico (quand'anche si parlasse di letteratura, di gastronomia, di cinema o di archeologia, o, persino, di sport), presuppone una previa "destrutturazione" di tutto ciò che sia incompatibile con i valori di "forte competizione" e "stabilità dei prezzi".

Questa fase è attuata attraverso la riprogettazione "tecnica" della pubblica istruzione. Dove per "tecnica", si intende la sua ridefinizione alla stregua di complesse proposizioni di natura pubblico-contabile, predicando un "quadro finanziario" offerto come migliorativo delle condizioni sociali (genericamente intese e mai connesse a concrete situazioni esistenziali dei cittadini inseriti nelle società costituizionali democratiche): questo è il caso dell'enorme valore culturale, acriticamente annesso alla formulazione tecnica dei parametri di Maastricht. O alla dottrina delle "banche centrali indipendenti".
Non percepiti nel loro significato concreto da centinaia di milioni di cittadini interessati, questi strumenti si sono imposti come presupposti, rapidamente divenuti intangibili, della stessa operazione preliminare di destrutturazione della istruzione e formazione affidata allo Stato.

In questo post, Sofia, analizzato il fenomeno dei tagli alla pubblica istruzione legislativamente apportati nel quadro finanziario seguente a Maastricht, ci illustra le "teorie di Habermas, Dewey ed Heller i quali partivano proprio dall'evidenza che è l’ignoranza la causa della inefficacia dell’opinione pubblica nella sua essenziale funzione di controllo democratico sull'operato dei governi.
Dewey sosteneva che mediante l'educazione si può promuovere e sviluppare una intelligenza sociale (non l'intelligenza come possesso individuale, quindi), la capacità di confronto, di discussione, di proposta, capace di dirigere il cambiamento. Questa opinione pubblica illuminata va costruita e ci vuole, quindi, un impegno educativo continuativo.
Perché al problema dell’istruzione se ne aggiungono altri, che comunque non sono altro che una ulteriore e diretta conseguenza della mancanza di istruzione stessa.
Ad esempio manca lo spazio pubblico di discussione sui problemi generali (non solo nelle scuole, quindi), perché l'opinione pubblica é diventata (anch’essa) una finzione giuridica, una facciata del tutto formale di legittimazione di poteri di fatto oligarchici e sempre più autorefenziali, con i quali, quindi, è difficile pensare di partecipare e fornire competenza, conoscenza, metodo.
Fuori dal quadro istituzionale politico, l'opinione pubblica si trasforma nell'opinione di massa e ciò che si pensa in questi ambiti é irrilevante politicamente o non ha incidenza politica proprio perché è la realtà di opinioni che non sono frutto di riflessione e discussione
".

4. Non pretendo di aver esaurito tutte le implicazioni di un discorso condotto su linee così "di sistema", ma mi permetto di segnalarvi una conferma sperimentale della linea interpretativa storico-economica così adottata.
E per rintracciarla basta rivolgersi al "giornalone" ordoliberista per eccellenza, che, senza colpo ferire, ci regala, anche solo per parlare delle più stretta attualità finanziaria pubblica, le seguenti perle, riportate entusiasticamente come esempi della "nuova virtù salvifica" di cui ogni possibile forza politica è obbligata a farsi portatrice:
"(Riferendosi agli emendamenti parlamentari al ben noto decreto-legge approvato e poi ritirato su "invito" del Capo dello Stato)...In consiglio dei ministri, il premier avverte i colleghi: «Gli interventi in Parlamento devono servire a togliere, non a mettere ». E anche: «Ma questa lezione - ammette Letta - deve servirci da scossa. È uno stimolo in più per fare le riforme nel 2014». L'iter delle leggi non funziona, non si può continuare a "giocare" con un tira e molla delle due Camere. Il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello proporrà, nell'accordo di coalizione per il 2014, una norma «che impedisca il proliferare della spesa attraverso mille rivoli ed emendamenti».
E non basta:
"...Il segretario del Pd è pronto a far salire l'intensità del suo pressing su Letta e Napolitano, anche se è stato proprio il presidente della Repubblica a creare una situazione favorevole per gli interventi decisivi di gennaio. «I tre milioni di persone che hanno votato alle primarie mi hanno dato un mandato in nome del cambiamento e dell'efficienza della politica. Il pasticcio del salva Roma va in un'altra direzione», spiega il sindaco.
Per questo, il patto di governo, che sarà siglato entro il 15, deve portare soprattutto la sua firma. Riforma elettorale, abolizione del Senato, job act, cultura. Ma non basta. «Il tema del rimpasto esiste eccome, solo che non voglio essere io a porlo », dice Renzi. Oggi però ha una sponda: Mario Monti. Infatti, il sindaco appoggia la richiesta di Scelta civica di un riequilibrio dei ministri. «Ci sono due rappresentanti centristi nell'esecutivo, Mauro e D'Alia. Dopo la loro scissione, entrambi stanno con Casini. Non va bene», è il ragionamento dei renziani. Il partito del Professore può essere lo strumento per mettere Letta alle corde
..."

5. E dunque apprendiamo che:
1) ogni possibile priorità per "agganciare" la ripresa (ricordiamo "certificata" dallo stesso Scalfari...) consiste nella ulteriore e irrinunziabile limitazione della spesa pubblica;
2) al di là delle alchimie "istituzionali" - a effetto ZERO sulla congiuntura economica, se non addirittura controproducenti in quanto strumenti acceleratori della linea delle riforme austere, rieditive di una nouvelle vague "montiana", improvvisamente rilegittimata dai 3 milioni di voti presi da Renzi alle primarie (!)-, l'unico altro provvedimento adottando è quello della totale liberalizzazione in uscita del mercato del lavoro;
3) questa operazione viene offerta insieme con una cornice di "cultura", in modo da solleticare una sorta di etichetta progressista (altrettanto acriticamente trasformata e ormai irreversibilmente metabolizzata dalla sua versione mediatica ordoliberista), ma, trattandosi di una linea inscritta nel furioso intento di tagliare la spesa pubblica, si risolverà, giocoforza, in diverse modalità di PRIVATIZZAZIONE dei beni e delle attività culturali (meglio se aperta agli investitori esteri);
4) potete notare come tutte le indicazioni di voto che, pallidamente, parevano essersi affacciate in esito alle ultime elezioni, vengono ribaltate, per il semplice fatto che il controllo MEDIATICO della "cultura", sintetizzabile nell'autoinvestitura come "guida" dei "giornaloni" in questione, riproduce incessantemente lo stesso disegno che aveva portato al governo la linea montiana, rilegittimandola (indirettamente o anche direttamente) con un'operazione di "rinnovamento" della leadership .
5) Quest'ultima operazione, a sua volta, prospera nella compattezza della acclamazione mediatica e nell'assenza di qualsiasi seria controspinta politica che sappia evidenziare questo incredibile paradosso mediatico e meta-democratico: reinventare 3 milioni di voti come una sorta di ordalia che consente l'indiscriminata autoatttribuzione del sentire plebiscitario dell'intero corpo elettorale, riproponendo una linea che non soffre mediazioni e si impone come "cultura" di una "sinistra responsabile" e "vincente".

Questa è dunque la specificità italiana nel quadro generale. Certamente ha parallelismi e meccanismi analoghi in altre realtà (ex) democratiche che subiscono lo stesso €uro-disegno: ma, altrettanto certamente, la nostra possibilità di tentare una salvezza in extremis della democrazia passa per la consapevolezza accurata di questi meccanismi.
Anche perchè, molto concretamente e con inesorabile attualità, incombono da subito su di noi, come strumenti più che sufficienti per piombarci, molto rapidamente, nella definitiva degradazione a colonia depressa di un'Europa implacabilmente occupata nella "Soluzione finale" della democrazia.

venerdì 27 dicembre 2013

TIETMEYER, IN FONDO, CI VOLEVA "MENO MALE" DI KOHL? Reinventing la "continuità storica" per salvare il "fogno" ordoliberista...

So che i miei attenti lettori, ormai, ne sanno una più del diavolo in tema di €uro-ordo-liberismo e sulle sue ragioni profonde.
Ma proprio per rendere nitida, in contrappunto, la vera natura delle posizioni "salva-fogno", in pieno orgasmo creativo, "rigorosamente" paludato di idealismo svincolato dall'analisi dei dati economici e della realtà normativa dei trattati, mi piace fare un pò di ricostruzione storica.

E partiamo dalla famosa "spinta ideale" alla pace che si sarebbe riaccesa dopo l'unificazione della Germania. Il Grande Alibi "de fero". Pò esse' piuma, pò esse' fero...ma per lo più è "ferro e fuoco" per la democrazia del lavoro e dei diritti sociali.
I "salva-fogno" ignorano pervicacemente tutto questo, perchè li farebbe inciampare sul nascere delle loro singolari teorie di idealismo-che-riscrive-curiosamente-la-Storia: cioè una Storia che, mentre si svolgeva, non aveva nulla a che fare con le spiegazioni e le giustificazioni attualmente da essi abbracciate, che tendono a creare una continuità con un passato, "ideale", mai verificatosi.

E perciò vi ripropongo il "vero volto €uropeo" di Kohl:
"Il 1996 fu l’anno delle decisioni definitive per l’euro. L’Italia arrivò alla volata finale in difficoltà, e indietro. Il terreno sarà poi recuperato da Prodi e Ciampi – pagando il prezzo suppletivo di una parità troppo alta. Ma la decisione, si poteva scrivere quindici anni fa di questi giorni, era già stata presa:
“Kohl dirà un giorno, lo va dicendo da tempo, che Margaret Thatcher e François Mitterrand gli hanno estorto un impegno a “restringere” la Germania nell’euro, in cambio del consenso alla riunificazione. E che questo impegno fecero patrocinare dagli Usa – che invece l’euro non lo amano, per il poco che lo considerano. Il cancelliere lo va dicendo per venire incontro all’opinione pubblica nel suo paese: i giornali, sia conservatori che socialisti pretendono che la Germania non gradisca l’euro, non gradisca cioè un legame stabile con gli altri paesi europei. La verità è però un’altra: Kohl vuole tutti nell’euro, per non avere concorrenze sleali da parte dei partner europei. In particolare ci vuole l’Italia. In disaccordo per questo col suo stesso presidente della Bundesbank, l’amico di partito Tietmeyer. Al quale l’ha detto chiaro, e di questo ne ha reso edotto Lamberto Dini: l’Italia deve entrare nell’euro, alle condizioni di Maastricht, fin dal primo minuto.
Hans Tietmeyer, da buon tecnico, ha escogitato varie soluzioni per una sorta di Euro 2, un secondo livello di paesi europei con vincoli di spesa pubblica meno rigidi. Il suo ragionamento è semplice: l’Italia ha un debito doppio di quello della Germania, non potrà mai stare nei parametri rigidi fissati a Maastricht. Per l’Italia e gli altri paesi indebitati come il Belgio, si può quindi pensare a un Euro 2. Si può pensarci anche come una soluzione a tempo, “per un anno”: finché le economie dei paesi più indebitati si metteranno in condizione di onorare gli impegni di Maastricht.
Il cancelliere invece è di tutt’altro parere: un’Italia fuori dall’euro, e insieme strettamente legata all’industria tedesca, farebbe una concorrenza rovinosa. L’Italia deve quindi essere subito parte dell’euro, alle stesse condizioni degli altri partner.”

Si tratta della dimostrazione, in "soldoni", nella brutale semplicità del linguaggio politico (molto più concreto e, quindi, "rivelatore" delle teorie dei "salva-fogno"), della versione normativa E VINCOLANTE della stessa vicenda quale delineata dal Trattato di Maastricht; e che ritroviamo oggi, scolpita senza equivoci, nei più significativi articoli del TUE (il "mitico" art.3, par.3, con la sua forte competizione e stabilità dei prezzi per realizzare una "economia sociale di mercato"), e del TFUE (artt.123, 124 e 125, quelli che escludono ogni possibilità di "solidarietà" fiscale e finanziaria all'interno dell'UE-UEM, ponendo dei rigidi e vasti divieti).

Per i vari "salva-fogno" che si avventurassero in (improbabili) contorsioni giuridiche sulla proponibilità, originaria, o anche solo in via di trattativa "politica" (come no! Meno male che ci siete voi!), della solidarietà finanziaria e fiscale all'interno dell'UEM, suggerisco (visto che non si fidano delle analisi di questo blog, le uniche giuridicamente approfondite nel panorama italiano), la visione di questa "interpretazione autentica" dei Trattati stessi da parte di Giuliano Amato (è breve e terribilmente chiara).
Una testimonianza, quantomeno privilegiata, che sottrae ogni parvenza di plausibilità al preteso idealismo dei salva-fogno.

La storiella trova piena conferma anche nella testimonianza di Vincenzo Visco, eminente protagonista del governo che ci condusse in questa bella avventura di "pace e prosperità":
Qual è stato il momento più critico del percorso di accesso all’euro?
All’inizio sembrava che dovessimo entrare un anno dopo gli altri, perché il governo Dini aveva posto il 1998 anziché il 1997 come temine per rispettare il vincolo del 3 per cento tra deficit e Pil. Ma nessuno si era accorto che Ciampi si era tenuto una strada aperta, scrivendo in una riga del Dpef che si poteva anticipare. Poi Romano Prodi andò in Spagna e José Aznar gli disse che Madrid sarebbe entrata e fu molto sprezzante nei confronti dell’Italia. Quando Prodi tornò fece una riunione con Ciampi, Enrico Micheli, Tiziano Treu, e me. Si decise di provarci comunque per il ’97. Ma l’unico modo era fare una manovra dal lato delle entrate, il lavoro sporco fu delegato a me.

E se fossimo rimasti fuori?
Un’Italia fuori dall’euro, visto il nostro apparato industriale, poteva fare paura a molti, incluse Francia e Germania che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i paesi, tranne la Russia da cui compra l’energia. Era un disegno razionale, serviva l’Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo vantaggio sull’export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene della zona euro nel suo complesso

Ora, il punto rimane sempre quello.
O si prende atto del disegno ideologico dell'ordoliberismo, che ha utilizzato gli schemi macroeconomici monetaristi e neo-classici per pianificare la sua strategia di distruzione delle odiate (da "loro") democrazie costituzionali, oppure lo si ignora contro ogni evidenza, finendo oggettivamente per rafforzare gli esiti finali di tale strategia.

Ma in tale secondo caso, tipico dei "salva-fogno", per fare ciò occorre avere delle forti motivazioni. Cioè essere profondamente convinti delle ragioni di Barroso e Padoa-Schioppa nel considerare la democrazia del lavoro e dei diritti sociali (istruzione, sanità e previdenza, su tutti), come dei residui "inefficienti" del passato. Ed essere, almeno si spera, altrettanto convinti che le forme di privatizzazione a cui mira questa visione della società, opposta a quella accolta in Costituzione, siano un vantaggio per coloro a cui si rivolgono.
Altrimenti, li starebbero ingannando.
E anche per fare questo ci vogliono delle forti motivazioni. Ma sarebbe bene che ci facessero capire quali siano...

giovedì 26 dicembre 2013

THINK ABOUT IT

Forse ora, in questo clima rarefatto delle festività, avete un momento di più per fare delle riflessioni.
Pensateci: nessuno farà al posto vostro il lavoro che vi spetta per recuperare la democrazia. Nessuna significativa forza salvifica "nazionale" è all'opera e, per di più, nel prossimo futuro, neppure si manifesterà.
Questa è la sicurezza che potete porre a fondamento delle vostre (eventuali) riflessioni.

Anzi, altrettanto sicuro è che l'ordoliberismo troverà sempre nuove e multiformi tattiche di incanalamento dello scontento montante al fine di sopirlo (continuate a "fognare"); la moltiplicazione degli strumenti di deviazione/mascheramento della comprensione della crisi sarà, anzi, il clou della neo-strategia mediatica prossima ventura (austerity brutta-€uro bello, internazionalista e per la pace).

Quello che non farete voi non lo farà nessun altro, dunque. Quello che farete voi, lo potete fare solo voi.
Sembra poco, o nulla, è invece è un grande punto di partenza.
Ritornano più che mai attuali le riflessioni già svolte sul punto.

mercoledì 25 dicembre 2013

IL NATALE AL TEMPO DELLA GRANDE DISTOPIA

Ché poi, il Natale, è diventato anch'esso parte della strategia di propaganda. Lo era già, anche nei tempi passati (della democrazia in faticoso cammino), nel senso della famosa "celebrazione consumistica" su cui ci mettevano in guardia quando ancora ero bambino; il fatto che ci mettessero in guardia, peraltro, richiamandosi ai "veri valori religiosi", era anch'esso parte di un sistema di controllo sociale. Ma quello era ben diverso. Ammettere un certo grado consumismo in progress , (scardinante a sua volta i riti della famiglia allargata di un'Italia contadina che si dissolveva nell'inurbamento industriale), consentiva una certa "soddisfazione diffusa" nel constatare il cammino fatto; e il richiamo al fondamento religioso della ricorrenza serviva in un certo modo a saldare questa soddisfazione, in un coerente quadro dell'identità sociale. Era uno schema: suscitava accese critiche, ma funzionava da catalizzatore di un'autopercezione progressiva del benessere.

Ma oggi è diverso. Quelli che fra voi si troveranno a leggere "these lines", oggi, e per il fatto che non trovano motivo serio per "staccare" da un discorso sulla ragion critica, avranno comunque abbracciato una visione "umanitaria" del Natale.
Perchè, semplicemente, non avranno sentito l'ennesimo "stato di eccezione", negatore della natura umana e privo di qualunque base logica, che dovrebbe indurre a "sospendere" la Resistenza (umanitaria), cioè nutrita di un substrato ideale tra i più nobili, alla instaurazione della GRANDE DISTOPIA.

Perchè, come vi accorgerete guardando anche distrattamente i bollettini mediatici del PUD€, tambureggianti e reiterativi, "LORO (ESSI)" NON SI FERMANO MAI.
E quindi, qualunque clima di tregua, ancorché piccolo e transitorio, è un cedimento del terreno faticosamente conquistato.

Immaginate lo sviluppo di un mondo privo della stessa ipotesi frattalica (ormai è stata formulata e, in ragione di ciò, è GIA' nel quadro del reale, inteso come frazione dell'Intenzionalità che compone il quadro della percezione sociale di un "certo" Tempo).
La loro distopia ci proietta, senza alcuna mediazione o cedimento (da parte "loro"), verso un mondo dove ogni elemento programmatico della "Grande Società" ordoliberista si realizza in una nuova tappa, mentre vengono implacabilmente gettate le basi del nuovo tassello della strategia anti-umanitaria.
Lo "sterminio" dei diritti sociali, che è soppressione della democrazia nel suo fondamento sostanziale, rinnova l'incubo di un'€uropa che, come nella seconda guerra mondiale, mostra all'intera Umanità il volto dell'Irrazionale che non può essere contrastato e piomba ogni residuo "rappel a l'ordre", in una dimensione spettacolare paradossale: nessuno potrà mai spiegare fino in fondo come ciò sia potuto accadere, in questa forma così estrema, così priva di resistenze collettive consapevoli, ponendo definitivamente gli esseri umani di fronte al dilemma, già affrontato all'indomani della seconda guerra mondiale, del come fare "affinchè tutto questo non si ripeta mai più".

Se nulla si opporrà in forma organica, consapevole e basata sulla "memoria", a questa distopia, potremo soltanto "contare i morti". I morti prematuri, privati delle esistenze che la legittimità del sistema costituzionale avrebbe consentito loro di condurre e invece ingiustamente gettati sulla bilancia occulta del loro "risanamento dei conti", della loro "crescita" (delle disparità), dove l'accorta programmazione delle parole d'ordine li farà pesare...nulla.
Quanti moriranno anzitempo perchè i sistemi pensionistici e sanitari saranno letteralmente smontati nel livello minimo essenziale? Quanti moriranno e sfoltiranno le fila dell'"esercito di riserva dei disoccupati" e dei precari, in modo da controllarne la massa esattamente nel numero progressivamente ridotto che conviene all'equilibrio dello shock permanente con cui intendono governarci..."per sempre"?

Creare implacabilmente una crescente e poi immensa schiera di nuovi poveri per "placare gli dei del mercato" ci rammenta che "escludere i poveri dallo stato sociale è una pratica totalmente analoga ai sacrifici umani".
Il contesto da cui, non casualmente traggo queste frasi che riassumono il concetto di urgenza che mi pareva giusto trasmettere, specifica pure che, appunto, "Il concetto che gli dèi del mercato debbano essere placati in un paese padrone della propria moneta è assurdo;", tanto che specifica come "i sostenitori dell’austerità richiameranno l’esempio della Grecia e della periferia dell'eurozona come esempi di paesi dove i bond vigilantes sono apparsi e hanno distrutto l'economia. Ma si tratta di paesi appartenenti a un'unione monetaria, che non controllano la propria valuta. La loro disponibilità di moneta — e quindi il prezzo del loro credito — è in balia di una banca centrale estera".

Ma vedete, il punto è tutto qui: una denunzia del genere, compiuta in UK, e che riecheggia altre voci che variamente si affacciano sullo scenario USA, è ormai divenuta impensabile nella €uro-realtà. Certamente nella sua dimensione mediatica di Potere monolitico.
Non c'è De Grauwe o Stiglitz che possano indurre al "rappel a l'ordre" alcuno dei leader €uroti in carica attualmente, al massimo capaci di concepire ridicoli compromessi che vengono offerti come soluzioni, ma non alterano di un millimetro la rotta pervicacemente intrapresa.

Mi piacerebbe poter dire che "noi non ci arrenderemo", che alla fine la razionalità umanitaria prevarrà, che la "Grande Distopia" imploderà politicamente come prevede De Grauwe.
Ma l'Italia, proprio l'Italia, versa in condizioni di degenerazione civile e democratica così assolute, - fino al radicamento nella "coscienza diffusa"-, e apparentemente irredimibili, che non possiamo accontentarci di assistere (per di più in pochi) alle "voci dall'estero".
Dobbiamo "credere", perchè non c'è alternativa etica dotata di dignità umana, di poter continuare a lavorare per la democrazia fino a che "loro" non saranno sconfitti. Anche in Italia. Anche ricordandocelo il giorno di Natale; anzi, specialmente oggi.



lunedì 23 dicembre 2013

STIGLITZ E LA VIA STRETTA DELLA "RICOSTRUZIONE" DOPO L'€URO-DISASTRO (con addendum)

Stiglitz è un economista profondo che, però, parla chiaro.
Esprime il suo pensiero, più o meno di fine anno, dandoci una ricetta per salvare il salvabile dell'euro che null'altro è, in essenza, che un'agenda di trattativa dai contenuti rivoluzionari. Ma solo se assunta con urgenza nella sua integralità.
Tutto quanto suggerisce, - per chi fosse consapevole dei contenuti dei trattati, delle prassi rafforzative e strategiche con cui sono stati rigidamente applicati, del modo in cui acriticamente (salvo ambigue quanto deboli obiezioni) sono state recepite da tutti gli Stati coinvolti le stesse applicazioni- determina una "riscrittura" che per la governance europea attuale risulterebbe, prima ancora che una svolta a 180°, una vera e propria ammissione di gravissime colpe.
Un evento impensabile e specialmente in Italia, dove la nouvelle vague politica sulla cresta dell'onda accentua i caratteri tea-party e ordoliberisti della sua attrattiva propagandistica, sempre più votata all'autodistruzione.

Vi riporto la sintesi linkata in apertura:
"...serve una riforma strutturale dell’Eurozona, che si basi su questi elementi imprescindibili:

· Un'unione bancaria reale, con una supervisione comune, un’assicurazione sui depositi comune e una risoluzione comune. In sua assenza, continuerà il trasferimento di denaro dai Paesi più deboli a quelli più forti.
· Una forma di mutualizzazione del debito, come gli Eurobond: con il rapporto debito/Pil dell’Europa inferiore a quello degli Usa, l’Eurozona potrebbe contrarre prestiti a tassi di interesse negativi - come succede agli Usa – che consentirebbero di liberare liquidità per stimolare l’economia, spezzando il circolo vizioso dei Paesi colpiti dalla crisi, in base al quale l’austerità aumenta il peso debitorio, rendendolo meno sostenibile per la riduzione del Pil progressiva.
· Politiche industriali in grado di consentire ai Paesi in difficoltà di recuperare terreno, nonostante la critica dei mercati liberi che si compie.
· Una banca centrale che si focalizzi non solo sull’inflazione, ma anche su crescita, occupazione e stabilità finanziaria;
· Sostituzione delle politiche di austerità anti-crescita con politiche pro-crescita focalizzate sugli investimenti in capitale umano, tecnologia e infrastrutture.

Gran parte del progetto euro, afferma il Premio Nobel per l'economia, riflette i principi economici neoliberali: bassa inflazione come elemento necessario e sufficiente per la crescita e la stabilità; una banca centrale indipendente come unico modo per garantire fiducia al sistema monetario; debito e deficit bassi che avrebbero assicurato una convergenza economica tra i Paesi membri; infine, un mercato unico, con libera circolazione di capitali e persone per garantire efficienza e stabilità.
Ciascuno di questi principi si è rivelato errato. La Spagna e Irlanda evidenziavano surplus fiscali e bassi rapporti debito/Pil prima della crisi. La crisi ha causato deficit e debito elevato, e non il contrario; inoltre, le restrizioni fiscali concordate dall’Europa non agevoleranno una rapida ripresa da questa crisi né riusciranno ad evitare la prossima.
Infine, per quel che riguarda la libera circolazione di persone, la migrazione dai Paesi colpiti dalla crisi, in parte finalizzata ad evitare di ripagare i debiti ricevuti in eredità, ha svuotato le economie più deboli e potrebbe anche tradursi in una inadeguata allocazione della manodopera.

La svalutazione interna – abbassando salari e prezzi domestici – non è un sostituto della flessibilità dei tassi di cambio. Crescono al contrario i timori di deflazione, che aumenta la leva finanziaria e il peso dei livelli debitori che sono già troppo elevati. Se la svalutazione interna fosse un buon sostituto, il gold standard non sarebbe stato un problema nella Grande Depressione, e l’Argentina sarebbe riuscita a mantenere l’ancoraggio del peso al dollaro quando scoppiò la crisi del debito un decennio fa.

Nessun Paese è mai riuscito a rilanciare la prosperità con l’austerità. La Germania e gli altri Paesi del Nord Europa hanno dichiarato che non dovrebbero essere chiamati in causa per pagare i conti dei pigri vicini del Sud Europa. Ma, sostiene il Premio Nobel per l'economia, si tratta di un atteggiamento sbagliato per una serie di motivi: in primo luogo, i tassi di interesse più bassi conseguenti agli Eurobond o a meccanismi simili renderebbero gestibile il peso debitorio. In secondo luogo, se l’Eurozona adottasse il programma sopra delineato, non vi sarebbe alcuna necessità per la Germania di sborsare un euro. Ma con quest'atteggiamento perverso, al contrario, ad una ristrutturazione del debito ne segue un’altra con Berlino che rischia di dover pagare un conto enorme finale.

L’euro avrebbe dovuto portare crescita, prosperità e senso di unità ed invece ha portato stagnazione, instabilità e divisione. Non dovrebbe essere così. L’euro può essere salvato, ma se la Germania e gli altri Paesi non sono disposti a fare quanto necessario – se in altre parole non c’è abbastanza solidarietà per far funzionare la politica – allora, conclude Stiglitz, la moneta unica dovrà essere abbandonata per il bene del progetto europeo."

Parrebbe un'adesione a certe linee, tardive fino al limite del patetico e incauto che vengono oggi suggerite, parlando apertamente (e in ulteriore ritardo), addirittura di Abenomics "all'europea".
Ma l'Europa è andata "troppo oltre" e non ha più le risorse umane, psicologiche, politiche, cognitive e, ovviamente, mediatiche per correggere il proprio corso degli eventi.
L'ordoliberismo non è un elemento casuale ed estemporaneo: è un regime trentennale sorretto da una strategia di lungo periodo che, non solo si è fino ad oggi costantemente rafforzata, ma che si sente in dirittura d'arrivo della sua vittoria finale.
E' impensabile che l'insieme delle correzioni suggerite da Stiglitz siano anche solo lontanamente realizzate nella indispensabile simultaneità che esse comportano
.

In particolare, la nuova idea di banca centrale evoluta verso il modello Fed e le "politiche industriali", sono agli antipodi dei vincoli accuratamente celebrati nei trattati in termini esattamente opposti. E che vengono semmai, allo stato attuale, ulteriormente rafforzati dal tipo di Unione bancaria che si sta realizzando e dalla filosofia dei "contratti" di "condizionalità" (con la Commissione UE) demandati ad un ulteriore inasprimento della svalutazione interna, incentrata sulle riforme strutturali deflattivo-salariali. Con distruzione finale del sistema del welfare che consente il risparmio diffuso e differito che è visto come principale ostacolo della resistenza ad accettare il consolidamento della società "von Hayek" cui mira l'ordoliberismo "internazionalista" (ma ormai, in pratica, essenzialmente €uropeo).

C'è un margine di resistenza dell'interesse democratico della Nazione per riuscire a conservare, in Italia, quelle poche strutture costituzionali "sostanziali", che possano consentire una pronta ricostruzione dopo l'ormai inevitabile €uro-disastro?
Non è facile rispondere: le probabilità attuali sono scarse e le risorse culturali ancor di più.
Probabilmente ci sarà un diverso ed opposto "vincolo esterno". Nella più ottimistica delle ipotesi formulabili.

ADDENDUM: per comprendere a fondo come in realtà l'orientamento di Stiglitz sia parte di una quadro composito, che non è limitato alla presa di posizione della sola parte (in qualche forma) "keynesiana" del campo USA, vi invito a considerare questa "uscita" di Luttwak
, che, certamente, non è allineabile su posizionni del genere, ma che, nondimeno, formula una critica altrettanto radicale. E che implica una condanna e una aperta "sfiducia" dell'integrale approccio delle classi politiche PIGS in rapporto alla Germania.
Il dissenso è (erroneamente e con analisi del tutto discutibili, anche solo di fronte al vero andamento della spesa e del deficit USA, comparati con quelli perseguiti in UEM), posto sul piano dell'esclusivo ricorso a politiche monetarie. Una cosa che Bernanke e la Yellen e gli osservatori USA più attenti (primo Krugman e le stesse "correzioni" FMI) smonterebbero con facilità.
Ma intanto è indicativo di una sorta di convergenza politica dell'atteggiamento complessivo USA.

ADDENDUM 2: Ma potrei aggiungere, come indizio anche questo servizio fotografico appena uscito sulla rivista "Life": si tratta della rievocazione per immagini dello sbarco in Sicilia e fatti conseguenti. Un "segno" delle tendenze frattaliche che si manifestano in progressione. E non un "segno" di tipo predittivo-oracolare, ma dotato proprio dell'allusività frattalica: cioè quella misteriosa "autosimilarità" che governa dinamicamente il caos e che va sotto il nome di "omotetia".

sabato 21 dicembre 2013

RIFLESSIONI SULLA “UNIONE BANCARIA” TRA PRINCIPI COSTITUZIONALI INVIOLABILI E ORDOLIBERISMO FINANZIARIO

Questo post è stato anche pubblicato su "Formiche.net".
Per motivi tecnici, in quella sede, non si sono potuti inserire i links e le note apposte alle fonti utilizzate. In particolare ai lavori di Balduin (magna pars della parte centrale e finale del ragionamento), degli amici di kappadipicche.com, di Sfefano D'andrea e dello stesso Flavio (parte finale). E spero di non aver dimenticato nessuno. Rimedio ripubblicando su questo blog l'articolo corredato dai links
.


1- LA COSTITUZIONE E L’OBBLIGO PROGRAMMATICO, INDECLINABILE, DI TUTELA DEL RISPARMIO COME COROLLARIO DEL PRINCIPIO REDISTRIBUTIVO DELLA TUTELA DEL LAVORO.
L’avanzamento della trattativa sulla c.d. “Unione bancaria” impone alcune precisazioni di tipo sia economico che costituzionale.
Cominciamo a inquadrare la materia sul piano costituzionale.
Cercherò di farla semplice, ma semplice non è…più: e ciò a causa del violento sovrapporsi di 30 anni di teoria e pratica del “vincolo esterno” alle chiare enunciazioni del Costituente.
L’articolo 47, primo comma, infatti stabilisce il principio secondo cui “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio, in tutte le sue forme, disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. In questa enunciazione viene racchiuso il valore prioritario, sul piano economico e sociale, attribuito dalla Costituzione al risparmio: infatti, sebbene ciò appaia attualmente caduto in un inspiegabile “oblio”, la Repubblica si impegna a tutelarlo “in tutte le sue forme”, vale a dire in tutti i modi possibili affinché la parte non consumata del reddito - chè tale è il risparmio-, da parte dei cittadini, produca a sua volta nuova ricchezza.
Al secondo comma, l’art.47 recita “Favorisce (sempre la “Repubblica”, ndr) l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
Va subito precisato che per “Repubblica” in questo caso (come generalmente all’interno della stessa Costituzione) si intende l’insieme degli organi costituzionali di governo, democraticamente rappresentativi e strumento della sovranità popolare (art.1 Cost.): in primis Parlamento e Governo.
Sono essi coloro che sono chiamati a prestare la “tutela” del “risparmio in tutte le sue forme” esattamente nel senso utilizzato dall’art.4 Cost. nel parlare di “diritto al lavoro”, che la “Repubblica riconosce a tutti i cittadini”, tanto che la stessa (cioè quantomeno il Governo-Parlamento), “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Il plesso Governo-Parlamento, assume perciò, unitamente al complesso delle altre istituzioni democraticamente responsabili, riassuntive del concetto costituzionale di “Repubblica”, - di fronte al popolo sovrano costituitosi in corpo elettorale- un obbligo indeclinabile sia a garantire, con priorità assoluta, l’effettività del diritto al lavoro (mediante opportune politiche monetarie fiscali, industriali e, naturalmente “giuslavoristi che”), sia la connessa tutela del risparmio.

Se questa tutela, infatti, è apprestata “in tutte le sue forme” e, segnatamente, per favorire l’accesso del “risparmio popolare” alle tipologie di proprietà più rilevanti sul piano sociale ed economico, la connessione tra diritto al lavoro e risparmio appare palese a chiunque volesse leggere la Costituzione con l’occhio dei…Costituenti: cioè aderente alla più autorevole forma di interpretazione “autentica” in senso sostanziale.
E ciò significa che la realizzabilità di un risparmio popolare, ricompreso a titolo principale, in “tutte le sue forme”, costituisce anch’esso l’oggetto di un vincolo ineludibile - “molto interno” in quanto conforme alla parte immodificabile della legalità costituzionale.
Questo proprio perché il fenomeno del risparmio si collega, attraverso la sequenza “livello di occupazione-tutela “reale” del livello del reddito (art.36 Cost.)-crescita della domanda aggregata-creazione di reddito non consumato”, al principale dei diritti fondamentali della Costituzione, posto dal citato art.4 in raccordo con la chiara enunciazione del fondamento di tutta la sovranità popolare (art.1 Cost.: sovranità, va rammentato, meramente delegata agli organi di vertice di formazione dell’indirizzo politico, cioè affidata in senso realizzativo-strumentale nelle “forme e limiti” enunciati nello stesso art.1).

Se si conviene sul fatto che tali enunciati siano principi “fondamentalissimi” della Carta suprema, essi non sono modificabili in alcun modo, tantomeno in conseguenza dell’adesione a trattati che favoriscano “la pace e la giustizia fra le Nazioni”, e in “condizioni di parità” (art.11 Cost.). Tali sono, infatti, i limiti costituzionali di legittima assunzione del “vincolo esterno” che, quand’anche rispettati dall’adesione ai Trattati UE-UEM, - e non lo sono- non potrebbero comunque violare l’art.139 Cost. e pervenire alla alterazione permanente degli obblighi di realizzazione dei diritti fondamentali posti a carico delle istituzioni costituzionali e democratiche.

In tal senso, basterà ricordare che, con riferimento al risparmio, esso, quantomeno deve esserci ed essere diffuso a tutte le classi sociali, e non risultare programmaticamente, e in forza di un “vincolo esterno” derivante dal diritto internazionale pattizio:
a) forzatamente ridotto o addirittura escluso, in quanto a tale risultato si perviene, tendenzialmente e progressivamente, attraverso il vincolo del deficit posto fin da Maastricht, unitamente all’adozione di una moneta a sostanziale cambio fisso che incide sulla realizzabilità di un avanzo delle partite correnti in simultanea alla crescita del reddito nazionale (cioè rendendo impossibile tale simultaneità, come risulta dai fatti eclatanti degli ultimi). Tale effetto riduttivo-eliminatorio di risparmio e crescita è poi realizzato con assoluta sicurezza mediante il “fiscal compact-pareggio di bilancio”;
b) concentrato nelle sole mani della parte più abbiente della società ed, ormai, essenzialmente nel settore finanziario-bancario: tale è l’effetto progressivo del tetto al deficit –e ancor più del pareggio di bilancio- a fronte della riduzione/compressione dei redditi e dell’occupazione che ne consegue, in corrispondenza alla concentrazione, attualmente all’87% del totale , della qualità di creditore dello Stato e di percettore dei relativi interessi, in capo a operatori di tale settore.

Ciò avrebbe posto già da decenni l’interrogativo sulla stessa compatibilità costituzionale del divorzio “tesoro-bankitalia, che è alla radice di questa progressiva e inevitabile (anzi, intenzionale) concentrazione della capacità di risparmio, in senso redistributivo “all’inverso” di quanto ha previsto la Costituzione all’art.47 . E, va ribadito, contemporaneamente come diretto riflesso dello svuotamento inesorabile del “diritto al lavoro”, da intendere come obbligo costituzionale di politiche di “pieno impiego” e non di deflazione salariale perseguita come unica via alla “competitività” segnata dai principi fondanti dei trattati (si veda l’art3, par.3, del TUE).
Sul punto ci limitiamo a condividere alcuni enunciati che si muovono sul piano della corretta interpretazione della stessa Costituzione.
Così , “La Repubblica disciplina il credito; non possono essere organi dell'Unione europea a disciplinare il credito; né possono essere soggetti privati. Le limitazioni della sovranità, previste dall'art. 11 della Costituzione, a parte ogni altra considerazione, possono riguardare soltanto l'esercizio della sovranità nell'ambito di ciò che è prescritto dalla Costituzione; non la possibilità di esercitare la sovranità delegata al di fuori della Costituzione. Comunque l'Unione bancaria non ha nulla a che vedere con il mantenimento della pace e della giustizia tra le nazioni. Quindi in questa materia non è possibile alcuna limitazione della sovranità. Gli autori, anche autorevoli, che richiamano il presunto carattere "aperto" del nostro ordinamento finendo per giustificare ogni limitazione di sovranità (Merusi), non possono essere seguiti.
Né è costituzionalmente legittima la indipendenza della banca d'Italia (e a maggior ragione l'estraneità alla Repubblica – è estraneità e non solo indipendenza - della BCE). La politica monetaria spetta alla Repubblica, il coordinamento spetta alla Repubblica e il controllo spetta alla Repubblica.
La Banca d'Italia deve agire sotto le direttive del Governo. La disposizione non avrebbe avuto senso se, come pure si sostiene (ancora Merusi), con il termine "Repubblica" avesse richiamato semplicemente lo stato-ordinamento. Invece richiama lo stato-apparato, anche perché a coordinare e controllare – salvo la fissazione dei principi e delle modalità, compiti che spettano certamente al legislatore – non possono che essere il Governo e l'amministrazione (nella prima e unica Repubblica, il CICR: Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio).
Dunque, seppure non si voglia aderire all'antica opinione che leggeva nella proposizione che commentiamo la costituzionalizzazione della legge bancaria del 1936, tuttavia è certo che la vigente legislazione bancaria è incostituzionale. L'art. 47 della Costituzione non si limita ad attribuire alla Repubblica una competenza che il legislatore non può trasferire ad altri soggetti, bensì, imponendo alla Repubblica di coordinare l'esercizio del credito, detta anche un vincolo contenutistico, sebbene di carattere negativo, relativo alla disciplina dell'esercizio del credito.
Infatti, nel disciplinare il credito, la Repubblica non può affidarlo al criterio della concorrenza, perché l'esercizio del credito va coordinato. La scelta dell'introduzione del principio di libera concorrenza, è scelta di non adempiere il dovere posto dai padri costituenti: dovere di coordinare il credito. Il Parlamento italiano non può privare il Governo del potere di coordinare, né può sottrarre se stesso al dovere di coordinare legiferando. Si coordinano entità diverse per un fine o in vista della realizzazione di più fini: quelli costituzionali. Scegliere la concorrenza come criterio regolatore significa rinunciare al coordinamento e rinunciare ai fini (costituzionali) in vista dei quali deve essere disciplinata e svolta l'attività di coordinamento. La scelta nichilistica è anticostituzionale.
La tesi secondo la quale l'art. 47 sottrarrebbe la materia dell'esercizio del credito (e quella della tutela del risparmio) all'art. 41, 3° comma, ossia alla riserva di legge relativa e quindi alla programmazione (ancora Merusi), è una petizione di principio che non poggia su alcun dato letterale. Secondo questa tesi, anzi, l'art. 47, sarebbe un prius, perché si potrebbe programmare soltanto sul fondamento della tutela del risparmio, tutela che consisterebbe nella lotta all'inflazione (le indicizzazioni, chi sa perché, sarebbero incostituzionali). Come questa "costruzione", che è vera a e propria "invenzione" e anzi sovrapposizione della disciplina di matrice europea alla disciplina costituzionale, sia compatibile con la promozione della piena occupazione – che questa dottrina riconosce essere uno dei lati del "quadrilatero" della costituzione economica – non è dato sapere.”

O, ancora, con accenti più “mediati” ma egualmente indubitabili e particolarmente significativi per la “fonte”, le parole di Mario Sarcinelli (ex Vicedirettore generale Banca d’Italia), a commento di un’affermazione elaborata dal Governatore Baffi riguardo al regime dei cambi valutari “(…) il giudizio di valore consacrato dall’enunciato costituzionale (dell’articolo 47 Cost. n.d.r.) dava maggior peso alla tutela del risparmio che alla stabilità della moneta (…). Dopo l’approvazione italiana del Trattato di Maastricht, il rapporto “costituzionale” tra tutela del risparmio e stabilità dei prezzi è mutato, innalzando la seconda a livello della prima”.
Ovviamente, questa deduzione di Sarcinelli va vista come mera “constatazione logica e fattuale”, essendo avulsa dal trattare il problema giuridico se ciò potesse accadere alla luce del dettato costituzionale.

2- L’IRRUZIONE DELLA DISCIPLINA “EUROPEA” NEL SETTORE CREDITIZIO E DEL RISPARMIO.
Il cambio di paradigma in materia di regolamentazione bancaria, richiesto dall’Europa per realizzare la libera circolazione dei capitali, parte da lontano e risale all’affermazione del carattere d'impresa dell'attività bancaria, esclusivamente regolato dal principio fondamentale dei Trattati della “forte competizioneconcorrenziale, a discapito dell'interesse pubblico, proclamato invece nella legge bancaria del '36.

Con la prima direttiva comunitaria in materia bancaria (CE n. 780/77), recepita tramite il DPR 350/85, è stato introdotto nell’ordinamento interno il principio del libero accesso all’attività bancaria.
La seconda direttiva (CE n. 646/89), poi, ha realizzato il coordinamento delle disposizioni legislative nazionali. Unitamente alla prima diede vita ad una vera e propria “legge bancaria comunitaria”, che ha portato, in Italia, al Testo Unico Bancario del ’93 (d.lgs. 385/93).
Questo punto di svolta segnò il passaggio dalla cd. vigilanza cd. “strutturale”, volta a perseguire l’obiettivo della stabilità del sistema attraverso la preventiva valutazione del bisogno economico del mercato, a quella “prudenziale” fondata, essenzialmente, sulla valutazione dell’adeguatezza del patrimonio bancario a presidio dei “rischi d’impresa”.In nome della concorrenza è stata fortemente limitata la discrezionalità tecnica della Banca d'Italia.
La potestà di normazione secondaria del regolatore nazionale è stata ridotta alla mera ricezione, via Commissione Europea e Comitato di Basilea, delle metodologie di misurazione dei rischi, ad elevato grado di astrazione, elaborate dagli stessi operatori internazionali nominalmente sottoposti al controllo della vigilanza bancaria.

Allo stato attuale, le crisi finanziarie che si sono succedute nell’ultimo trentennio, con maggiore frequenza e intensità rispetto al passato, e con costi crescenti a carico dei bilanci pubblici per ripianamento delle perdite, impongono una riflessione critica anche sulla praticabilità di un modello di controllo basato sulla centralità del “patrimonio” e sull’omogeneità del modello imprenditoriale di banca universale adottato - ma anche imposto “ope legis”- dagli operatori.

Tutti problemi che, va fortemente sottolineato, l’accordo sulla “Unione bancaria” lascia del tutto irrisolti e sullo sfondo.

Ed infatti, le difficoltà incontrate dalle Autorità di vigilanza nel far osservare i principi della corretta gestione creditizia, non potranno essere superate – neanche in improbabili contesti sovranazionali – fintanto che non verrà messo in discussione l’approccio “prudenziale”, eccessivamente rispettoso delle prerogative degli operatori di mercato (e molto meno di quelle di depositanti e contribuenti).
L’eccessiva confidenza nella capacità degli operatori di valutare autonomamente i rischi contrasta con la stessa ragione dell’intervento regolamentare pubblico: quella di limitare il “moral hazard” del banchiere, cioè la particolare tentazione, connaturata all’attività, di appropriarsi tout court delle risorse affidate dai risparmiatori omettendo di effettuare la dovuta selezione degli impieghi in una ideale logica di funzionalità del sistema.
Nel sistema della legge del ’36 l’interesse pubblico posto sull’attività bancaria costituiva un efficace argine per il “moral hazard” che nessuna possibile misura del patrimonio bancario, - pur sempre una frazione della massa dei depositi-, può rimpiazzare.
Il patrimonio di una banca, qualunque sia la forma giuridica, è essenzialmente un patrimonio di relazioni (in teoria una banca potrebbe operare con patrimonio negativo): quelle buone portano buoni frutti, quelle pericolose portano alla crisi. Il conto di quest’ultime è portato ai contribuenti.
Nel sistema delineato dalle normative comunitarie, prima con il recepimento di Basilea 1 e poi con Basilea 2, gli strumenti d'intervento posti a disposizione delle Autorità di vigilanza non si sono dimostrati efficaci a prevenire le crisi.
Un’ulteriore complicazione al mercato del credito, derivata da Basilea 2, è la prociclicità, che porta gli operatori a restringere le erogazioni nelle fasi discendenti del ciclo economico per “risparmiare” capitale.

Le linee di riforma stabilite da Basilea 3, dichiaratamente nate per porre rimedio alle falle che hanno prodotto la crisi del 2007-2008, si pongono in sostanziale continuità con lo schema già accennato, tanto che alcuni specialisti parlano di occasione mancata (o falsa panacea), apportando, di nuovo, solo sistemi di ripartizione delle perdite dell'attività bancaria, per particolari categorie di finanziatori (bail in).
Non risulta modificato, anche in prospettiva, l’impianto regolamentare, deputato ad assicurare il controllo sulle banche alle quali è pacificamente riconosciuto, per i motivi sopra accennati, il carattere di impresa “speciale”, tanto da meritare una specifica attenzione pubblica.
In tali condizioni, di “controllo volontaristico”, nella pratica, una banca resta stabile fintanto che il “prelievo alla fonte”, ovvero il “frutto” del moral hazard, operato dai poteri decisori interni, è sopportabile della generale massa dei clienti depositanti e prenditori ordinari.
Detto "prelievo" si estrinseca nell’acquisizione di attivi bancari "farlocchi": tanto le classiche concessioni di credito predestinate a trasformarsi in sofferenze, quanto i più moderni prodotti della finanza innovativa (derivati et similia) di incerto valore che, tuttavia godono di favorevoli ponderazioni (quotazioni cd. 'mark to fantasy').

Nel sistema “prudenziale” non vi è modo per la vigilanza bancaria di contrastare la formazione delle perdite preordinate ex-ante, nonostante la continua iperfetazione della normativa secondaria, restando solo la decisione di ritiro della “licenza” bancaria quando il “prelievo” osservato non è più sopportabile dalla generica clientela della banca.
Peraltro, la possibilità di applicare questa “punizione”, che interviene, per definizione, solo quando i danni sono già stati prodotti, è in pratica possibile solo per gli intermediari di minori dimensioni, non per quelli di rilevanza sistemica. Qualche voce critica sulla ridondanza della strumentario utilizzato dalla vigilanza “prudenziale” si è levata di recente dallo stesso ambiente delle banche centrali.

A conferma di ciò, basterebbe rammentare che “il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea non contiene, in conformità all’evoluzione legislativa europea, alcun riferimento alla tutela del risparmio la quale viene demandata interamente alle fonti comunitarie di secondo grado (c.d. diritto comunitario derivato). Ciò, come si è più sopra evidenziato, non ha impedito di adottare misure a tutela del risparmio a livello europeo anche se, come osservato, la mancata menzione nel Trattato di tale principio ha comportato con riguardo alla nozione di risparmio una sorta di interscambiabilità dei termini “risparmiatore” e “investitore”.”
Il che costituisce un problema non da poco, data la macroscopica incompatibilità di tale “interscambiabilità” col concetto “sistematico” di risparmio diffuso e ad accesso popolare accolto in Costituzione, che tende a separare, per assoluta necessità logica, l’investitore che esercita attività professionale di impresa nel settore finanziario nonchè il percettore essenziale di “rendita”, da colui che assume il risparmio come frutto residuo del reddito da lavoro, e quindi in termini di eventualità che, a differenza dell’UE, la Repubblica si impegna a rendere una effettiva realizzazione.
Ma, in termini logicamente antecedenti, l’Unione europea, e a maggior ragione quella monetaria, retta da un’unica istituzione “dedicata”, la BCE, soggetta al mandato esclusivo della stabilità dei prezzi (art.127 TFUE) , e solo in via accuratamente subordinata a quello della “piena occupazione” (in senso neo-classico, di qualunque livello di occupazione compatibile con l’inflazione perseguita), predica implicitamente la assoluta indifferenza verso la formazione diffusa del risparmio, e la presupposta finalità redistributiva in essa insita, preoccupandosi invece solo della stabilità finanziaria.
Quest’ultima, a sua volta, assunta dal solo punto di vista dell’impresa bancaria, cioè come instaurazione di una fiducia sulla solvibilità di sistema, tutta racchiusa nella logica di parametri riferiti ai soli bilanci e indici di patrimonializzazione bancaria; con ciò rendendosi, come abbiamo visto, altrettanto indifferente verso ogni forma di moral hazard nel credito e di tipologia “universale” di investimento consentita alle banche, e quindi al di fuori di ogni ipotesi di repressione finanziaria e di (previgente) separazione delle tipologie di attività bancario-finanziaria.

In questo senso la preoccupazione del legislatore europeo, fermo restando l’inviolabile dogma della stabilità dei prezzi e della libera circolazione dei capitali, è stata quindi di elaborare norme che obbligassero le imprese attive nel settore finanziario all’osservanza di determinati principi di (presunta) trasparenza informativa, tali da consentire ai risparmiatori/investitori di possedere,- in linea teorica ed assolutamente probabilistica-, le informazioni necessarie a ridurre il più possibile il profilo di incertezza relativo alle proprie scelte di investimento. Questa impostazione dimostra la completa marginalizzazione degli interessi dei risparmiatori/investitori paragonata alla possibilità dell’industria finanziaria di poter, in linea teorica, sviluppare le tipologie più sofisticate di investimento finanziario senza che esse siano vietate o, almeno, disciplinate, da alcuna disposizione normativa.
Il percorso storico-legislativo appena tratteggiato ha portato inevitabilmente alla configurabilità di iniziative quale quella, recente, di bail-in delle imprese bancarie in crisi mediante utilizzo del denaro di azionisti, obbligazionisti e finanche semplici correntisti. Ciò non rappresenta altro che la naturale evoluzione, estremizzata, del principio secondo il quale il risparmio non debba più ritenersi veicolato all’interno del settore finanziario da risparmiatori pubblicamente tutelati bensì da investitori razionali i quali, se correttamente informati, subiscono su di sé gli effetti negativi di un investimento sbagliato.”

LA C.D. “UNIONE BANCARIA” OGGETTO DELL’ACCORDO “ECOFIN”.
"E’ proprio come sviluppo di tali premesse che interviene ora la proposta, inserita all’interno delle trattative che riguardano la creazione di un sistema di vigilanza bancaria europea, che mira a consentire l’effettiva possibilità di attuare meccanismi di risanamento e risoluzione delle crisi “finanziarie”, ritenendo di poter ottenere il risultato che, quando la situazione delle banche diventa insostenibile, possa essere consentito loro di fallire e/o di essere liquidate in modo ordinato senza la (presunta e iper-enfatizzata) necessità di salvataggi “a carico dei contribuenti”.
Anche se, per la verità, una simile affermazione nasconde abilmente il suo presupposto “ideologico” monetarista, divenuto parametro supervincolante in forza dei trattati citati.
Ci riferiamo alla incontestata “iperconvinzione” per cui il salvataggio bancario, svincolato dalla tutela di un interesse pubblico di primaria rilevanza, e da una preventiva ed efficiente “vigilanza”, (divenuta “prudenziale” e cioè praticamente autogestita dalle prassi presuntive delle stesse banche “universali”, in base a parametri che escludono ogni pubblica censura del moral hazard e del rischio strutturale insito nella tipologia degli investimenti consentiti) diverrebbe, sempre e comunque, un “onere” per i contribuenti.
Ma ciò, si badi bene, può risultare attendibile solo in quanto si instauri, in difformità dalle Costituzioni democratiche, un particolare quadro istituzionale: cioè, solo in quanto lo Stato che intervenga sia privo di una banca centrale che funga da tesoriere (non da mero prestatore da ultima istanza , concetto attualmente abusato fuori dalla sua corretta accezione) per l’esercizio delle sue funzioni fondamentali di interesse pubblico di massimo livello; e fra di esse, appunto, la tutela dei risparmiatori tracciata nelle stesse Costituzioni democratiche.
Nella instaurazione politico-ideologica di questa “tecnica di controllo” delle democrazie a radice monetarista, lo Stato viene infatti assoggettato al rigido ricorso ai “mercati” – cioè in definitiva, allo stesso settore bancario-finanziario “vigilato”, per la provvista finanziaria delle sue azioni sovrane (instaurando ciò che Keynes definì “la parodia dell’incubo di un contabile” cfr; "Euro e/o? democrazia costituzionale, pag.38, nota 1).
Ed infatti, dietro all’apparente efficiente intento di salvaguardare l’impiego di fondi pubblici nei fallimenti bancari, ispirato dall’esigenza di non ripetere le esperienze di bail-out sperimentate durante il periodo di maggior acutezza della crisi finanziaria del 2008, si nasconde il coinvolgimento in toto del settore privato, e in ultima analisi dei risparmiatori-lavoratori, in precedenza principali destinatari della tutela pubblica, nella risoluzione delle crisi bancarie. Ed infatti, se approvato, lo schema attuale “Ecofin”, farà sì che ogni utilizzo di fondi pubblici nazionali e/o europei sarà subordinato al previo accollo dell’eventuale costo di liquidazione della banca a carico nell’ordine:
a) degli azionisti;
b) degli obbligazionisti dei prestiti subordinati;
c) degli obbligazionisti non subordinati;
d) dei depositi delle grandi imprese;
e) dei depositi con giacenze superiori a centomila euro. Sulla base di quanto appena riportato rimarrebbero al sicuro, pertanto, i soli depositi con giacenze non eccedenti tale importo.
Per coprire le perdite si prevede il ricorso a fondi di azionisti e obbligazionisti (bail-in) fino a un tetto pari all’8% degli assets bancari. Qualora le perdite della banca eccedessero un valore superiore a questo 8%, gli Stati hanno in mente di chiedere un intervento pubblico pari al 5% del valore degli asset bancari, per arrivare così a una soglia di rifinanziamento del 13%. Ciò nonostante alcuni Paesi, tra cui la Germania hanno chiesto che nei casi di insolvenza gravi e richiedenti interventi di assorbimento degli shock superiori alla quota del 13%, tale ulteriore impegno sia nuovamente assorbito dal denaro azionisti e correntisti.

4- GLI EFFETTI DI SISTEMA DELLA “APPARENTE” UNIONE BANCARIA SULLA STESSA TITOLARITA’ DEL POTERE DI CREAZIONE DELLA MONETA.
Ma oltre alla conferma di un modello bancario e di vigilanza finora rivelatosi non solo inadeguato, ma anche completamente contrapposto alle esigenze di tutela predicate dal principio fondamentale costituzionale dell’art.47 Cost. (con tutte le accennate ricadute su altri principi fondamentali), l’Accordo attualmente in “dirittura d’arrivo”, ha, in prospettiva, degli esiti ben più ampi.
Essi tendono addirittura al superamento del residuo carattere accentrato della creazione di moneta nell’area UEM, che, pur attualmente “adespota”, cioè non imputabile a nessuna entità sovrana, in esito al suo affidamento alla BCE, rimaneva pur sempre attribuita ad un’entità latamente ascrivibile alla sfera soggettiva del “diritto pubblico” (pur potendosi dubitare dell’ascrivibilità alla sua sfera “oggettiva”, data la mancanza, nel mandato BCE, di ogni àncoraggio a politiche di piena occupazione in senso effettivo, nonché di tutela del risparmio diffuso, che rispondono al concetto democratico di “interesse generale”, e non settoriale-concorrenziale di una specifica attività economica come quella bancaria).
Sempre tenendo ben presenti le premesse svolte nei paragrafi precedenti, per comprendere questo potenziale preannunzio di “rivoluzione” (monetarista e liberista), occorrono alcune altre “informazioni”.

In proposito, nell’individuare la radice ideologica del liberismo e della stessa teoria generale politica recepiti e sviluppati (ormai a grandi passi) dalla “costruzione europea”, si deve far riferimento a quanto elaborato da von Hayek. Che propose questo approccio alla questione monetaria , finalizzato alla sua “denazionalizzazione”; specificamente, per pervenire alla sua “privatizzazione” in regime concorrenziale:
“- una moneta di cui si pensa che conserverà un potere di acquisto più o meno costante, sarà oggetto di domanda permanente fintanto che le persone saranno libere di utilizzarla;
- se tale domanda dipende dall’effettivo mantenimento a un livello costante del valore di questa moneta, si potrà dare confidenza alle banche emettitrici di fare tutti gli sforzi necessari per giungervi meglio di un monopolista, che non corre alcun rischio deprezzando la propria moneta;
- gli emettitori possono giungere a questo risultato regolando la quantità di moneta che emettono;
- un tale regolazione della quantità di ciascuna moneta è il migliore di tutti i metodi praticabili per regolare la quantità dei mezzi di scambio
.”
Il substrato comune "ideale" tra il "nostro" e il metodo euro-BCE, quale istituzione "unica" di gestione della moneta, risulta certo parzialmente compromissorio. Ma rimane, nei "fini" enunciati normativamente nei trattati, a partire da Maastricht, quello della stabilità del valore monetario, cioè pratica assenza di (variazione della) inflazione - solo in aumento, a quanto pare dall’applicazione scaturitane-, e della visione monetaristica "quantitativa". I riflessi a cui conducono entrambe le soluzioni, con diversa gradualità…si misurano sulla curva di Phillips. La disoccupazione "naturale" (cioè l'abbandono della piena occupazione) e il conseguente calo dei salari reali sono indispensabili caratteristiche del modello sociale da attuare.
Certo, per v.H. il gold standard rimane una soluzione ideale, ma egli ammette che poiché ad esso si contrappone "l'assurda" pretesa che, nell'economia internazionale aperta, i paesi in surplus debbano sopportare (con la rivalutazione) il peso degli aggiustamenti, il valore della stabilità (assenza di inflazione) possa essere "almeno" garantito da quanto egli propone.

Questo passaggio è direttamente indicativo:
Resterebbero nel mondo libero più monete largamente utilizzate e molto simili. In vaste regioni una o due fra queste sarebbero dominanti, ma queste regioni non avrebbero confini né precisi né fissi, e l’uso delle monete dominanti in ognuna si sovrapporrebbe in zone frontaliere larghe e fluttuanti. La maggior parte di queste monete farebbe affidamento a un paniere di beni simili e fluttuerebbero molto poco le une in rapporto alle altre, probabilmente molto meno delle monete dei paesi oggi più stabili, ma un po’ di più delle monete che riposano su un gold standard.”

Sulla manifesta correlazione tra pensiero di von Hayek e “costruzione europea” in campo monetario, abbiamo la conferma, piuttosto autorevole e altamente attendibile, di Otmar Issing, ex membro tedesco del board BCE, pervenutaci in “atti ufficiali” della stessa banca europea:
Sebbene il sentiero prescelto per ottenere la denazionalizzazione della moneta sia stato molto differente rispetto a quanto reclamato da Hayek, l’obiettivo finale da egli ricercato, cioè la indipendenza monetaria dall’interferenza politica e la stabilità dei prezzi, sono state, a tutti i fini e intenti, già ottenute. Naturalmente, devo aggiungere…che la stabilità dei prezzi non è mai pienamente ottenuta, nel senso che è un concetto previsionale, e la BCE deve essere “eternamente” vigilante in modo preventivo per evitare che la pressione inflazionistica non si traduca in inflazione effettiva. Detto questo, temo che Hayek potesse non essere in favore di una nuova autorità centralizzata con poteri monopolistici sulla base monetaria”.

Ma, conformemente alla stessa esigenza di realizzazione “strategica” degli “obiettivi finali”, espressamente teorizzata da Hayek , recepita dai suoi seguaci “euro-costruttori” nella formula dell’ “ordoliberismo”, nonché condensata nella formulazione dell’art.3, par. 3, del Trattato fondamentale sull’Unione , l’affermazione a tappe, rese “digeribili” alle grandi platee dei cittadini delle democrazia (ex) coinvolte nell’UEM, potrebbe giungere al suo coronamento finale proprio grazie all’attuale progetto di Unione bancaria.

Cercando di concludere il ragionamento e di pervenire ad un’attendibile stima della “strategia” attualmente sottostante alla c.d. “unione bancaria”, quale illustrata nelle sue linee fondamentali, e nelle sostanziali premesse di disciplina bancaria e monetaria “europea”, (ormai consolidata), ecco dunque quello che si può ragionevolmente dedurre:
La progressione, o meglio “regressione”, verso la moneta denazionalizzata è il possibile esito del distacco degli intermediari bancari dal sistema produttivo nazionale originario e dal “sovrano”, senza la realizzazione dell'unità politica (gli Stati Uniti d'Europa).
Schematizzando al massimo:
1) la BCE nasce come banca centrale anomala perché non fa da “tesoriere” ad un sovrano. Compito della politica monetaria di una BC tradizionale è infatti proprio quello di conciliare le esigenze di finanziamento del sistema produttivo (tramite il rifinanziamento/controllo del sistema bancario) e dello Stato, tendendo ad obiettivi di livello dei prezzi e di crescita/occupazione in naturale conflitto (trade-off);
2) il fine dichiarato dell'unione bancaria è quello di spezzare (definitivamente) anche il legame fra sistema bancario nazionale e sovrano nel vicendevole scambio “finanziamento del debito pubblico vs. copertura dal rischio di fallimento”;
3) l'essenza e la novità del nuovo sistema di vigilanza europeo è il cd. “meccanismo unico di risoluzione” (in via di definizione a giorni), cioè di liquidazione accentrata degli attivi degli intermediari dichiarati in crisi (non si sa ancora da chi, forse Ecofin da proposta tedesca). Il costo della liquidazione è previsto principalmente a carico dei creditori (il famigerato bail-in), sdoganando la possibilità di fallimento delle banche. In teoria è sempre possibile per gli Stati intervenire con risorse di capitale per salvare gli intermediari dal fallimento, se compatibile con i limiti di finanza pubblica (in fase di avvio della vigilanza accentrata sono espressamente richieste agli stati risorse pubbliche, cd. backstop);
4) con queste regole e il mantenimento della mobilità dei capitali si attiveranno rapidi flussi finanziari verso gli intermediari ritenuti più sicuri (anche grazie a qualche sostegno pubblico), con grave nocumento per la stabilità di quelli radicati in territori con sistemi produttivi in recessione (es. per effetto della compressione della domanda interna) e, per la ridotta dimensione, senza la concreta possibilità di ricostituire il capitale;
5) il numero degli intermediari, seguendo la destrutturazione/ristrutturazione dei sistemi produttivi nelle macro regioni europee, si ridurrà di molto, come prevede il vice presidente della BCE. Estremizzando (è questa l'ipotesi forte del ragionamento) i maggiori potrebbero ridursi a 5-7 (in pratica saranno favoriti nella transizione quelli “sostenuti” da stati forti, il bail-out non è vietato (ma deve essere sempre nel rispetto del pareggio di bilancio, cioè, in pratica consentito solo a chi abbia un costante e consistente attivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, riversatasi una posizione netta sull’estero di segno positivo);
6) i pochi “player” rimasti (in oligopolio) potranno decidere di finanziare privati o entità pubbliche o intermediari minori (o di nicchia) assumendo i relativi rischi di credito e di essere “percepiti” più o meno affidabili nell'emissione di moneta-credito (potrebbero anche stabilirsi dei "cambi" fra monete in base al rischio percepito dagli utilizzatori).
7) La situazione sarebbe del tutto simile a quella immaginata da F. von Hayek.
La banca centrale che non fa da tesoriere a un sovrano perde anche la sua essenza di governo della politica monetaria e resta solo una entità amministrativa (più o meno estesa) dello stato minimo hayekkiano. In questo senso il sistema BCE/SEBC potrebbe rivelarsi solo un passaggio intermedio (come ha espressamente sostenuto Otmar Issing, sopra cit.).”

Naturalmente il futuro non è scritto. L'esito dello scontro fra le istanze politiche determinerà se prevarrà il magico mondo “von Hayek” o gli Stati Uniti d'Europa o il ritorno agli stati (democratici) con proprio “tesoriere”.”

E questo a tacere d’altro, con riguardo alle implicazioni ulteriori della Unione bancaria.

E cioè sia quanto alle incongruenze del sistema di assicurazione dei depositi (fino a 100.000 euro) proiettato nella segnalata realtà monetaria e bancaria ormai priva del riferimento dell’interesse generale (cioè indifferente al moral hazard ed all’effettivo rischio degli impieghi finanziari illimitatamente consentiti). Sia quanto alla stessa saggezza di farsi coinvolgere in un sistema simile, a fronte di un sistema bancario tedesco che non pare proprio aver risolto le sue problematiche di trasparenza dei bilanci e di capitalizzazione (e né avrebbe potuto o dovuto, data la disciplina “europea”) alla luce delle “scorie” della crisi c.d. dei sub-prime . Almeno a constatare la posizione che assumono attualmente le autorità monetarie USA.